Un test genetico per curare efficacemente i neonati colpiti dall’asfissia perinatale. Potrebbe essere questa la strada per migliorare le strategie terapeutiche per un evento che rappresenta ad oggi la principale causa di morte e neurodisabilità nel neonato a termine. Evento del tutto inatteso che si verifica al momento del parto a causa del mancato apporto a livello cerebrale di sangue e ossigeno.

Nuove prospettive le ha aperte lo studio di un team di ricercatori guidato da Paolo Montaldo, dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli, in collaborazione con il team dell’Imperial College London, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Jama Network (Whole-Blood Gene Expression Profile After Hypoxic-Ischemic Encephalopathy | Pediatrics | JAMA Network Open | JAMA Network).

La ricerca si è focalizzata sulle differenze nei profili di espressione genica nei neonati affetti da asfissia perinatale nati nei paesi sviluppati e neonati nati in India, Sri Lanka e Bangladesh così da comprendere perché una popolazione (la prima) beneficerebbe del trattamento ipotermico e l’altra (quella del Sud Asia) no. Dallo studio è emerso infatti che il profilo di espressione genica subito dopo la nascita, associato ad outcome avverso, è significativamente differente: nel caso dei nati nei paesi in via di sviluppo, si tratterebbe di un’asfissia non acuta ma bensì di un processo di sofferenza che inizierebbe già nel grembo materno, e quindi al di fuori della finestra di efficacia del trattamento ipotermico.

“Abbiamo evidenziato – spiega Montaldo – che nel caso dei neonati del Sud Asia si tratta di un processo che si instaura più lentamente, tanto da persistere nel tempo. Probabile, che altri fattori agiscano nei paesi in via di sviluppo come malnutrizione, basso peso alla nascita ed insufficienza placentare. Questo cambia l'efficacia delle strategie di neuroprotezione che noi usiamo. Ad esempio, l'ipotermia terapeutica che consiste nel ridurre la temperatura corporea a 33.5°C per 3 giorni, ha un'efficacia estrema solo se iniziata entro alcune ore dall'instaurarsi dell'ipossia acuta perché agisce rallentando il metabolismo cerebrale. Se tuttavia l'ipossia si instaura più lentamente ed in maniera non acuta, il danno cerebrale è mediato soprattutto da un processo di stress ossidativo e flogosi”.

Ecco perché avere un test genetico che possa un domani dare queste informazioni, potrebbe guidare i medici sulla migliore strategia terapeutica. “Attualmente – continua Montaldo - la terapia elettiva è rappresentata dall’ipotermia terapeutica, che consiste nel ridurre la temperatura corporea del neonato poco dopo la nascita, così da limitare i danni dell’insulto ipossico-ischemico. Tuttavia, nonostante questo trattamento, oggi oltre 2 milioni di neonati presenta danni cerebrali permanenti. Pertanto, l’ipotermia terapeutica da sola sembrerebbe essere solo parzialmente efficace e addirittura di nessuna efficacia per i bambini nati nei paesi in via di sviluppo, sui quali invece potrebbe essere più efficace l'eritropoietina “.

La sfida, dunque, è individuare quali sono i bambini che necessitano di un trattamento e come curarli al meglio. Questa ricerca, oltre a chiarire i meccanismi fisiopatologici alla base del danno ipossico ischemico, fornisce basi solide per future strategie terapeutiche con il potenziale di sviluppare un test nel sangue che guidi i neonatologi nel processo decisionale al fine di ottimizzare la strategia di neuroprotezione sia nei paesi in via di sviluppo come anche nei paesi sviluppati come il nostro.

 

Incidere sul funzionamento dell’orologio biologico delle cellule per rallentare la crescita di quelle tumorali. Un importante passo avanti nella ricerca contro il cancro è stato compiuto dal team di ricercatori guidato da Sandro Cosconati, docente del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Ambientali e Farmaceutiche dell’Università Vanvitelli. In collaborazione con la Prof.ssa Hilda Picket del Children's Medical Research Institute (CMRI) di Sydney, i risultati di questa innovativa scoperta sono stati condivisi recentemente sulla prestigiosa rivista Cell Chemical Biology (https://authors.elsevier.com/c/1iDJY8jWWJtYH9) in cui figurano come primi autori Alex Sobinoff (CMRI) e Salvatore Di Maro (Vanvitelli).
Lo studio si focalizza su un componente chiave del complesso multiproteico denominato shelterin, il telomeric repeat-binding factor 2 (TRF2), che svolge un ruolo essenziale nella regolazione dell'omeostasi telomerica e nella stabilità genomica e sembra essere implicato nel processo di tumorigenesi.
"I telomeri - spiega Cosconati - spesso considerati l'orologio biologico delle cellule, svolgono un ruolo cruciale nel determinare il destino cellulare, bilanciando tra la morte cellulare programmata, nota come senescenza, e la possibilità di immortalità. Posti alle estremità dei cromosomi, questi segmenti di DNA fungono da chiari indicatori del numero di divisioni cellulari a cui una cellula può ancora sottoporsi. La loro regolazione precisa è fondamentale: telomeri troppo corti possono innescare il processo di senescenza, mentre un allungamento eccessivo potrebbe favorire la trasformazione tumorale delle cellule.
Lo studio dunque si focalizza su un elemento chiave nel complesso quadro di regolazione dei telomeri: il telomeric repeat-binding factor 2 (TRF2), parte integrante del complesso multiproteico noto come shelterin. TRF2 è vitale per controllare la stabilità dei telomeri e il suo coinvolgimento nello sviluppo di tumori è ampiamente riconosciuto".

Il team ha ideato molecole innovative in grado di legarsi in modo irreversibile a TRF2. Tra queste, APOD53 ha dimostrato di innescare una risposta di danno al DNA nei telomeri, generando stress durante la replicazione cellulare e interferendo con il corretto funzionamento di proteine regolatrici. Attraverso questo meccanismo, APOD53 ha mostrato la sua capacità di rallentare la crescita delle cellule tumorali, indipendentemente dal tipo di meccanismo di allungamento dei telomeri utilizzato, preservando al contempo la vitalità delle cellule sane.

"Questo successo è il risultato di anni di impegno e della preziosa collaborazione con la professoressa Hilda Picket - dice ancora Cosconati - Abbiamo aperto nuove prospettive nella comprensione e nel potenziale trattamento del cancro. APOD53 rappresenta un significativo passo avanti, ma ci sono ancora sfide da affrontare per traslare questa promettente scoperta in fase pre-clinica e clinica."
Questa ricerca non solo fornisce basi solide per futuri sviluppi terapeutici, ma sottolinea anche l'importanza della cooperazione internazionale nella ricerca scientifica. Lo studio è frutto di una collaborazione anche con altri gruppi dell'ateneo, come quelli dei docenti Angela Chambery, Paolo Vincenzo Pedone e Lucia Altucci, ma anche grazie al sostegno ricevuto dalla Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro, che ha scelto di finanziare le sue ricerche nel 2021 attraverso un Investigator Grant. Ciò conferma che l'impegno finanziario, lo studio e le collaborazioni interdisciplinari sono gli elementi fondamentali di una formula che, in un futuro prossimo, ci condurrà verso progressi sempre più significativi nella cura del cancro.

Mettere insieme i dati sull'evoluzione della malattia di 800mila pazienti affetti da Diabete di tipo 2 per dare vita a una sorta di gemelli virtuali. Un gigantesco lavoro di sistemazione di dettagli e prognosi per riuscire a fare previsioni personalizzate della patologia e dunque per garantire terapie appropriate.

Facendo un significativo passo avanti verso il progresso della medicina di precisione, un gruppo di ricerca, coordinato dal Prof. Dr. Jan Baumbach dell’Università di Amburgo (Germania), con l'Università Vanvitelli con i dipartimenti di Precisione e di Scienze Mediche e Chirurgiche Avanzate, e altri 12 partner provenienti da sette paesi, ha ricevuto un prestigioso finanziamento Horizon Europe per lo sviluppo di un’infrastruttura comune all’avanguardia dei dati sanitari. Il progetto, denominato “dAIbetes”, si concentra sull'utilizzo di gemelli virtuali come strumenti prognostici nella gestione personalizzata della malattia, mirando specificamente agli esiti del trattamento nel diabete di tipo 2. Il progetto ha avuto inizio il 1° gennaio 2024.

Nel perseguimento dei suoi obiettivi, dAIbetes mira ad ottenere una previsione personalizzata degli esiti di terapia nei pazienti affetti da diabete di tipo 2 - una condizione che colpisce 1 adulto su 10 a livello globale, con una spesa annua di circa 893 miliardi di euro. I partner metteranno insieme e organizzeranno i dati di circa 800.000 pazienti affetti da diabete di tipo 2 distribuiti in tutto il mondo in una rete specializzata comune di banche dati e li utilizzeranno per formare gemelli virtuali come strumenti prognostici. Dopo la validazione, questi modelli verranno applicati nella pratica clinica reale attraverso un software dedicato. In definitiva, i risultati aiuteranno a colmare l’attuale mancanza di linee guida sui risultati previsti per il trattamento di pazienti specifici. Il progetto cerca di dimostrare che le previsioni personalizzate provenienti da modelli di gemelli virtuali comuni hanno un errore di previsione inferiore di almeno il 10% rispetto ai modelli basati sulla media della popolazione.

DAIbetes riunisce un consorzio multidisciplinare con competenze in intelligenza artificiale, sviluppo di software, protezione della privacy, sicurezza informatica, nonché diabete ed il suo trattamento. Lo sforzo collaborativo mira a creare un modello per superare l’antagonismo tra privacy e big data nella ricerca transnazionale sul diabete ed oltre.

Il consorzio è impegnato a far avanzare le frontiere della ricerca medica, migliorando in definitiva i risultati dei pazienti e contribuendo allo sviluppo globale della medicina di precisione.

Partner del consorzio:
Universität Amburgo, Germania
Il Brigham Women’s Hospital, Inc, Stati Uniti d’America
Friedrich-Alexander-Universitaet Erlangen-Nuernberg, Germania
Gnome Design SRL, Romania
Istituto di ricerca AG & Co KG, Austria
tp21 GmbH, Germania
SBA Research gGmbH, Germania
Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, Italia
Università degli Studi di Roma La Sapienza, Italia
Medizinische Universitaet Wien, Romania
Joslin Diabetes Center INC, Stati Uniti d'America
Regione Stoccolma, Svezia
Semmelweis Egyetem, Ungheria

Giovanni Conzo nella Cabina di regia per l’implementazione di una rete di Centri “Pancreas Unit”. La nomina per Conzo, professore associato di Chirurgia generale dell'Ateneo Vanvitelli, arriva dal Ministero della Salute che ha deciso di istituire questo coordinamento in considerazione della necessità di individuare le possibili iniziative più idonee per contrastare l’insorgenza del tumore pancreatico e per potenziare la relativa assistenza, anche individuando i modelli organizzativi più idonei a garantire i massimi livelli di qualità, efficacia e sicurezza delle cure in tutto il territorio nazionale.

Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, il tumore al pancreas rappresenta attualmente lo 0,79% della mortalità globale per tutte le cause, con un aumento di 1,80 volte verificatosi negli ultimi venticinque anni. 
La cabina di regia appena istituita, in particolare, mira all’implementazione di una rete di Centri “Pancreas Unit” per la diagnosi e il trattamento del tumore del pancreas, con funzioni di studio e di coordinamento delle strategie di attuazione della predetta rete in raccordo con tutti i livelli del Servizio sanitario nazionale.

Una nuova terapia per combattere la sindrome Fanconi Bickel. La speranza arriva dallo studio appena pubblicato sulla prestigiosa rivista Science Translational Medicine, realizzato dal gruppo di ricerca del Laboratorio di Nefrologia Traslazionale di Biogem e Università Vanvitelli guidato da Francesco Trepiccione, e riguarda una malattia ultra-rara, nota anche come Glicogenosi 11.

La nuova terapia, basata sulla somministrazione di un farmaco già in uso per il diabete mellito, è il frutto di un lavoro di sperimentazione realizzato nei laboratori di Biogem e offre nuove prospettive per i pazienti che sono esposti, nelle prime fasi della vita, a una disfunzione renale e ad un alto rischio di ipoglicemia severa e poi a problemi di accrescimento osseo e complicanze elettrolitiche, quali acidosi metabolica e ipopotassiemia.

‘’Un modello di questa malattia – spiega il professore Trepiccione - è stato generato nei topolini dello stabulario di Biogem e si è notato che in alcune cellule del rene, chiamate del tubulo prossimale, il glucosio, normalmente riassorbito, viene intrappolato e convertito in glicogeno, che, accumulandosi, mima l’effetto di una grossa spugna all’interno della cellula, rigonfiandola e alterandone severamente molte funzioni’’.

‘’Dopo aver capito, anche grazie a sofisticate apparecchiature in dotazione a Biogem (come la microscopia multifotoni), perché il rene si ammala – rivela Trepiccione - abbiamo avuto l’intuizione di preservare queste cellule, somministrando un farmaco, già in uso per il diabete mellito, che riduce la loro capacità di riassorbire ulteriore glucosio e quindi di intossicarsi (gluco-tossicità). I risultati ottenuti sono stati così promettenti che abbiamo traslato la nostra ricerca applicandola ad un paziente affetto dalla sindrome di Fanconi-Bickel e seguito nell’ambulatorio di tubulopatie rare del Policlinico Vanvitelli’’.

‘’Dopo tre mesi di trattamento – conclude il ricercatore della Vanvitelli - abbiamo osservato il miglioramento di alcuni indici e soprattutto l’assenza di eventi avversi che ne sconsigliassero l’utilizzo. Migliorava in particolar modo la fosforemia, fino a livelli difficilmente raggiunti con la terapia elettrolitica suppletiva del paziente. Ancora una volta le attività di ricerca frutto della collaborazione Biogem-Vanvitelli, si pongono al fianco di pazienti certamente ‘rari’, ma da oggi, probabilmente, un po' meno soli’’.

 

Studiare le proteine conservate nella cellula uovo per comprendere i meccanismi dello sviluppo embrionale. Un importante passo avanti nella ricerca contro l’infertilità femminile e i disordini dello sviluppo è stato compiuto dal team di ricercatori guidato da Andrea Riccio, docente del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Ambientali e Farmaceutiche dell’Università Vanvitelli e ricercatore associato dell’Istituto di Genetica e Biofisica Adriano Buzzati-Traverso del CNR. In collaborazione con il team del dottor Gavin Kelsey del Babraham Institute di Cambridge nel Regno Unito, i risultati di questa innovativa scoperta sono stati condivisi recentemente sulla prestigiosa rivista Genes and Development.

Il team che ha realizzato lo studio comprende come primo autore il dottor Carlo Giaccari. Seguono Francesco Cecere, Lucia Argenziano, Angela Pagano, Basilia Acurzio e la professoressa Flavia Cerrato. Il lavoro è frutto anche della collaborazione con i gruppi della professoressa Sandra Cecconi dell’Università dell’Aquila e della professoressa Maria Vittoria Cubellis della Federico II.

Lo studio si focalizza su un componente chiave del complesso multiproteico materno, PADI6, che svolge un ruolo fondamentale nell’immagazzinamento delle proteine nella cellula uovo, in maniera che esse possano essere utilizzate dopo la fecondazione, durante le prime divisioni cellulari dell’embrione.

"Le proteine materne - spiega Riccio – sono necessarie al prodotto del concepimento nelle prime fasi dello sviluppo, quando l’embrione non è ancora in grado di produrle. Mutazioni della proteina PADI6 sono causa di infertilità femminile e di alcuni rari disordini dello sviluppo, come la Sindrome di Beckwith-Wiedemann (BWS)”.

Il team ha generato un modello murino transgenico, in cui è stata riprodotta la mutazione di PADI6 precedentemente riscontrata in una donna le cui figlie erano affette da BWS. L’applicazione di tecniche innovative, come le analisi omiche su singola cellula, su questo modello animale ha permesso di dimostrare il ruolo che PADI6 svolge nella maturazione della cellula uovo e nella riprogrammazione del genoma embrionale, meccanismi molecolari che sono alla base dei difetti di sviluppo dell’embrione che si verificano prima dello stadio di impianto.

Questo studio apre nuove prospettive nella comprensione delle cause e nel potenziale trattamento dell’infertilità femminile. Nonostante ci siano ancora difficoltà per traslare questa promettente scoperta in fase pre-clinica e clinica, il team di Andrea Riccio è già al lavoro per individuare molecole che permettano di correggere il difetto di sviluppo causato dalla mutazione di PADI6 e sulla cui base individuare potenziali farmaci.
La ricerca è stata finanziata dalla Fondazione Telethon e dalla Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro.

 

Parkinson e arteterapia, alla Vanvitelli la Giornata nazionale Parkinson si trascorre al Museo Gallerie d’Italia – Napoli Fondazione IntesaSan Paolo e Civita Mostre e Musei, per un incontro divulgativo per pazienti e familiari, dove verranno analizzati e rivisti i risultati di laboratori di arteterapia che si sono svolti a cadenza mensile nel corso dell’anno presso il Museo in collaborazione con l’associazione con Parkinson Parthenope.

Questo perché “La letteratura scientifica sul tema negli ultimi anni dimostra che, accanto al protocollo tradizionale farmacologico e riabilitativo – spiega Alessandro Tessitore, docente in Neurologia alla Vanvitelli – esistono una serie di attività complementari ludico terapeutiche molto utili, come l’arteterapia effettuata dai nostri pazienti durante quest’anno,  che si rivelano particolarmente efficaci nel contrastare l’evoluzione dei sintomi della malattia e lo stigma che deriva dal ricevere la diagnosi di una patologia neurodegenerativa come quella del Parkinson, sicuramente invalidante”.

Mettere in connessione arte e pazienti è un ottimo modo per favorire il dialogo, migliorare la propria condizione psichica e la qualità della vita, anche se da ammalato.

Si potrà accedere ai laboratori presso Gallerie d’Italia, in via Toledo 177, Napoli sabato 25 novembre dalle 9.15

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Onnipresenti, le micro- e nanoplastiche attaccano anche il cuore con effetti dannosi fino ad oggi sconosciuti e mai trovati prima. Dopo averle trovate nell’uomo in diversi organi e tessuti, tra cui la placenta, il latte materno, fegato e polmoni, compresi i tessuti cardiaci, uno studio italiano rivela per la prima volta la loro presenza perfino nelle placche aterosclerotiche, depositi di grasso nelle arterie pericolose per il cuore e fornisce soprattutto prova inedita della loro pericolosità. I dati raccolti mostrano infatti che le placche aterosclerotiche “da inquinamento” sono anche più infiammate della norma, quindi più friabili ed esposte a rischio di rottura con un aumento almeno 2 volte più alto del rischio di infarti, ictus e mortalità rispetto a placche aterosclerotiche che non sono infarcite di plastica. Lo ha verificato un ampio studio italiano coordinato da ricercatori dell’Università  della Campania Luigi Vanvitelli, oggi pubblicato sulla rivista The New England Journal of Medicine, che dimostra come le placche aterosclerotiche contengano spesso micro- e nanoplastiche a base di polietilene (PE, rilevato nel 58.4% dei casi) o polivinilcloruro (o PVC, individuato nel 12.5% dei casi), due dei composti plastici di maggior consumo nel mondo, utilizzati per realizzare prodotti che vanno dai contenitori ai rivestimenti, dalle pellicole plastificate a materiali per l’edilizia.

 

L’editoriale del New England Medical Journal

Lo studio italiano è accompagnato da un editoriale della rivista che definisce la ricerca “una scoperta rivoluzionaria che solleva una serie di domande urgenti: l’esposizione a microplastiche e nanoplastiche può essere considerato un nuovo fattore di rischio cardiovascolare? Quali organi oltre al cuore possono essere a rischio? Come possiamo ridurre l’esposizione?”, scrive l’epidemiologo Philip J. Landrigan, fondatore e direttore del Global Public Health Program del Boston College e del Global Pollution Observatory all’interno dello Schiller Institute for Integrated Science and Society, che firma l’editoriale. “Il primo passo è riconoscere che il basso costo e la convenienza della plastica – continua - sono ingannevoli e che, di fatto, nascondono grandi danni, come il contributo della plastica agli esiti associati alla placca aterosclerotica. Dobbiamo incoraggiare i nostri pazienti a ridurre l’uso della plastica, in particolare degli articoli monouso non necessari e sostenere il Trattato Globale sulla Plastica delle Nazioni Unite per rendere obbligatorio un tetto globale alla produzione di plastica. Come per i cambiamenti climatici anche la risoluzione dei problemi associati alla plastica richiederà una transizione su larga scala dal carbonio fossile”.

 

Lo studio

L’indagine è stata condotta su 257 pazienti con oltre 65 anni sottoposti a un’endoarterectomia per stenosi carotidea asintomatica, procedura chirurgica durante la quale sono state rimosse placche aterosclerotiche che poi sono state analizzate con il microscopio elettronico così da rilevare l’eventuale presenza di micro- e nanoplastiche, ovvero particelle plastiche con un diametro rispettivamente inferiore a 5 millimetri o a 1 micron (0,001 millimetri). “L’analisi ha dimostrato la presenza di particelle di PE a livelli misurabili (circa 20 microgrammi per milligrammo di placca) nel 58.4% dei pazienti e di particelle di PVC (in media 5 microgrammi per milligrammo di placca) nel 12.5% - dichiara Giuseppe Paolisso, coordinatore dello studio e Ordinario di Medicina Interna dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” -; soprattutto, tutti i partecipanti sono stati seguiti per circa 34 mesi e si è osservato che in coloro che avevano placche ‘inquinate’ dalle plastiche il rischio di infarti, ictus o di mortalità per tutte le cause era almeno raddoppiato  rispetto a chi non aveva placche aterosclerotiche contenenti micro- e nanoplastiche, indipendentemente da altri fattori di rischio cardio-cerebrovascolari come età, sesso,  fumo, indice di massa corporea, valori di colesterolo, pressione e glicemia o precedenti eventi cardiovascolari. I dati mostrano inoltre un incremento locale significativo di marcatori dell’infiammazione in presenza delle micro- e nanoplastiche”.

 

Il meccanismo dei danni creati al cuore dalla plastica

“L’effetto pro-infiammatorio potrebbe essere uno dei motivi per cui le micro- e nanoplastiche comportano una maggiore instabilità delle placche e quindi un maggior rischio che si rompano, dando luogo a trombi e provocando così infarti o ictus – spiega Raffaele Marfella, ideatore dello studio e Ordinario di Medicina Interna dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” –. Dati raccolti in vitro e negli animali da esperimento hanno già mostrato che le micro- e nanoplastiche possono promuovere lo stress ossidativo e l’infiammazione nelle cellule dell’endotelio che ricopre i vasi sanguigni, ma anche che possono alterare il ritmo cardiaco e contribuire allo sviluppo di fibrosi e alterazioni della funzionalità del cuore: questi risultati mostrano per la prima volta nell’uomo una correlazione fra  la presenza di micro- e nanoplastiche e un maggior rischio cardiovascolare”.

 

La diffusione delle plastiche

Il PE è una delle plastiche più utilizzate al mondo, tanto da costituire il 40% del volume totale della produzione mondiale di materie plastiche; leggero e resistente a urti e corrosione, è usato ampiamente per realizzare contenitori, oggetti, rivestimenti. Il PVC è altrettanto diffuso ed è una delle materie plastiche più versatili, perché può essere modellato e stampato a caldo, ma anche sciolto per spalmare tessuti e superfici; si trova in innumerevoli prodotti, dai rivestimenti alle pellicole, dai tubi fino ai dischi in vinile. Entrambi possono dare origine a microscopiche particelle plastiche che si riversano nell’ambiente e possono poi essere assorbite: stando all’ultimo rapporto Future Brief sulle nanoplastiche della Commissione Europea, in media un adulto inala o ingerisce dalle 39.000 alle 52.000 particelle plastiche all’anno, pari a 5 grammi di plastica alla settimana, l’equivalente di una carta di credito. “L’aumento esponenziale della produzione è la causa principale del peggioramento dei danni da plastica – si legge nell’editoriale -. In tutto il mondo, la produzione annuale è cresciuta da meno di 2 milioni di tonnellate nel 1950 a circa 400 milioni di tonnellate a oggi. Si prevede che questa produzione raddoppierà entro il 2040 e triplicherà entro il 2060”.

 

Cosa resta ancora da chiarire

Il nostro studio non ha indagato l’origine delle micro- e nanoplastiche rilevate nelle placche aterosclerotiche: considerata l’ampia diffusione di PE e PVC, attribuirne la fonte di provenienza nell’uomo è pressoché impossibile – precisa il Prof. Antonio Ceriello dell’IRCSS Multimedica di Milano -. Sono soprattutto le particelle plastiche più piccole, le nanoplastiche, a poter penetrare in profondità nei tessuti, ma numerosi studi ne hanno rinvenute anche di dimensioni maggiori e in quantità rilevabili in molti organi umani: si sono trovate particelle con un diametro fino a 10 micron nella placenta, fino a 15 micron nel latte materno e nelle urine, fino a 30 micron nel fegato, fino a 88 micron nei polmoni, con un diametro superiore a 0,7 micron nel sangue. Sebbene i nostri dati non stabiliscano un rapporto di causa-effetto, tuttavia suggeriscono che le  micro- e nanoplastiche potrebbero costituire un nuovo, importante fattore di rischio cardiovascolare di cui tenere conto”. “La qualità di questo studio – aggiunge il Rettore dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, Prof. Gianfranco Nicoletti - dimostra ancora una volta quanto sia cresciuta la nostra Università in questi anni e che grandi potenzialità di sviluppo essa ha nel prossimo futuro”.

A cura del professor Giovambattista Capasso

Ordinario di nefrologia presso la Università Vanvitelli e Direttore Scientifico di Biogem, centro di ricerca in Biologia Molecolare e Genetica di Ariano Irpino.

Rene e cervello, quali connessioni? E' questo il tema della prima conferenza internazionale dal titolo Brain and kidney interaction, sul rapporto Rene - Cervello che si terrà a Napoli il 23 e 24 novembre.  Al convegno parteciperanno una folta schiera di eminenti studiosi appartenenti a diverse discipline mediche così come si addice quando si affronta un tema di punta del sapere medico.

I dati epidemiologici indicano un significativo aumento del numero di pazienti affetti da malattie renali croniche (MRC). Questa tendenza è evidente in tutte le fasce d'età, ma è particolarmente pronunciata tra gli anziani. La MRC è una condizione complessa e potenzialmente pericolosa per la vita che colpisce tutti gli organi, portando a alterazioni nei parametri fisiologici fondamentali, come il volume plasmatico, gli elettroliti, l'equilibrio acido-base, gli ormoni e il metabolismo proteico. Date le comorbilità associate, l'approccio terapeutico preferito prevede una strategia multidisciplinare che includa l'uso appropriato di farmaci e interventi adattati alle specifiche esigenze nutrizionali”.

Nel 30-60% dei casi di MRC avanzata, i pazienti presentano disturbi cognitivi. Queste persone spesso soffrono di vari sintomi che colpiscono sia il sistema nervoso centrale che quello periferico. Il deficit più osservato è la lieve compromissione cognitiva (MCI), caratterizzata da lesioni neurologiche e disfunzione cognitiva. È importante notare che l'MCI è già diffuso nelle fasi iniziali dell'insufficienza renale ed è significativamente più comune tra i pazienti affetti da MRC rispetto agli individui della stessa fascia d'età nella popolazione generale.

Nel campo attuale delle neuroscienze, ci sono numerose innovazioni che hanno notevolmente ampliato le nostre conoscenze, tra cui nuove tecnologie di imaging applicabili sia a modelli animali che umani. Inoltre, sono disponibili test cognitivi innovativi e gli approcci omici sono ampiamente utilizzati nella ricerca neuroscientifica.

Purtroppo, la collaborazione interdisciplinare mirata a comprendere la natura e l'origine dell'MCI-MRC è stata piuttosto limitata. Molte domande fondamentali su questa condizione sono rimaste senza risposta o, peggio ancora, sono state trascurate e non affrontate. La conseguenza grave di ciò è l'assenza di qualsiasi terapia patogenetica finora.

Pertanto, l'obiettivo primario di questa conferenza è riunire rinomati relatori internazionali provenienti da diversi campi per collaborare nel comprendere i meccanismi ed esplorare future opzioni terapeutiche per questa emergente entità clinica. Inoltre, c'è la speranza che una miglior comprensione dell'interazione tra il cervello e i reni possa migliorare la nostra comprensione di altre malattie neurologiche.

Programma

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