Dal 2013, la qualità della didattica e della ricerca svolta negli Atenei italiani si avvale del sistema AVA (Autovalutazione – Valutazione periodica – Accreditamento) che ha l’obiettivo di migliorare le prestazioni degli Atenei attraverso l’applicazione di un modello di Assicurazione della Qualità (AQ), fondato su procedure interne di progettazione, gestione, autovalutazione e miglioramento delle attività formative e scientifiche, sulla base di una verifica esterna (Accreditamento) effettuata in modo chiaro e trasparente da parte del MIUR e attraverso l’attività valutativa dell’ANVUR.
In quest’ottica, anche l’Ateneo Vanvitelli è impegnato su tre obiettivi principali:

- erogare un servizio di qualità, adeguata ai propri utenti e alla società nel suo complesso;
- gestire in modo responsabile le risorse pubbliche e i comportamenti (collettivi e individuali) relativi alle attività di formazione e ricerca;
- migliorare la Qualità delle attività formative e di ricerca.

Il ciclo di incontri del V:QUALITY DAY, organizzato dalla Commissione Paritetica docenti-studenti della Scuola Politecnica delle Scienze di Base, si inserisce nel quadro dell’ampia attivita' divulgativa delle politiche della Qualità dell'Ateneo Vanvitelli, finalizzate a rendere gli studenti e i docenti informati e consapevoli sul sistema di Qualita' adottato dall'Ateneo e sul processo di Autovalutazione, Valutazione periodica e Accreditamento a cui siamo chiamati a rispondere in modo proattivo e responsabile.

Locandina
Tutti gli appuntamenti

 

14 novembre 2018
ore 10.30
Aula Magna S3
Dipartimento di
Architettura e Disegno Industriale
Aversa


20 novembre 2018
ore 12.00
Aulario Via Michelangelo
Dipartimento di Ingegneria
Aversa


22 novembre 2018
ore 9.00 -11.00
Aula E (Aulario)
AulaF (1° piano Dip.)
Dipartimento di
Matematica e Fisica
Caserta

Il giorno 23 Ottobre 2018 l’Aula Magna della Scuola Politecnica de delle Scienze di Base dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”  è stata teatro di un importante evento di Placement, finalizzato ad ispirare laureandi e laureati ad iniziare una carriera di successo presso la multinazionale Rolls-Royce, leader mondiale  nell’ambito di sistemi propulsivi aeronautici, marini e  nucleari.
Rolls-Royce, attualmente alla ricerca di giovani talenti per la partecipazione ai suoi Internship e Graduate programme (per le aree Engineering, Manufacturing Engineering, Commercial, Customer Management & Services, Health, Safety & Environment, Purchasing, Supply Chain Management, Operations Management, Project Management or Human Resources), ha presentato, nel corso della mattinata, opportunità di lavoro disponibili sia per stagisti che per laureati. Alla fine della presentazione, in cui tre membri del Rolls-Royce University Campus Team hanno  illustrato nel dettaglio anche i profili professionali ricercati, sono stati effettuati 44 colloqui one-to-one. L’iniziativa è stata recepita molto positivamente dal corpo docente che dagli studenti che hanno partecipato numerosi superando notevolmente le aspettative di  Rolls-Royce. I tre membri del Rolls-Royce University Campus Team (guidati dalla dottoressa Capano Benedetta) si sono congratulati con tutti i docenti presenti,  per l’ampia partecipazione studentesca (oltre 110 studenti), per le numerose domande che hanno seguito la presentazione dell’azienda, per il numero ci curriculum presentati ed infine per i colloqui one-to-one effettuati.  
Sicuri dell’efficacia dell’iniziativa e sempre convinti che le attività di placement siano da incoraggiare e da moltiplicare, auguriamo un sincero e convinto in bocca al lupo a tutti gli studenti che hanno effettuato i colloqui e attendono speranzosi di concretizzare i loro sogni lavorativi.

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Il Punto di Giuseppe Paolisso - Rettore dell'Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli

Una recente notizia diffusa al Congresso nazionale della Società Italiana di Geriatria e Gerontologia ha reso più giovani e più felici circa 7 milioni di italiani, spostando l’età per essere definiti anziani dai 65 ai 75 anni . Ma da dove nasce e perché questo spostamento del limite di età? Innanzitutto è bene precisare che l’Italia contende ormai da diversi anni al Giappone il primato mondiale della longevità con un incremento dell’aspettativa di vita negli ultimi 15 anni di 5 anni nelle donne e di circa 7 negli uomini. Questo grazie al miglioramento degli stili di vita, all’uso di farmaci sempre più appropriati ed una attenzione sempre più puntuale alla prevenzione e all’ambiente. Ovviamente abbiamo sempre più ultra90enni, ma soprattutto centenari (che nell’immaginario collettivo sono l’emblema della longevità) che hanno ormai superato largamente la quota di 15.000 e di circa 20 supercentenari (cioè con età superiore a 110 anni) (dati Istat al 1 gennaio 2018).

I dati in possesso dei geriatri ormai testimoniano in modo inequivocabile che i parametri biologici degli ultra 65enni di oggi non sono assolutamente differenti da quelli che 20 anni fa erano propri della fascia dei 50 anni e questo vale anche per quello che sono le performance di organi ed apparati. Quello che oggi è sotto gli occhi di tutti – che potrebbe sembrare assolutamente inutile da segnalare- è l’elevato numero di ultra65enni che svolgono attività sportive anche impegnative senza necessariamente sentirsi dei supereroi, che si confrontano non solo con pari età, ma anche con i più giovani in un concetto di competizione personale o di gruppo che, 30 anni fa, era da Ritorno al Futuro ed oggi di assoluta quotidianità.

Abbiamo scoperto in Italia l’Elisir di lunga vita o qualche alieno ci ha rivelato il segreto della vita “eterna”? Nulla di tutto questo o forse si. L’Elisir di lunga vita l’abbiamo in casa ed è la dieta mediterranea, ma non è solo questo. E l’insieme tra stili di vita, cibo, prevenzione, cure mediche e genetica che fa la differenza. L’Italia, infatti, è il miglior laboratorio al modo dove tutto ciò funziona al momento nel migliore dei modi. Abbiamo quindi il miglior metodo per invecchiare, ma una progressiva riduzione della natalità. Ne deriva che l’Italia si sta trasformando in un paese con l’età media sempre più elevata. Dobbiamo aspettarci a breve la carica dei 65enni. Dal punto di vista biologico i 65enni di oggi fanno analisi di laboratorio di controllo utilizzando un concetto di prevenzione che 20-30 anni fa era proprio dei 40 anni, e ottengono risultati di performance fisica che vengono interpretati alla luce di un allungamento della vita che ormai considera la morte ad 80 quasi “prematura”.

Se una volta i 65enni programmavano la loro vita in funzione della pensione e dell’essere nonni, oggi non è infrequente che un 65enne possa pensare a mettere su famiglia, andare in palestra per potenziare i muscoli, curare la propria immagine, pensare a investimenti finanziari per il “futuro”, comprare e guidare auto anche con cilindrata elevata, viaggiare, e se è possibile, iniziare un nuovo lavoro accentando sfide che a questa età, 30 anni orsono, erano inimmaginabili. Ovviamente tutto questo pone problematiche di politica socio-economica non facilmente affrontabili, specie se non ci si adegua e rapidamente ai tempi. Per esempio è realistico pensare oggi ad una età pensionabile intorno ai 65 per lavori non usuranti? È giusto che, superati i 65 anni, si acceda a dei privilegi offerti dal Servizio Sanitario Nazionale che forse oggi dovremmo posizionare un po’ più avanti dal punto vista anagrafico e cosi via. Quale sarebbe la spesa sociale per il welfare se prendessimo in considerazione non l’età di 65 ma di 75 anni per attivare i cosiddetti paracadute sociali?

Credo che sia importante iniziare velocemente un’attenta riflessione, perché il tempo passa, e la carica degli ultra65enni diventa sempre più pressante. Non essere attenti a tutto questo significa rimanere indietro, fare leggi inadeguate, avere discrepanze tra società reale e la società ideale. Qualcuno potrebbe pensare che tutto questo – in un paese in cui difficilmente i giovani ottengono posizioni di preminenza velocemente – possa condurre a ritardare ulteriormente l’inserimento dei giovani nelle sfere decisionali della società. Nulla di più falso. L’inserimento dei giovani nel modo del lavoro deve essere veloce ed efficace ma al tempo stesso dobbiamo adeguare il sistema Italia al progressivo allungamento della vita; ne va del futuro dei nostri figli e di coloro che li seguiranno .

Nei giorni scorsi, l’autunno si è subito presentato con una repentina variabilità delle temperature, maltempo ed accorciamento delle giornate con riduzione delle ore di luce solare, variazioni che, a nostra insaputa, hanno esposto l’organismo ad una serie di cambiamenti fisiologici e a rischio di sviluppare patologie. I cambiamenti climatici che si verificano dal passaggio dalla stagione estiva a quella autunnale, ed in generale nei cambiamenti di stagione, influenzano non solo le funzioni fisiologiche, ma anche quelle psicologiche. L’inizio dell’autunno coincide anche con il ritorno al lavoro e quindi con un impegno psicofisico e ritmi circadiani a cui ci eravamo disabituati durante l’estate. Il cambiamento stagionale può causare un senso di malessere, stanchezza, apatia, difficoltà a svegliarsi e problemi digestivi (dispepsia, bruciore di stomaco, colon irritabile, stipsi). Inoltre, si può verificare un incremento della caduta dei capelli. L’organismo è esposto ad uno stress termico, che riduce l’efficienza del sistema immune e ad un disturbo psicofisico causato prevalentemente dalla riduzione delle ore di luce solare. I cambiamenti di temperatura, di umidità e di luce causano un rischio di malattie da raffreddamento, spesso ad eziologia virale, di cui i sintomi più comuni sono raffreddore, mal di gola, tosse, febbre e dolori articolari, inoltre, influenzano anche i livelli dei neuromediatori, sostanze in grado di modificare l’umore, causando svogliatezza, astenia, facile affaticamento, insonnia e mal di testa.

La sensibile riduzione di ore di luce solare influenza in maniera negativa la nostra psiche causando temporaneamente apatia, malumore, depressione “stagionale” ed insonnia. Tali manifestazioni sono dovute alla riduzione, nel nostro cervello, di serotonina (ormone del buonumore) e dei livelli del suo derivato, la melatonina, sostanza fondamentale per il ritmo sonno-veglia.

L’arrivo dell’autunno, dunque, può causare una serie di disturbi che incidono sulla nostra salute psicofisica e sulle nostre capacità a riprendere i ritmi lavorativi di prima delle ferie estive. Lo stato di salute con il quale ci presentiamo al cambio di stagione incide in maniera importante sull’intensità dei disagi e quindi, uno stato di buona salute ci aiuta a mitigare gli effetti negativi causati dal cambiamento stagionale. I soggetti affetti da patologie croniche devono cercare di ottimizzare al massimo lo stato della loro malattia per migliorare i disagi che si possono presentare con l’arrivo dell’autunno. I soggetti “a rischio” (diabetici, cardiopatici, nefropatici ed anziani) devono essere sottoposti a vaccinazione antiinfluenzale. Bisogna evitare gli eccessi alimentari, in particolare il consumo di grassi, di prendere troppi caffè e di saltare i pasti, particolarmente la colazione, tutte condizioni che espongono il nostro organismo ad un affaticamento e stress. Al lavoro, bisognerebbe non trascorrere tutta la giornata seduti, quando è possibile fare una passeggiata, magari nei corridoi illuminati dalla luce naturale. Per incrementare l’attività fisica si dovrebbero fare le scale a piedi invece di usare l’ascensore. Di grande aiuto è praticare attività fisica all’aria aperta, anche semplicemente camminare per 30-60 minuti, in quanto favorisce la produzione di endorfine che hanno un effetto positivo sull’umore, riducono i dolori, migliorano l’ossigenazione dei tessuti e lo stato di depressione.

E’ necessario evitare le condizioni che facilitano le patologie da raffreddamento. In particolare, si dovrebbe evitare il fumo di sigarette che indebolisce le difese immunitarie; l’abbigliamento deve essere adeguato, cercando di coprirsi bene e soprattutto essere preparati per i cambiamenti repentini della temperatura (portare sempre un maglioncino ed un foulard e per chi va in moto un impermeabile da utilizzare all’occorrenza); evitare di farsi la doccia con acqua fredda e/o lo shock termico ambientale dopo la doccia; dormire con un adeguato copriletto; evitare di frequentare luoghi troppo affollati dove è possibile entrare in contatto con persone raffreddate o influenzate e quindi esporsi al contagio. Può essere di aiuto prendere le vitamine del complesso B, regolatrici delle funzioni del sistema nervoso e la vitamina C, che rafforza le difese verso le patologie da raffreddamento, aiuta la funzione surrenalica e attiva la produzione di endorfine. Di qualche utilità può essere l’utilizzo di fermenti lattici e di yogurt magri che modulano la flora intestinale. Nei soggetti che hanno già una patologia da raffreddamento è consigliato il riposo a casa in ambiente caldo ed isolato, anche per evitare di trasmette la patologia ad altri soggetti. Possono essere di aiuto l’utilizzo di agrumi, aglio, cipolla, lattuga e zenzero, mentre dovrebbe essere ridotto l’uso di carne rossa, cibi grassi, dolciumi e fritture.

Per prevenire o combattere la malinconia, il malessere e lo stato di depressione stagionale è di grande aiuto avere una alimentazione idonea con cibi in grado di stimolare la produzione di serotonina, ovvero ricchi del suo precursore, il triptofano. In particolare, con l’arrivo dell’autunno, dovrebbe essere incrementato l’utilizzo di cereali integrali e legumi (avena, orzo, farro, fagioli, ceci, piselli) che forniscono carboidrati a lento assorbimento favorendo la sintesi di serotonina ed, inoltre, sono ricchi di triptofano e vitamina B; di verdura fresca (spinaci, cavoli, bieta, carote, zucca, broccoli, funghi); di frutta fresca e secca (noci, nocciole, mandorle); di carboidrati complessi (pasta, pane, riso integrale); di proteine provenienti dalle carni bianche (pollo, tacchino, coniglio), dalle uova e dal latte e latticini che sono ricchi di triptofano; di pesce “grasso” (salmone, tonno, sgombro, sarde, alici) ricco di omega 3 e 6 e dotato di effetto antidepressivo; di usare come dolcificante il miele; di concedersi occasionalmente un pezzetto di cioccolata fondente, eccellente anti-depressivo ed anti-stress.

In sintesi, la prevenzione ed il trattamento delle alterazioni psicofisiche indotte dall’arrivo della stagione autunnale devono essere affrontate con grande buon senso ed equilibrio tra attività fisica, alimentazione, buona gestione delle condizioni stressanti, comportamento idoneo alla stagione ed uso di integratori, il tutto inteso a rafforzare le difese naturali dell’organismo.

Prof. Luigi Elio Adinolfi
Professore Ordinario di Medicina Interna
Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli
Direttore della Scuola di Specializzazione in Medicina Interna e dell’U.O.C. di Medicina Interna.

Il Punto di Giuseppe Paolisso - Rettore dell'Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli

Lo scorso 20 settembre il ministero dell'Università e della ricerca (Miur) ha attribuito 7.4 miliardi quali Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) alle università statali e ai consorzi universitari con una serie di giudizi contrastanti da parte del mondo universitario. Per poter meglio interpretare tali giudizi è necessario però fare alcune precisazioni. In piena crisi finanziaria e in contro tendenza con quanto hanno fatto la maggior parte dei governi dei paesi Ocse, Germania in testa, i governi italiani dal 2008 al 2013 hanno tagliato il finanziamento agli atenei statali di 1.4 miliardi di curo. Questo deprecabile atteggiamento non ha certo favorito l'uscita del paese dalla crisi, anzi ne ha rallentata la soluzione. Dal 2013, quando il Ffo è stato di 6.7 miliardi, si è avuta un'inversione di tendenza raggiungendo i valori attuali con un +9% in 5 anni. Quindi la notizia positiva è che l'Ffo è ora in crescita.

Ma perché i malumori? Bisogna analizzare com'è costituito il Fondo di finanziamento ordinario per capirne le ragioni.

A) Per permettere all'università di crescere e investire, il Ffo deve cresce essenzialmente in voci non vincolate, ma se avviene il contrario (per esempio i fondi per i dipartimenti di eccellenza operazione assolutamente meritoria dovrebbero essere in più e non compresi nel Ffo) è evidente che la crescita è solo apparente, perché il differenziale non entra nella reale disponibilità degli atenei per la loro libera possibilità di sviluppo e di investimenti.

B) Una quota parte del Ffo (105 milioni) è rappresentata dal recupero della No Tax Area. Nella legge di stabilità del 2017 fu introdotto con il parere favorevole della Conferenza dei rettori un ampliamento della fascia di esenzione totale per reddito per l'iscrizione all'università per favorire un incremento del numero degli iscritti. Operazione socialmente eccellente, ma al tempo stesso fu chiesto agli atenei di quantificare il mancato introito in termini di tasse, per avere un ristoro degli stessi con fondi del ministero dell'Università. Il costo totale di quest'operazione si aggirava intorno ai 200 milioni/anno, ma il governo nel fondo di finanziamento ordinario 2017 restituì agli atenei 50 milioni. Il disavanzo generato nei vari bilanci ha obbligato molti atenei a una rivalutazione delle tasse d'iscrizione per i più abbienti con un inevitabile "malumore" da parte degli studenti. Quindi i 105 milioni di quest'anno fanno crescere il Ffo ma generano ancora un disavanzo di circa 100 milioni per la No Tax Area.

C) L'edilizia e i servizi (così come messo in luce dai recenti dati Censis dello scorso luglio) specie al Sud, rappresentano uno dei talloni di Achille degli atenei. E obbligo degli atenei migliorare i servizi agli studenti (magari anche con il contributo delle Agenzie regionali per il diritto allo studio). Tuttavia se la possibilità d'investimenti degli atenei è ridotta per l'insufficiente attribuzione di una quota di Ffo non vincolata, queste possibilità non solo sono estremamente ridotte, ma addirittura contribuiscono ad accrescere il divario Sud-Nord dove gli atenei hanno una capacita/possibilità impositiva collegata al maggiore reddito pro-capite dei propri cittadini. È quindi necessario prevedere un nuovo piano straordinario di interventi per l'edilizia degli atenei che sia aggiuntivo e svincolato dal Ffo.

D) Legare una quota parte del fondo premiale del Ffo alle politiche di reclutamento è un principio di sana meritocrazia che deve considerarsi inviolabile, ma devono esserne meglio definiti i parametri in cui si muove. Se la legge 240 del 2010 prevede che gli atenei possano scegliere per le promozioni di grado tra l'articolo 24 che utilizza solo una selezione interna quindi più limitata e con l'utilizzo di poche risorse, e l'articolo 18 che invece prevede una selezione aperta sul territorio nazionale con più scelta ma con un maggiore dispendio di risorse, poiché l'articolo 24 viene spesso utilizzato dagli atenei che hanno una carenza di risorse (punti organico), siamo sicuri che valutiamo tutti con lo stesso criterio oggettivo che permette di mettere tutti allo stesso livello? O piuttosto a chi ha meno risorse di base rischiamo di attribuire ancora meno risorse aggiuntive? Queste sono in sintesi i maggiori problemi del Ffo e i motivi dei contrastanti giudizi. E però necessario concludere che sebbene tra grandi difficoltà, la crescita del Ffo è un dato di fatto positivo e come tale deve essere accolto, anche se la necessità di alcuni cambiamenti procedurali credo sarà nei prossimi anni ineluttabile.

Tratto da Repubblica del 25 settembre 2018

 

«Per uscire dalla crisi, l'Anm deve passare attraverso un grande lavoro di riqualificazione complessiva, che purtroppo, come spesso accade, deve partire da tagli. La cosa importante è che siano i più efficienti possibili. I napoletani e i dipendenti dovranno avere pazienza. Per qualche anno prevedo tempi duri per i trasporti. Ma mi auguro sia l'ultimo atto, prima del rilancio di un'azienda storica, che possa diventare di qualità». Non ha dubbi Armando Cartenì, docente di Pianificazione dei Trasporti dell'Università della Campania "Luigi Vanvitelli".
Il risanamento passerà anche per i tagli e la revisione delle linee bus. Era inevitabile? «Un riassetto dovuto. Le linee bus di Napoli hanno grandissimi margini di efficientamento. Ci sono pullman che viaggiano con poche unità, non decine, di passeggeri al giorno. Purtroppo, c'è sempre il dilemma di quanto il diritto alla mobilità vada garantito, anche se per pochissimi. Ma per un'azienda che deve fare affidamento su performance privatistiche, credo che una linea bus debba avere un minimo di redditività per essere garantita».

Non c'è il rischio di un impatto troppo forte sulla città? «La riforma va fatta per gradi e in maniera competente. Si provi il dispositivo per qualche mese. Eventualmente si correggerà. Certo, ci sarà sempre qualcuno che protesterà, ma il bilancio si fa alla fine».

Per alcune tratte si punterà tutto sul metrò, basterà? «La linea su ferro deve essere il fiore all'occhiello della città. E lo sarà sempre di più, con la chiusura dell'anello per Capodichino. In questo quadro vedo anche la Linea 6, un'opera strategica che fa un tutt'uno con la Linea 1, e dovrebbe esserlo anche nella gestione con Anm».

L'evasione sui bus resta sopra il 50%: fenomeno inarrestabile a Napoli? «I dati vanno ponderati. In realtà, gli ultimi studi hanno accorciato la forbice Nord-Sud. Sui bus si evade di più, perché mancano le tecnologie come i tornelli e i ticket elettronici. L'unica leva è intensificare il controllo».

Resta il problema di un parco mezzi vecchissimo, con bus di oltre 20 anni. «È un tema importante. Ma tutta l'Italia ha poco da stare allegra. Il parco circolante nazionale è tra i più vetusti d'Europa. Abbiamo uno spread della mobilità molto accentuato, di 5-7 anni mediamente più vecchio dei paesi industrializzati. E il divario tra Nord e Sud è ancora più accentuato. Paradossalmente, avendo molto da rinnovare, possiamo vederla come un'opportunità. Oggi un bus inquina 6-7 volte più di un'auto. Il governo ha previsto importanti finanziamenti per svecchiare i bus pubblici. E l'occasione per puntare su mezzi ecologici, a gas, metano e elettricità».

Il 3 luglio, l'Anm presenterà il piano di risanamento al Tribunale fallimentare, che si aspetta? «Un'azienda più snella e funzionale. Da un punto di vista sociale, un'azienda pubblica che prospetta tagli di personale sembra poco vincente. Tuttavia, da tecnico, posso dire che oggi il rapporto dipendenti totali rispetto agli autisti è fuori da ogni logica di un'azienda di trasporto collettivo».

Se l'Anm si salverà dal crac cosa accadrà? «Messi a posto i conti, credo che nel breve periodo ci sarà una fase di difficoltà sia per i dipendenti che per gli utenti. Ma servirà da passaggio per il rilancio».

Che ne pensa delle proteste e delle funicolari chiuse per il boom di ammalati? «Non è una bella immagine. Ma è comprensibile: quando un lavoratore si sente minacciato, la prima reazione è la paura. Se i sacrifici saranno inquadrati in un piano strategico in cui sono evidenziate le varie fasi nel tempo, l'operazione può essere letta con maggiore fiducia».

L'ipotesi di un'apertura ai privati? «Non la escludo, ma prima bisogna rimettere l'Anm in salute, attraverso una prima fase di razionalizzazione e rinnovamento e aziendale. La situazione è troppo critica per rendere il mercato appetibile a un soggetto pubblico-privato». 

Tratto dall'articolo de Il Mattino del 27 giugno 2018 di Pierluigi Frattasi

Il punto di Nadia Barrella, docente di Museologia e Critica artistica e del restauro

Presentata al Dipartimento di Lettere e Beni Culturali un’app dedicata ai consumi culturali. Si chiama ME: Mie esperienze ed è l'app ideata da Stefano Balassone, a lungo vicedirettore Rai e consigliere d’amministrazione della stessa, produttore e autore televisivo e testata dagli studenti del corso di studi Museologia, che ne discuteranno, insieme ad alcuni colleghi da me coinvolti, con il suo ideatore.

Premesse teoriche dell’app l’idea che la conoscenza sia la precondizione del consumo e la necessità di realizzare una porta d’accesso unica e accogliente alle occasioni di cultura e di intrattenimento. L’app ha però anche un’altra funzione. Coglie il punto di vista del fruitore verso le offerte della creatività e consente di riorganizzare il mare magnum delle informazioni sui consumi culturali consentendo di esplorarlo a profondità finora non accessibili. E’ per questa ragione che, d’accordo con Balassone, abbiamo pensato di verificare la possibilità di una sua diffusione territoriale della piattaforma. Procederemo, infatti, coinvolgendo amministrazioni comunali e centri di cultura della provincia di Caserta, per realizzare, a fine 2018 o inizi '19, un incontro di zona che racconti quanto emerga e consentire riflessioni sui consumi culturali. Questi verranno testati attraverso uno strumento in grado di restituire un'immagine molto diversa da quelle solitamente fornite dall'Istat o da altri centri di progettazione culturale»

Ciò che è particolarmente interessante è che il Dipartimento di Lettere e Beni Culturale possa diventare sia uno spazio di sperimentazione di questo strumento, ma anche, data la possibilità offertaci di implementare l'app, uno spazio di scelta e di condivisione di eventi culturali. L'applicazione sarà, infine, uno strumento che connetterà ancora meglio l'Ateneo al territorio, in linea con la cosiddetta terza missione universitaria.
L’app è scaricabile gratuitamente da Play Store e disponibile per Iphone e Android.

Il Punto di Giuseppe Paolisso - Rettore dell'Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli

Nell'articolo di Federico Fubini apparso sul Corriere della Sera il 4 marzo dal titolo «Rettori indigeni» si sottolinea il parziale immobilismo in cui versa l'Università italiana, a fronte di un maggiore flusso di professori che esiste nelle università nord europee e sopratutto americane. Le conclusioni sono certamente vere ma l'analisi del perché necessita una serie di approfondimenti.

Innanzitutto bisogna ricordare che la Legge Gelmini ha cancellato l'istituto amministrativo del trasferimento, e che gli spostamenti dei professori tra Atenei può avvenire solo per concorso nazionale a cui possono accedere tutti coloro che hanno titolo per farlo, ivi compresi coloro che occupano la stessa posizione presso un'altra università. Quindi se un professore ordinario di Diritto Privato vuole passare dall'Università di Napoli a quella di Tor Vergata deve avere la possibilità di candidarsi in un concorso di professore ordinario che l'Università di Tor Vergata dovrà innanzitutto bandire.

Questo significa due cose: a) c'è la necessità che un Ateneo bandisca un concorso (a cui tra l'atro possono accedere anche coloro che vorrebbero diventare ordinari in quella disciplina e non solo coloro che ambiscono al trasferimento); b) per attivare questa procedura è necessario appostare delle risorse da parte dell'Ateneo che attiva la procedura concorsuale.

Ciò premesso se il concorso va a buon fine e il prof ordinario di Diritto Privato di Napoli va a Tor Vergata quello che si verifica in termini amministrativi e contabili è che nel bilancio dell'Università di Napoli si libera un budget che rientra nella disponibilità dell'Ateneo mentre in quella di Tor Vergata una porzione di budget viene occupata per l'assunzione del nuovo collega di Napoli. Quindi in puri termini di bilancio l'Università di Napoli guadagna budget e quella di Tor Vergata impiega budget. In più se il prof ordinario di Napoli che va a Tor Vergata dispone di fondi di ricerca tipo i Prin (Progetti di ricerca di interesse nazionale) da Napoli non li può trasferire a Roma e quindi li perde. Se invece a vincere il concorso di prof ordinario di Diritto Privato fosse un prof Associato di Tor Vergata, il solo cambio di qualifica interno permetterebbe all'Università di Tor Vergata di risparmiare circa il 75% del budget. E in questo ovviamente ha perfettamente ragione il collega Ubertini di Bologna nel dire che questo meccanismo favorisce indirettamente i candidati interni. Ma la soluzione potrebbe essere abbastanza semplice con una modifica delle legge attuale che magari preveda che dopo almeno 3 anni di permanenza nel ruolo universitario ogni docente diventi «possessore» del proprio budget che lo segue in caso di trasferimento, che dovrebbe avvenire non mediante concorso ma attraverso una chiamata diretta. A quel punto l'Università che perde il docente perde anche il budget (e ovviamente dovrebbe chiedersi il perché) e quella che accetta il docente avrebbe docente e budget e in questo caso guadagnerebbe da entrambi i punti di vista.

Un'ipotesi del genere favorirebbe un maggior flusso di professori incentivando ulteriormente il merito perché i migliori andrebbero dove ci sono più ottimali condizioni di lavoro e non si sentirebbero «prigionieri» delle regole amministrative, incentivando quello scambio di persone e di idee che è sempre stato alla base dei grandi sistemi universitari.

Al confronto e la competizione sarebbero più spinti anche nelle Università statali e, tutti, iniziando dagli studenti, ne trarrebbero benefici incredibili, le Università più forti si rafforzerebbero e quelle minori andrebbero incontro a un naturale ridimensionamento indipendentemente da distribuzioni cervellotiche di finanziamenti per le eccellenze, difficile da capire anche per gli addetti ai lavori. Inoltre questo meccanismo potrebbe favorire fisiologici accorpamenti per creare Centri di Eccellenza per la ricerca e la didattica. Se così fosse, un professore di Napoli potrebbe diventare Rettore a Milano o Palermo e non avremmo più «rettori indigeni», rettori che comunque per svolgere questo ruolo devono avere idea di quelle che sono le necessità e le ambizioni dell'ateneo in cui lavorano e delle esigenze del territorio e che quindi hanno bisogno di tempo dopo un eventuale trasferimento prima di voler ambire a ricoprire quel ruolo.

E' una riforma semplice senza alcun aggravio di costi e dai potenziali grandi risultati per il sistema universitario ma resta da capire perché nessuno ci pensi e la proponga. Ci sarà forse un motivo ma io non riesco proprio a capirlo.

Tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 09 marzo 2018

 

Nel 2018, l’Università della Campania Luigi Vanvitelli rilancia gli investimenti per la ricerca puntando sul capitale umano e sulle tecnologie innovative.

Seguendo il sentiero tracciato dal successo del programma VALERE nel 2017 (VAnviteLli pEr la RicErca: VALERE), l’Università della Campania Luigi Vanvitelli ha pertanto lanciato il PROGRAMMA VALERE-plus investendo oltre 14 milioni di euro nell’anno 2018. Goals del programma VALERE-plus (Valere di più) sono le idee, l’innovazione tecnologica e i giovani, consentendo, in prospettiva, l’ulteriore miglioramento dell’Ateneo e garantendo all’Ateneo una dimensione internazionale.

Ecco, dunque, con VALERE-plus il finanziamento di 40 nuove posizioni triennali per dottorandi (di cui ben 28 riservate a studenti internazionali: candidati con il titolo di studio d’accesso conseguito in terra straniera) e oltre 32 nuove posizioni per giovani talenti a cui attribuire assegni di Ricerca nel 2018. VALERE-plus premia quindi l’internazionalizzazione, agevolando una visione globale della Ricerca nella sua accezione più ampia. Per i candidati di particolare distinzione ed eccellenza nel 2017 è previsto il rinnovo dell’assegno, previa una valutazione dell’eccellenza e dei risultati conseguiti. In tutti i casi, sono garantiti vantaggi economici per gli studenti non residenti in Campania, orientando VALERE-plus all’integrazione degli studenti nazionali ed internazionali per facilitare ancor più la visibilità della Vanvitelli nello scenario internazionale.

VALERE-plus finanzia inoltre bandi competitivi intra-Ateneo e premi di ricerca imprenditoriale per una fusione ottimale fra realtà accademica e industriale. Contestualmente, VALERE-plus ha in sé rigidi processi valutativi che assicurano un controllo meritocratico e una selezione delle migliori idee e dei giovani con più talento, quelli su cui puntare.

Ma premiare i giovani e le idee significa necessariamente credere nelle tecnologie innovative per rendere la Vanvitelli unica sul territorio. Ecco, dunque, una grande novità: un investimento di ben 10 milioni di euro sulle più moderne tecnologie. Non solo l’acquisizione, ma il progresso ‘beyond the state of the art’, con la creazione di nuove tecnologie che permettano l’integrazione dei giovani anche se in formazione, ‘la nostra squadra’, e la realizzazione di nuovi gruppi di ricerca con un taglio multidisciplinare per il nostro Ateneo. In prospettiva, questa strategia affianca l’evoluzione tecnologica a una formazione avanzata, che risponda alla necessità d’integrazione fra formazione e nuovi approcci tecnologici.

Un'ulteriore originalità del programma VALERE-plus sono le tavole rotonde dell’eccellenza (the excellence round tables), l’organizzazione d’incontri con momenti di discussione ed interazione fra punte d’eccellenza internazionale (come ad esempio vincitori di premi Nobel in campi diversi d’interesse della ricerca in Ateneo), i giovani ricercatori, gli studenti ed i gruppi di ricerca multidisciplinare. Uno scambio d’idee per un rapporto diretto e discussione alla pari che crei sinergia fra l’esperienza, l’eccellenza e le giovani menti. In prospettiva quest’atteggiamento virtuoso, orientato verso la diversificazione delle idee, appoggia il confronto delle differenti aree di ricerca spingendo l’Ateneo a migliorare la qualità della ricerca e l’acquisizione d’idee, di fondi per attuarle, in un assetto internazionale.

Per noi della Vanvitelli, investire nel VALERE-plus rappresenta la continuità di un progetto già intrapreso nel 2017 per solidificare la nostra posizione sul territorio regionale e nazionale.

VALERE-plus assicura il conseguimento duraturo di nuove competenze, l’acquisizione di posti di lavoro in sede ed affianca il progresso tecnologico ad una formazione moderna.

Non promesse, ma una solida realtà che sostenga la duratura eccellenza.

 

di Lucia Altucci, docente di Patologia Generale al Biochimica, Biofisica e Patologia generale all'Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli

Si chiama “Dipendenza da videogiochi” ed ora è ufficialmente una patologia. Perdita del controllo sul tempo dedicato al gioco, obesità e scarsa concentrazione e drastica riduzione delle relazioni interpersonali sono alcuni dei sintomi. La dipendenza da videogiochi sarà infatti inserita nel capitolo delle “Dipendenze comportamentali” nell’undicesima edizione dell’International Classification of Diseases (ICD), che verrà approvata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità durante l’assemblea generale che si svolgerà a Ginevra dal 21 al 26 maggio di quest’anno.

 

Definizione

La Dipendenza da videogiochi è caratterizzata da “un pattern persistente o ricorrente nel comportamento da gioco che si manifesta quando viene data priorità ai videogiochi fino al punto che essi abbiano la precedenza su altri interessi e attività quotidiane, e proseguimento dell’attività video-ludica nonostante il verificarsi di conseguenze negative”. Affinchè sia considerato un disturbo, la dipendenza da videogiochi deve determinare un “significativo danno personale, familiare, sociale, educativo e/o professionale”.

È la prima volta che un disturbo legato all’uso eccessivo dei videogiochi viene riconosciuto ufficialmente dalla comunità medica tra le condizioni patologiche che necessitano di attenzione clinica.

 

Due forme di dipendenza da videogiochi

Quella online (quando il soggetto deve essere necessariamente collegato a Internet) e una offline (in cui il gioco è svolto prevalentemente in solitudine). Si tratta di due forme sostanzialmente diverse da un punto di vista psicopatologico.

Chi soffre della forma da dipendenza online è solitamente una persona molto competitiva, che preferisce trascorrere il tempo libero con gli amici conosciuti in rete, convincendosi che queste relazioni siano più vere e intense rispetto a quelle della vita reale.

Le persone affette dalla forma offline invece sono solitamente chiuse, introverse, timide, con tendenza all’isolamento. Si tratterebbe in pratica di quel disturbo per il quale i giapponesi qualche anno fa avevano coniato il termine di Hikikomori, cioè la tendenza al ritiro sociale.

La dipendenza da videogiochi si presenta in genere negli adolescenti, ma alcuni studi documentano che anche gli adulti over 35 anni possano sviluppare questa forma di dipendenza. Non è ancora nota la reale portata del fenomeno proprio a causa della mancanza di una diagnosi specifica prima della pubblicazione dell’ICD-11.

 

I sintomi

Da un punto di vista clinico, per diagnosticare la dipendenza da videogames è necessario che siano presenti le seguenti caratteristiche: 1) perdita del controllo sul tempo dedicato al gioco; 2) priorità data al videogame rispetto alle altre attività della vita quotidiana (compreso il mangiare, il bere e il dormire); 3) persistenza del comportamento e incapacità di interrompere il gioco nonostante gli effetti negativi e i richiami dei genitori.

Le conseguenze per la salute sono molteplici e sono a carico della sfera psichica, fisica e relazionale. Per quanto riguarda i sintomi psichici, i ragazzi cominciano a mostrare irritabilità, ostilità, aggressività, nervosismo, insonnia, disturbi d’ansia, astrazione dalla realtà.  I sintomi fisici includono obesità, aumento della pressione sanguigna, difficoltà visive, aumento del colesterolo, delle lipoproteine a bassa densità e dei trigliceridi, con rischi per la salute cardiometabolica. Da un punto di vista sociale, si assiste a una drastica riduzione delle relazioni interpersonali, con solitudine, abbandono degli hobbies, calo delle prestazioni scolastiche, difficoltà di concentrazione. Considerato che si tratta di persone giovani, i rischi sulla salute nella vita adulta sono facilmente comprensibili.

 

Lo studio

Il Dipartimento di Psichiatria dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli diretto dal Prof. Mario Maj ha partecipato recentemente a uno studio promosso dal Dipartimento per le Politiche antidroga della Presidenza del Consiglio dei Ministri e condotto in tre università italiane (Napoli, Brescia, Pisa), a cui hanno partecipato oltre 3000 studenti universitari italiani. Lo studio, attualmente in fase di pubblicazione su una prestigiosa rivista internazionale,  ha documentato che il rischio di sviluppare il disturbo da dipendenza da videogiochi è maggiore nei soggetti di sesso maschile, mentre le ragazze fanno più frequentemente uso dei social network quali Facebook, Twitter e Instagram.

 

Cosa fare      

Attualmente non esistono trattamenti validati per questo disturbo. La comunità scientifica è concorde nel sottolineare l’importanza della prevenzione della dipendenza da videogiochi. I genitori dovrebbero utilizzare meno gli smartphone e i tablet quando sono a casa con i propri figli, soprattutto nei momenti di incontro delle famiglie come il pranzo o la cena. C’è bisogno di migliorare il dialogo all’interno della famiglia e di promuovere attività familiari condivise, cercando di evitare di rinchiudersi in mondi virtuali in cui non c’è accesso per l’altro. Le scuole dovrebbero sensibilizzare gli studenti all’uso corretto delle nuove tecnologie. Nei casi più seri, sono indicati trattamenti psicoterapici, come la terapia cognitivo-comportamentale e la terapia motivazionale, che si sono dimostrati efficaci nel ridurre la dipendenza e migliorare la partecipazione sociale. Tuttavia, mancano ancora dati sull’efficacia a lungo termine di queste terapie.

 

di Andrea Fiorillo - Dipartimento di Salute Mentale dell’Università Vanvitelli

 

Il Punto di Giuseppe Paolisso - Rettore dell'Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli

Nelle prossime settimane in tutti gli Atenei italiani ci saranno una serie manifestazioni legate all'orientamento, che dovrebbe permettere agli studenti delle Scuole Secondarie e Tecniche di poter scegliere in modo consapevole la loro Università ed il loro corso di Laurea. Una scelta consapevole, che dovrebbe comprendere la conoscenza dei percorsi didattici ed il desiderio di sentirsi realizzati dal punto di vista lavorativo con un'elevata capacità di raggiungere in tempi sufficientemente rapidi la laurea.

Ma è realmente così? Purtroppo al fronte delle numerose manifestazioni di orientamento organizzate dagli Atenei italiani, più del 20% degli studenti lascia l'Università dopo un solo anno di corso con una tendenza all'aumento negli anni successivi raggiungendo in qualche caso anche il 45% dopo 3 anni dall'iscrizione. A dieci anni di distanza dall'immatricolazione solo il 30% degli studenti si laurea mentre il tasso di abbondano sale al 57% delle iniziali matricole. Solo Medicina ha dei tassi di abbandono tra il 6 e 7% al termine del percorso di studio, probabilmente legato alla selezione iniziale e alla forti motivazioni che spingono uno studente a superare l'esame di ammissione e il relativo ciclo di esami per laurearsi. L'elevato tasso di abbandono universitario pone l'Italia nei posti più bassi delle classifiche europee per numero di laureati in rapporto alla popolazione: solo il 24% dei giovani tra i 25 e i 35 anni porta a compimento gli studi contro il 35% del resto di Europa.

L'abbandono degli studi universitari rappresenta un problema molto serio per il sistema paese in termini di sviluppo dell'economia e del benessere sociale. Ma quali sono le cause dell'abbandono degli studi universitari? Innanzitutto fattori sociali quali la condizione economica culturale della famiglia di appartenza, responsabilità specifiche degli Atenei legate alla qualità della didattica o alla disponibilità di servizi agli studenti, ed infine ma non per ultimo come importanza, una carenza nell'orientamento. In realtà la maggioranza delle manifestazioni di orientamento non sono altro che delle occasioni in cui l'Ateneo cerca di invogliare gli studenti ad iscriversi ad esso. Quindi le manifestazioni di orientamento da meccanismo di comprensione dei processi didattici utili per inserirsi nel mondo del lavoro, si trasformano in processi di marketing per aumentare il numero delle immatricolazioni. In realtà l'orientamento è cosa ben più complessa che la manifestazioni attuali. Infatti l'orientamento dovrebbe divedersi in 3 fasi: orientamento all'interno della Scuola Secondari e Tecniche, in ingresso all'università ed in itinere. La prima fase è quella dell'orientamento integrato Scuola-Università che dovrebbe essere capillare e coinvolgere obbligatoriamente tutte le Scuole Secondarie (e non solo quelle scelte dalle università), partire almeno dal quarto anno delle Scuola Secondaria ed essere basato sulla trasmissione delle informazioni utili a una scelta post-diploma. Quanti studenti degli Istituti Tecnici sanno che in Italia ci sarà bisogno nei prossimi 5 anni di circa 280.000 periti o laureati professionalizzati di cui 49.000 addetti al settore alimentare e 47.000 al settore tessile giusto per citare due rami aziendali che da sempre rappresentano l'eccellenza del made in Italy? Io credo non molti, visto che gran parte degli abbandoni sono anche il frutto degli studi fatti (circa il 29% sono i diplomati ai Licei mentre il tasso sale anche al 60% quando si considerano gli Istituti Tecnici). Certo aver studiato presso gli Istituti Tecnici non può essere una condanna a non iscriversi all'Università ma forse il tipo di preparazione è più adatta ad una rapida immissione nel mondo del lavoro che a proseguire gli studi. La fase dell'orientamento in ingresso consiste nella verifica delle conoscenze in ingresso all'università mentre nella fase dell'orientamento in itinere agli studenti neo-immatricolati con una preparazione più debole sono offerti percorsi didattici propedeutici o di accompagnamento organizzati per gruppi affini proprio per ridurre gli abbandoni. La terza fase è quella maggiormente realizzata nei corsi di laurea tecnologici. Purtroppo però una precisa strutturazione del percorso di orientamento necessita di investimenti in risorse umane e finanziare adeguate che al momento sono del tutto carenti. Si tratta però di un investimento utile che potrebbe permettere di raggiungere l'obiettivo di portare l'Italia più vicino alle medie europee in termini di laureati, salvaguardando la qualità dei corsi di studio ed offrendo una preparazione di qualità ad un più elevato numero di studenti. Un investimento inziale che sarebbe sicuramente recuperato a regime con rilevanti risparmi sulla spesa complessiva, anche se un investimento i cui effetti benefici si vedrebbero nel medio lungo termine e quindi per questo forse non molto gradito alla politica che ama tempi molto più rapidi per la valutazione dei benefici degli investimenti.

Tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 20 febbraio 2018

 

Uno degli obiettivi primari della Vanvitelli è la Ricerca di qualità.

E la ricerca di qualità è dei giovani, originali ed entusiasti.

Seguendo quest’ideale, la Vanvitelli ha pertanto creato il PROGRAMMA VALERE (VAnviteLli pEr la RicErca: VALERE) investendo sulla Ricerca e sul proprio capitale umano oltre 10 milioni e mezzo di euro, solo nel 2017. Target del VALERE sono le idee e i giovani. Stimolare le giovani menti a credere nelle proprie capacità e nel valore della Ricerca. Investire nel VALERE, si ripaga da solo, consentendo in prospettiva un salto di qualità dell’Ateneo.

Ecco perché, VALERE ha finanziato oltre 91 nuove positions per giovani talenti fra RTD-A, assegni di Ricerca, e PhD, solo nel 2017. VALERE finanzia inoltre bandi competitivi intra-Ateneo per i giovani (in modo da avviarli alla partecipazione a bandi internazionali), e premi di ricerca imprenditoriale, curricula di formazione medica volti alla Ricerca (con borsa di studio per tutto il periodo di studio e senza tasse accademiche), dipartimenti di eccellenza, mezzi per l’identificazione di bandi competitivi nazionali ed internazionali, Open Access, etc.

Il programma VALERE tende a valorizzare il numero e la qualità dei giovani ricercatori nel nostro Ateneo creando una ‘squadra’ giovane, ….la primavera della Vanvitelli.

Il programma VALERE premia le idee e i giovani, cerca di evitare la fuga garantendo il rientro e il rinnovo dei cervelli. Assegni di ricerca, PhD positions e RTD-A sono distribuiti in modo equo fra diversi Dipartimenti e collegi delle scuole di dottorato (a rappresentare le diverse aree su cui il nostro Ateneo eccelle), facilitando lo sviluppo di ricerca anche nelle ‘comunità’ numericamente minori o con meno finanziamenti. Contestualmente, però, VALERE ha in sé premi, applicazioni competitive e processi valutativi che garantiscono un controllo meritocratico ed una selezione delle migliori idee e dei giovani con più talento, quelli su cui puntare. Ecco perché VALERE premia anche il rientro o l’internazionalizzazione con posizioni per candidati internazionali o con ampia esperienza estera, onde assicurare l’integrazione dei processi di confronto accademico, facilitando una visione globale della Ricerca nella sua accezione più ampia e garantendo il network, l’evoluzione multidisciplinare e la disseminazione delle idee.

In prospettiva quest’atteggiamento virtuoso, seppur orientato verso la diversificazione delle idee, facilita un miglioramento omogeneo nelle differenti aree di ricerca spingendo l’Ateneo intero a migliorare la qualità della ricerca e l’acquisizione di idee e fondi per attuarle.

Per noi della Vanvitelli, investire nel VALERE rappresenta anche la volontà di recupero e evoluzione sul territorio regionale e nazionale, un mezzo per facilitare l’acquisizione di nuove competenze e posti di lavoro in sede, che, in linea di principio, permettano un flusso Nord-Sud.

VALERE è un’opportunità per tutti, una realtà in cui vinciamo tutti: è l’opportunità per i giovani di dimostrare talento, anche al sud; è l’occasione per il nostro Ateneo di investire nel presente per garantire il futuro.

 

di Lucia Altucci, docente di Patologia Generale al Biochimica, Biofisica e Patologia generale all'Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli

Dopo il referendum della Scozia è la volta della Catalogna. Il referendum sull’indipendenza tenutosi il 1° ottobre di quest’anno può considerarsi diretta conseguenza della consultazione del 9 novembre 2014 e del risultato delle elezioni tenutesi a settembre 2015 per il rinnovo del Parlamento catalano, quando l’area indipendentista (formata da Junts Pel Sì del presidente secessionista Artur Mas e i radicali separatisti di Cup), pur non riuscendo a conquistare la maggioranza assoluta dei voti, ebbe un’indubbia affermazione raggiungendo il 47,9%. Questi due eventi hanno dato la spinta più recente all’azione indipendentista, culminata con la legge sul referendum del settembre scorso la cui sospensione da parte del Tribunal Constitucional e il tentativo di repressione attuato dal governo spagnolo di Mariano Rajoy non sono bastati ad impedirne lo svolgimento.

Eppure la vicenda rivela evidenti contorni di incostituzionalità al punto da porre problemi di ordine pubblico. Infatti, la Costituzione spagnola del 1978 non contempla la possibilità che le Comunità autonome possano indire referendum e tanto meno referendum secessionisti. Essa sancisce la sovranità del popolo spagnolo nella sua interezza nonché l’unità ed indissolubilità della nazione. Dunque, una secessione implicherebbe necessariamente un emendamento costituzionale (con un procedimento molto complesso) e non può risolversi in una mera dichiarazione unilaterale. C’è da chiedersi allora che peso potrà avere il voto referendario in tutta la vicenda catalana.

Esaminando i numeri, l’evento sembra fortemente ridimensionato: rispetto ai 5,3 milioni di aventi diritto al voto, hanno votato 2.262.424 elettori (pari al 42,2%) di cui il 90% ha votato a favore dell’indipendenza. Se si considera, poi, l’approssimazione con la quale sono state registrate le operazioni di voto, il risultato si presta ad ulteriori aggiustamenti. Ciò, tuttavia, non sminuisce l’importanza della spinta secessionista catalana le cui motivazioni vanno ricercate in ragioni di carattere storico, sociale, politico ed economico. La Catalogna è, infatti, una delle più antiche Comunità autonome, con radici storiche e culturali ben impiantate, orgogliosa della sua identità nazionale e della sua diversità linguistica, al punto da riconoscere la lingua catalana come lingua ufficiale assieme allo spagnolo. Quanto alle rivendicazioni di natura economica, gli indipendentisti sostengono che a fronte di un significativo contributo della regione al bilancio dello Stato spagnolo, il ritorno in termini di benefici sarebbe fortemente squilibrato.

C’è da dire in proposito che con la crisi economica si è ulteriormente rafforzata anche la richiesta di una gestione autonoma delle ingenti risorse fiscali. Ma l’opinione di molti è che queste rivendicazioni non abbiano in realtà un riscontro reale. Certo, se per assurdo la Catalogna riuscisse a proclamarsi Stato autonomo ed indipendente, il primo nodo da risolvere sarebbe quello dei rapporti con l’UE dalla quale si troverebbe improvvisamente fuori con tutti gli effetti che hanno accompagnato la Brexit.

Non è da escludere che anche questo aspetto abbia indotto martedì scorso Carles Puigdemont, Presidente della Generalitat (l’apparato amministrativo-istituzionale per il governo della Comunità autonoma della Catalogna) a proclamare dinanzi al Parlamento catalano, la cui seduta per la dichiarazione di indipendenza era stata precedentemente sospesa dal Tribunale Costituzionale, l’indipendenza della Catalogna per poi sospenderla al fine di avviare i negoziati con l’esecutivo centrale. Una riapertura del dialogo, dunque, per ridurre la tensione con Madrid.

di Carmine Petteruti, docente al Dipartimento di Scienze Politiche Jean Monnet