Un esercito di copie. L’imperatore Qin Shi Huangdi e il valore degli oggetti

L’esercito di terracotta e il primo imperatore della Cina. La grande mostra internazionale, Basilica dello Spirito Santo, Napoli. Curatore italiano Fabio Di Gioia. Dal 24 ottobre 2017 al 28 gennaio 2018, dalle 10 alle 20 tutti i giorni, biglietto 12,00 euro
https://www.esercitoditerracotta.it/


A cura di Carlo Rescigno, docente di Archeologia Classica al Dipartimento di Lettere e Beni culturali

Ho incontrato per la prima volta l’esercito di Qin Shi Huangdi lontano dalla sua terra di origine, a Roma, dove una moderna Via della Seta, quella delle mostre internazionali, aveva condotto un drappello scelto di soldati e dignitari presso le Scuderie del Quirinale, per apparire in una esposizione dedicata all’ascesa dell’impero cinese (Cina. Nascita di un impero, Roma, Scuderie del Quirinale, 22 settembre 2006 – 28 gennaio 2007; catalogo a cura di L. Lanciotti, M. Scarpari, Milano 2006). Ampia e documentata, narrava dei presupposti, dell’affermarsi, dopo la confusione dei Regni Combattenti, della rivoluzione Qin (221 a.C.-206 a.C.), dell’unità dei regni, della sommossa che dopo pochi anni avrebbe condotto all’affermarsi, in continuità, degli Han cui si dava ampio spazio.

Ho così appreso che, in una concezione culturale della morte, l’esercito di terracotta del Primo Augusto Imperatore non era unico e, per esempio, un altro, composto da più di duemila unità, contribuiva a definire lo spazio funerario di due importanti ufficiali militari Han (II a.C.) con sculture, però, a un terzo del vero. Anche di questo esercito la mostra esponeva una scelta, e questa riduzione di originalità nulla sottraeva alla maestosità delle statue del primo imperatore, né la mostra si affidava a una retorica del grande per convincere il pubblico, lasciando parlare, anche nella comunicazione pubblicitaria, gli oggetti e l’invisibilità della storia.

L’impressione che ne ricavai stenta a cancellarsi. Luca Ronconi chiamato, con Margherita Palli, ad allestire, a partire da una esperienza cinematografica e teatrale, la mostra, aveva sapientemente costruito il racconto. Le statue maggiori si presentavano quasi nude allo spettatore, i vetri delle teche erano stati perlopiù soppressi e a difendere il cumulo degli anni aggregato sulla fragile e pesante terracotta dei guerrieri era un tessuto forato, che diventava invisibile in lontananza ma che, prossimi agli stalli delle teche, spingeva i curiosi ad affacciarsi oltre le linea di difesa dello schermo che si piegava e assumeva, nel contatto con il visitatore, le sue sembianze. Una pellicola densa ma permeabile alla vista costituiva l’osservatorio sulla storia e sui guerrieri che apparivano in tutte le loro scabrosità di integrazione e restauro, nei dettagli preziosi e nei resti di pellicole pittoriche fino a rilasciare il senso di un lavoro artigianale cui erano stati dedicati centinaia di artigiani che presso il giardino funerario imperiale vissero, lavorarono e morirono, lasciando di sé, ai posteri, i propri scheletri in tombe povere addensate ai margini del luogo imperiale.

La tomba monumentale del Monte del Cavallo Nero rappresenta la sepoltura del primo imperatore della Cina (regno 243 a.C.-210 a.C.), che unificò i regni e avviò una tradizione che, nonostante gli scossoni, le pause e i cambi di dinastie, si è trasmessa in continuità fino alla rivoluzione socialista. Il sepolcro ancora non indagato era circondato da un mondo altro, che ripeteva con la sua folla di dignitari, scribi, funamboli, la varietà di una vita lussuosa, associava agli spazi della rappresentazione quelli del culto e del rito, dando spazio ai banchetti e ai dignitari viventi. Le forze della natura circondavano e serravano il luogo e, nell’unico punto in cui l’altezza delle montagne e la corrente del fiume lasciava sguarnito il luogo, fu schierato, in fosse, il potente esercito.

Questo, in forme diverse, è ora tornato in Italia e approdato a Napoli, nella chiesa dello Spirito Santo, su via Toledo, dove, dall’ampia nave centrale, dilaga, con dettagli e racconti, negli ambienti minori del complesso architettonico. La novità è che nulla di quanto esposto è originale. Tutto è copia fedele, dai bronzi, ai vasi, alle monete fino agli uomini armati che sono stati realizzati in Cina, tratti da stampi calcati direttamente sugli originali ricreando, come in un grande episodio di archeologia sperimentale, il ciclo di produzione seguito nella cittadella funeraria circa 2.300 anni fa. La riproduzione, nelle statue, giunge a ripetere le tracce di colori dando una parvenza di verità che, però, non riesce ovviamente a risolvere quella dimensione di oggetti-testimoni, gli originali che, sepolti e fracassati dal peso dei crolli e della terra, consunti da azioni chimiche, travolti dal vortice della storia, sono stati dal tempo trasformati in monumenti.

Esiste, quindi, nella mostra napoletana rispetto a quella romana, un artificio che raffredda l’emozione, che gli organizzatori denunciano in silenzio, forse anche troppo. E non si tratta di uno snobismo culturale: questa, come tante altre esperienze immersive, può emozionare, insegnare, ma non costruisce un reale incontro più di quanto si potrebbe farlo tramite altre più comode realtà artificiali per tramite delle quali è oggi possibile assumere informazioni, imparare e trasmettere il conosciuto senza muoversi. La mostra, ora a Napoli, rientra in quelle forme di spettacolarizzazione del passato o del contemporaneo, che nelle forme migliori, come la nostra, punta sul contenuto narrativo, in quelle inferiori sulla semplice emozione, ma in entrambi i casi rinuncia allo scopo fondamentale di un evento culturale, creare un laboratorio di conoscenze che tramite contatti tra istituzioni, dialoghi tra curatori e studiosi, faccia sì che, di quel dato argomento, si possa a fine della mostra conoscere di più, vuoi per scienza pura vuoi per creazione di un senso diffuso di conoscenza.
E’ per questa necessità di scienza, presupposto di ogni mostra, che lascia perplessi, in quella napoletana, per esempio, il poco spazio concesso agli autori, a chi l’ha per primo allestita, e ancor di più non trovare nei pochi nomi denunciati on line quelli di studiosi e archeologi. Eppure la mostra, tranne qualche strana eccentricità nei pannelli e qualche errore, credo dovuto a frettolose traduzioni, ha un suo impianto narrativo che deriva da una conoscenza ormai consolidata su quanto ad oggi noto del grande sepolcro dell’imperatore Qin.

Letta come un percorso didattico, da exhibit e da museo della scienza, la mostra napoletana suscita interesse e in alcuni punti sbalordisce. Il percorso si arrotola e poi svolge lungo i margini della chiesa fino a raggiungere il cuore della nave centrale, percorso disseminato di frammenti di statue che spingono, con i pannelli e le installazioni, a entrare all’interno delle sculture ancora prima di conoscerle, a comprenderne i meccanismi di produzione. Testi e, poche, a volte non belle, riproduzioni di oggetti, narrano del contesto storico e topografico. Forse una pianta gigante del giardino funerario del re avrebbe aiutato a visualizzare il fatto funerario e a comprenderne il linguaggio monumentale. In questo lento percorso di approfondimento, segue uno squarcio, l’ingresso mediato da stretti passaggi alla ricostruzione di una parte minima, ma significativa e impressiva, di una parte dell’esercito. Indipendentemente dal sistema di luci che illustra, con l’aiuto di una voce narrante, le caratteristiche dei guerrieri, le informazioni apprese durante il percorso permettono di arrivare all’emozione della navata con un carico di attese ma anche di strumenti per comprendere quanto la vista assume. Per quanto copie la magia della storia c’è.

E’ luogo letterario, quasi indissolubile dall’esercito di terracotta, che il miracolo delle statue della Collina del Cavallo Nero risieda nella individualità, nell’essere ogni scultura un pezzo a sé, come se gli artigiani avessero riprodotto le fattezze multiformi della vita reale. In realtà sono il prodotto di un artificio e di un’arte che mescola alla creazione la standardizzazione. E’ un principio che possiamo trovare identico anche nelle produzioni di epoca classica, sul quale poco riflettiamo o che, meglio, rimuoviamo nella certezza di uno stereotipo culturale, tutto romantico, dell’artista che crea a partire da un estro individuale irripetibile. Le sculture furono realizzate recuperando argilla in un luogo non lontano dalla tomba, la cui cava abbandonata divenne poi un lago artificiale. I forni per potere cuocere una quantità di opere così massiccia, non trovati, erano ugualmente in loco e dalle montagne doveva provenire la legna necessaria a cicli di cottura lunghi e ripetuti.

A lavorare erano gruppi di maestri, certificati da bolli e firme graffiate sulla superficie essiccata dell’argilla, aiutati da operai, perlopiù schiavi. Di questo la mostra ben parla e documenta. Il maestro si aiutava per la realizzazione delle figure con matrici, queste erano utilizzate anche per i volti. Era solo il lavoro di assemblaggio delle parti e di finitura con dettagli e colori che permetteva alle statue di assumere individualità, di creare livree dell’apparire che corrispondevano ai ruoli, militari e di censo, in cui nell’immenso archivio di Shaanxi erano suddivisi guerrieri, artisti e dignitari. Matrici e parti dei corpi, dalle prime derivate, funzionarono come le lettere dell’alfabeto, limitate per numero ma capaci di produrre parole infinite. Attraversando secoli e spazio, solo gli addetti ai lavori sanno che questo stesso metodo di produzione di altissimo artigianato caratterizza anche la produzione artistica occidentale dai bronzi di Riace alle belle maioliche rinascimentali dei Della Robbia.

Quando in Cina si costruiva la tomba e il grande esercito di terracotta, Roma era impegnata nelle guerre contro Annibale e si avviava a dominare il Mediterraneo. I suoi templi non erano ancora di marmo e apparivano decorati con immagini di creta. L’argilla, lavorata da ben più modeste squadre di artigiani, era piegata a narrare nei frontoni scene di lotta tra Giganti e dei, a celebrare le guerre contro i Galati. Le figure sono in movimento e comunicano, con forme diverse e non ieratiche, il loro contenuto. Sono due mondi diversi che entrano a confronto, il primo nato dalla evoluzione delle piccole città stato, l’altro fondato su di un potere assolutistico e su territori sconfinati. Solo con l’impero romano si raggiungeranno forme e dimensioni degne di essere contrapposte alla grandezza della Cina antica. Salvatore Settis nello stesso catalogo che accompagnava la mostra romana (op. cit.; ma sul tema di veda anche I Due Imperi. L’Aquila e il Dragone, Milano, Palazzo Reale, 15 aprile – 5 settembre 2010, catalogo a cura di S. De Caro, M. Scarpari, Milano 2010), discute circa il valore del classico tra Cina e mondo greco-romano. Ai cicli di rinascita, si accompagna, nel mondo occidentale, il lutto di una frattura netta, la caduta di una civiltà, mai più ricomposta anche se periodicamente vagheggiata e riedificata dal contemporaneo; nell’oriente cinese regna il senso di un mondo che muta ma in continuità, senza fratture: un tempo che non richiede originali, perché le vestigia di una generazione precedente non hanno il tempo di trasformarsi in cimeli e passato vagheggiato, sono ricostruite e proseguono la loro vita. Come un albero che, ricordo di un evento, muore ma, periodicamente sostituito, ripropone il suo senso pur non essendo sempre quell’unico e originale iniziale.
Così guardando la Cina ritroviamo il senso profondo del tempo occidentale. E ritroviamo immancabile, quando ci si confronta con l’Oriente, la necessità di riflettere su originale e copia.

A cura di Carlo Rescigno, docente di Archeologia Classica al Dipartimento di Lettere e Beni culturali