di Adriana Oliva, Dipartimento di Biochimica, Biofisica e Patologia generale - Seconda Università degli studi di Napoli
Caratteristica comune nella formazione attuale dei medici laureati in Italia e in gran parte di Europa è una preparazione di tipo strettamente biomedico, basata su tutta una serie di nozioni scientifiche, con una pressoché totale assenza degli aspetti relazionali. La concezione biomedica porta a una visione strettamente tecnologica di organi e sintomi, trascurando gli aspetti psicologici.
Nel rapporto medico-paziente, quest'ultimo è stato, soprattutto in passato, identificato come una "persona che ha pazienza" piuttosto che come "una persona che patisce e soffre". Ed è proprio uno stato di “sofferenza” a spingere un paziente a consultare un medico. Può trattarsi di un malessere fisico o psicologico più o meno lieve fino ad arrivare ad una situazione di dolore fisico insostenibile. Nel momento in cui le due persone s'incontrano, il paziente chiede al medico non solo di mettere in campo le proprie competenze e la propria professionalità, ma anche, e talvolta soprattutto, la piena disponibilità all'ascolto, un dialogo improntato al rispetto e alla solidarietà, in una parola empatia. Quando compare una malattia, questa non si manifesta solo a livello fisico ma anche a livello psicologico: "curare" deve significare "prendersi cura" dell’intera persona.
Tuttavia il fenomeno diffuso dell'Internet Medicine, cioè della ricerca in rete di una risposta ai propri sintomi, e una talvolta eccessiva specializzazione degli operatori sanitari, associata alla parcellizzazione delle competenze, stanno contribuendo a non favorire un adeguato e ottimale dialogo medico-paziente. Le conoscenze cliniche sono indispensabili, ma non di per sé sufficienti a costruire la fiducia e a far nascere la speranza, senza le quali il paziente si ritrova solo.
Comunicare bene con i pazienti, ascoltarli, prendere in esame non solo i loro sintomi ma anche le loro ansie, non è solo un adempimento etico ma anche uno strumento di fondamentale importanza ed utilità nella diagnosi, nella terapia e nella guarigione.
Inoltre, l’umanizzazione del rapporto medico-paziente, che mette la persona al centro del processo di cura, porta a una riduzione delle denunce per malpractice e a un aumento della compliance del paziente nei confronti della terapia, e ha in ultima analisi come risultato il miglioramento della qualità di vita sia dei pazienti che dei medici.
Per raggiungere quest'obiettivo è necessario che avvenga un cambiamento netto nella formazione professionale dei medici, introducendo nel curriculum accademico, fin dal primo anno, dei corsi che consentano di acquisire delle competenze relazionali in Medicina.
È mia convinta opinione che una Scuola di Medicina debba prevedere, tra i vari corsi e attività che costruiscono le basi nozionistiche per la futura professione, anche un corso dedicato istituzionalmente al rapporto/dialogo medico paziente, a cui moltissimi studenti di Medicina sono impreparati e che invece sarebbe assolutamente auspicabile, per loro stessa ammissione.
In quest'ottica da diversi anni, organizzo nell'ambito dell'ARFACID (Associazione di Solidarietà Sociale e di Promozione degli Studi sul Cancro, l'Invecchiamento e le Malattie Degenerative) turni di volontariato di nostri studenti del primo biennio presso alcune nostre strutture del centro storico: i riscontri a quest'attività sono entusiastici.
Un'altra iniziativa molto apprezzata dagli studenti è l'ADE "Il dialogo medico-paziente", a cui presta la sua costante e preziosa collaborazione la dott.ssa Rosa Ruggiero, dirigente medico dell'ASL Napoli 1 Centro e docente di “Comunicazione medico-paziente” in un Master dell’Università “Federico II”.
Al di là del CFU che viene assegnato ai partecipanti all'ADE, e che certamente fa comodo, ho visto un grande interesse da parte degli studenti che mi è stato testimoniato sia al momento dello svolgimento dell'ADE sia successivamente con numerose mail di apprezzamento per questa iniziativa.
In conclusione, mi sono convinta sempre più in questi ultimi anni che una Scuola di Medicina dovrebbe, a partire dal primo biennio, cominciare a formare degli operatori in grado di interagire in maniera corretta, rispettosa ed empatica con i pazienti, e su questa base poi costruire figure professionali tecnicamente valide.