Costruire la città d’acciaio, al via l'esposizione al Dipartimento di Architettura

La città d’acciaio. Mosca costruttivista 1917-1937 - Abazia di San Lorenzo ad Septimum, Aversa - Dipartimento di Architettura e Disegno Industriale 
Dal 07.02 al 16.02.2018

Curatore: Luca Lanini
Gruppo di ricerca: Marco Giorgio Bevilacqua, Luca Lanini, Natalia Melikova
Editor e progetto grafico: Anna Leddi
Redazione: Giorgia Puccinelli, Alessandro Riello e Sara Tenchini
Curatore Mostra per il Dipartimento di Architettura e Disegno Industriale / Università Vanvitelli: Francesco Costanzo
Progetto di allestimento: Francesco Costanzo con Gaspare Oliva, Vincenzo Fatigati e Domenico Crispino, Anna de Chiara, Michele Pellino.

Gli edifici e i programmi per Mosca dell’avanguardia sovietica – costruttivismo, suprematismo, cubofuturismo, produttivismo, disurbanismo, etc – a cavallo degli anni ’20 e ’30 del Novecento sembrano tornare di continuo, quasi in maniera subliminale, nel tessuto della nostra esperienza quotidiana. Un’avanguardia che ha dispiegato i suoi effetti su tutto il ventesimo secolo e sta prolungando la sua straordinaria fascinazione anche nel nuovo. Soprattutto dal punto di vista dell’architettura e della città. Basterebbe riflettere su come alcuni grandi landmark urbani contemporanei abbiano introiettato alcune icone costruttiviste. A Londra, per esempio, dove lo shard di Renzo Piano è modellato su un progetto di Leonidov, mentre l’Orbit Tower di Anish Kapoor è un chiaro omaggio al Monumento alla Terza Internazionale di Tatlin. Architetture che non sono state in grado, o lo sono state solo in parte, di costruire la Mosca capitale dei Soviet e che invece ritornano per edificare altre città, come è spesso accaduto nella storia urbana per architetture di grande potenza simbolica ed evocativa.

Il senso della mostra "La città d’acciaio. Mosca costruttivista 1917-1937", è proprio questo: da una parte costruire un piccolo archivio, destinato però ad ampliarsi, che restituisca alla loro dimensione reale ed oggettuale queste architetture, spesso solo conosciute e citate a partire da disegni scarsamente intellegibili, talvolta andati perduti durante quel terribile periodo della storia russa e dei quali restano poche, confuse fotografie. Una conoscenza metrica, realista e critica di questa architettura, iniziata dagli studenti del corso di Disegno dell’Architettura 2 del prof. Marco Bevilacqua nel corso di laurea in Ingegneria Edile-Architettura dell’Università di Pisa e continuata in questa mostra e nel suo catalogo. Dall’altro verificare come Mosca sarebbe cambiata, nei suoi caratteri morfologici, nella sua dimensione urbana se, in una delle tante sliding doors della storia, fosse stata costruita dalle avanguardie e non dal classicismo realsocialista che finì per diventare lo stile unico del totalitarismo staliniano, liquidando ogni altra opzione linguistica. Un processo di costruzione alternativa della città – una Mosca “analoga” – che in realtà, sia pure in forma latente, è sempre stato in atto, perché le architetture di Lissitsky, di Mel’nikov, di Leonidov, dei fratelli Vesnin avevano chiaramente predetto assi, temi e questioni che lo sviluppo di questa grande metropoli euroasiatica avrebbe fatalmente finito per affrontare nei cento anni a venire.

Si tratta di architetture che, al di là della loro capacità di vaticinare il futuro, del loro sconvolgente carattere iconico, della loro forza visionaria, lasciano intravedere un rapporto del tutto nuovo tra figurazione architettonica e vita quotidiana, proponendosi come grandi macchine trasformative dell’individuo che organizzano all’interno del medesimo “condensatore sociale” lavoro, svago, riposo, educazione, sport.
Architetture la cui sopravvivenza continua però ad essere in pericolo. Non più a rischio per il furore iconoclasta degli “architetti proletari”, che durante la reazione antimoderna seguita all’ascesa di Stalin e poi durante lo zdanovismo, avrebbero voluto cancellarle dalla storia dell’architettura sovietica, oppure per la loro genetica fragilità, dovuta e al ritardo industriale dell’URSS e all’ideologia totalizzante che costruiva gran parte del loro programma funzionale e figurativo. Anche negli anni del soviet chic e del revanchismo imperiale, queste architetture sono ancora considerate come i simboli dell’unico periodo nel quale la cultura russa seppe essere moderna, cosmopolita e d’avanguardia. E come tali rifiutate e lasciate negligentemente deperire, nonostante la loro utilizzazione intensiva come brand della città di Mosca.
Che le promesse dell’avanguardia non si siano realizzate è quasi un fatto secondario. Certo, questa è una delle conseguenze del peccato originario delle avanguardie russe: l’avere legato il proprio destino alla rivoluzione d’ottobre. Eppure, esauritasi prima la spinta propulsiva di quell’evento, tramutatasi la sua grande forza emancipatrice in un incubo totalitario, crollate miseramente le speranze che aveva suscitato in una successione di fallimenti, di miseria, di lavoro schiavile, di stermini, di quegli anni resta, abbacinante, proprio il lavoro artistico delle avanguardie.
Cento anni non sono bastati a spegnere la meraviglia che ancora proviamo di fronte a questi progetti degli anni ’20 e ‘30, come se si trattasse ormai di immagini profondamente tatuate sul corpo dell’architettura contemporanea, parte del suo subconscio più profondo. L’avanguardia sovietica non è né un’“avanguardia perduta”, né l’ “archeologia del socialismo”, ma una tendenza che ancora oggi, per la sua radicalità e per la sua modernità senza tempo, si offre agli architetti contemporanei senza quasi bisogno di distanza storiografica e critica. Ed è, allo stesso tempo, un insieme di idee che ritroviamo in maniera pervasiva nella nostra vita: nelle architetture di Rem Koolhaas, di Zaha Hadid o di Steven Holl, nella grafica della copertina di un disco dei Franz Ferdinand, nel montaggio di un blockbuster di Hollywood. E in molto altro ancora. Perché la storia della Mosca delle avanguardie è la storia del nostro presente.