Sul Pubblicare in Medicina. Impact factor, open access, peer review, predatory journal e altre creature misteriose. L’incontro si terrà lunedì 24 giugno - h 16:30 Sant’Andrea delle Dame | Sala degli Affreschi | Via L. De Crecchio 7, Napoli

Più di cinque milioni di articoli scientifici pubblicati ogni anno. Trentamila riviste indicizzate sui database internazionali. Centotrenta milioni di ore di lavoro non retribuite di medici e ricercatori per una peer review che si dimostra non sempre efficace. Diecimila articoli retracted ogni anno. Dietro a questi numeri c’è un’industria che vale 30 miliardi di dollari e fa utili come i grandi player dell’informatica. Il business model degli editori delle pubblicazioni scientifiche è all'avanguardia e dimostra come sia possibile ottenere ingenti profitti con costi minimi, sfruttando l'informazione generata dal lavoro oneroso e dall'investimento di ricercatori clinici, sul campo e in laboratorio, revisori delle pubblicazioni e finanziatori dei progetti di ricerca.

Una conversazione tra

Lucia Altucci (Professoressa di Patologia generale, Università della Campania)

Italo Angelillo (Professore di Igiene Generale ed Applicata dell’Università della Campania),

Paolo Chiodini (Professore di Statistica Medica, Università della Campania),

Luca De Fiore (Il Pensiero Scientifico Editore e European Association of Science Editors)

Francesco Perrone (Direttore della SC Sperimentazioni cliniche,

Istituto Nazionale Tumori, Fondazione Pascale, Napoli e Presidente AIOM)

Giovanni Conzo nella Cabina di regia per l’implementazione di una rete di Centri “Pancreas Unit”. La nomina per Conzo, professore associato di Chirurgia generale dell'Ateneo Vanvitelli, arriva dal Ministero della Salute che ha deciso di istituire questo coordinamento in considerazione della necessità di individuare le possibili iniziative più idonee per contrastare l’insorgenza del tumore pancreatico e per potenziare la relativa assistenza, anche individuando i modelli organizzativi più idonei a garantire i massimi livelli di qualità, efficacia e sicurezza delle cure in tutto il territorio nazionale.

Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, il tumore al pancreas rappresenta attualmente lo 0,79% della mortalità globale per tutte le cause, con un aumento di 1,80 volte verificatosi negli ultimi venticinque anni. 
La cabina di regia appena istituita, in particolare, mira all’implementazione di una rete di Centri “Pancreas Unit” per la diagnosi e il trattamento del tumore del pancreas, con funzioni di studio e di coordinamento delle strategie di attuazione della predetta rete in raccordo con tutti i livelli del Servizio sanitario nazionale.

Terapia fisica riabilitativa, ai microfoni di "Le scienze" c'è Francesca Gimigliano, docente di medicina fisica e riabilitativa al Dipartimento di salute Mentale e fisica e Medicina preventiva dell'Università degli Studi della Campania "Luigi Vanvitelli" e presidente della Società internazionale di medicina fisica e riabilitativa (ISPRM). I suoi ambiti principali di ricerca riguardano l'invecchiamento (osteoporosi e sarcopenia), la classificazione internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute, e le nuove tecnologie in riabilitazione.
Scopriamo con la prof. Gimigliano com'è cambiata la medicina riabilitativa negli ultimi anni e come questa stia assumendo un ruolo sempre più centrale in tutti i livelli di cura, ospedalieero, in fase post acuta di malattia, in fase cronica.

Italian Knowledge Leaders è una serie di incontri organizzati da Le Scienze in collaborazione con Convention Bureau Italia che mette in connessione il pubblico in maniera diretta con i protagonisti della scienza.

Studiare le proteine conservate nella cellula uovo per comprendere i meccanismi dello sviluppo embrionale. Un importante passo avanti nella ricerca contro l’infertilità femminile e i disordini dello sviluppo è stato compiuto dal team di ricercatori guidato da Andrea Riccio, docente del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Ambientali e Farmaceutiche dell’Università Vanvitelli e ricercatore associato dell’Istituto di Genetica e Biofisica Adriano Buzzati-Traverso del CNR. In collaborazione con il team del dottor Gavin Kelsey del Babraham Institute di Cambridge nel Regno Unito, i risultati di questa innovativa scoperta sono stati condivisi recentemente sulla prestigiosa rivista Genes and Development.

Il team che ha realizzato lo studio comprende come primo autore il dottor Carlo Giaccari. Seguono Francesco Cecere, Lucia Argenziano, Angela Pagano, Basilia Acurzio e la professoressa Flavia Cerrato. Il lavoro è frutto anche della collaborazione con i gruppi della professoressa Sandra Cecconi dell’Università dell’Aquila e della professoressa Maria Vittoria Cubellis della Federico II.

Lo studio si focalizza su un componente chiave del complesso multiproteico materno, PADI6, che svolge un ruolo fondamentale nell’immagazzinamento delle proteine nella cellula uovo, in maniera che esse possano essere utilizzate dopo la fecondazione, durante le prime divisioni cellulari dell’embrione.

"Le proteine materne - spiega Riccio – sono necessarie al prodotto del concepimento nelle prime fasi dello sviluppo, quando l’embrione non è ancora in grado di produrle. Mutazioni della proteina PADI6 sono causa di infertilità femminile e di alcuni rari disordini dello sviluppo, come la Sindrome di Beckwith-Wiedemann (BWS)”.

Il team ha generato un modello murino transgenico, in cui è stata riprodotta la mutazione di PADI6 precedentemente riscontrata in una donna le cui figlie erano affette da BWS. L’applicazione di tecniche innovative, come le analisi omiche su singola cellula, su questo modello animale ha permesso di dimostrare il ruolo che PADI6 svolge nella maturazione della cellula uovo e nella riprogrammazione del genoma embrionale, meccanismi molecolari che sono alla base dei difetti di sviluppo dell’embrione che si verificano prima dello stadio di impianto.

Questo studio apre nuove prospettive nella comprensione delle cause e nel potenziale trattamento dell’infertilità femminile. Nonostante ci siano ancora difficoltà per traslare questa promettente scoperta in fase pre-clinica e clinica, il team di Andrea Riccio è già al lavoro per individuare molecole che permettano di correggere il difetto di sviluppo causato dalla mutazione di PADI6 e sulla cui base individuare potenziali farmaci.
La ricerca è stata finanziata dalla Fondazione Telethon e dalla Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro.

 

Conoscere meglio neuroplasticità e connettività neuronale per migliorare diagnosi e cura delle malattie neurodegnerative. Questo l'obiettivo del progetto dello “Spoke 2” del Partneriato Esteso “MNESYS” sulle Neuroscienze finanziato dal Ministero della Università e della Ricerca attraverso i fondi PNRR. Il Partneriato, che ha la sede centrale di coordinamento (Hub) a Genova, si pone l’obiettivo di sviluppare un’estesa rete di atenei, istituti di ricerca ed aziende tecnologiche che collaborano su diverse tematiche (Spoke) per lo sviluppo di nuovi approcci per le neuroscienze sperimentali e cliniche in una prospettiva di medicina di precisione, personalizzata e predittiva che abbiano un impatto trasformativo sulla cura delle patologie del sistema nervoso e del comportamento.

L’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, in qualità di capofila dello Spoke 2, coordina 17 enti in totale, tra cui nove atenei pubblici e sette istituti di ricerca accreditati dal Ministero della Salute, ed ha organizzato il meeting che ha visto la partecipazione di cospicue ed autorevoli delegazioni di ricercatori da ciascuno degli enti Partner del progetto, e la presentazione di 60 contributi scientifici dalle ricerche avviate duranto il primo anno di progetto, sotto forma di poster e comunicazioni orali, sulla tematica della “neuroplasticità e connettività neuronale”.

La “neuroplasticità” è una caratteristica peculiare del cervello che discende dalla capacità naturale del sistema nervoso di modificarsi, funzionalmente e strutturalmente, in risposta agli stimoli e le perturbazioni che provengono dall’esterno o dall’interno del corpo e che lo stesso cervello deve continuamente elaborare e metabolizzare. Lo studio della neuroplasticità è cruciale, non solo per la comprensione dei processi di sviluppo e invecchiamento naturale del sistema nervoso, ma anche per la valutazione delle patologie che si possono verificare e che in modo diverso possono produrre un danno a questo insostituibile organo. Inoltre, per affrontare in maniera più completa ed efficace la complessità delle manifestazioni neurologiche nelle patologie neurodegeneraitive, il tema della neuroplasticità è strettamente associato a quello della “connettività neuronale” visto che i sintomi che caratterizzano queste patologie non sono mai il risultato di alterazioni a carico di uno singolo specifico neurone o area cerebrale, quanto, piuttosto, un effetto (o un difetto) di sincronizzazione tra gruppi di neuroni diversi e distribuiti su larga parte del cervello grazie a miliardi di connessioni.

Il paradigma generale adotattato da tutti gli Spoke del partneriato MNESYS è quello di uno studio multi-disciplinare e multi-scalare che fa leva su approcci sperimentali complementari che coprono tutta la fenomenologia del sistema nervoso, dal molecolare e cellulare all’organismo in toto, dalle valutazioni cliniche e psicologiche agli approcci farmacologici innovativi ed anche alle tecniche computazionali basate sulla creazione di modelli virtuali dell’individuo attraverso i cosiddetti “gemelli digitali” (digital twins) che permettono di simulare al computer l’effetto di un farmaco o di altro trattamento capace di innescare un fenomeno di neuroplasticità. In particolare, nello Spoke 2, si punta ad associare una descrizione clinica accurata dei sintomi neurologici e delle variegate espressioni (e disordini) del comportamento e del movimento, alla connettività del cervello umano, indagata tanto nella sua globalità (approccio su larga scala o connettomico) quanto nella chimica e nella morfologia che caratterizza le connessioni di ristretti gruppi di neuroni dello stesso tipo (approccio su piccola scala).

L’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” ha implementato il paradigma MNESYS nello Spoke 2 coinvolgendo dodici docenti da diverse discipline e dipartimenti, reclutando una ventina di giovani ricercatori, tra cui dottorandi e assegnisti di ricerca, ed ampliando le attrezzature scientifiche ed i materiali a disposizione di alcuni laboratori, proprio grazie al finanziamento PNRR riservato a questo progetto. In particolare, l’analisi del connetoma cerebrale in pazienti affetti da diverse patologie neurologiche è attualmente condotta da diversi gruppi di ricerca multi-disciplinare del Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche Avanzate, costituito da neurologi, neuroradiologi e ingegneri biomedici, già operativi presso il centro di ricerca sulle Neuroimmagini dell’Ateneo. Ad esempio, il gruppo, coordinato da. Fabrizio Esposito (ingegnere biomedico e coordinatore dello Spoke 2), insieme con Alessandro Tessitore (Direttore della Clinica Neurologica dell’AOU Vanvitelli) e Mario Cirillo (Neuroradiologo), ha avviato una serie di nuove ricerche con l’obiettivo di complementare lo studio connetomico del cervello, tipicamente condotto attraverso l’elaborazione avanzata delle neuroimmagini, con ulteriori “scale” di osservazione della neuroplasticità e connettività neuronale. Una linea di sviluppo MNESYS del progetto dello Spoke 2 coinvolge infatti il gruppo di Neuroanatomia dei docenti Michele Papa che con Giovanni Cirillo sta realizzando presso il Dipartimento di Salute Mentale e Medicina Preventiva e Fisica uno studio integrato ex-vivo delle connessioni cerebrali ad una scala microscopica.

Un’altra linea coinvolge, invece, il gruppo di Alessandro Usiello del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Ambientali Biologiche e Farmaceutiche, che tramite le metodologie della biochimica analitica, sta indagando il ruolo di alcune molecole (D-Aminoacidi) di cui è adesso più nota l’attività neuromodulatoria, cioè quel tipo di azione che potrebbe indurre particolari fenomeni di neuroplasticità nel contesto di una patologia neurologica o psichiatrica. Una parte significativa del progetto è, infine, dedicata all’utilizzo dell’intelligenza artificiale e dei modelli computazionali avanzati anche per favorire una maggiore o diversa integrazione tra diverse discipline e scale di osservazione ed arrivare a comprendere sempre meglio, sia le funzioni cerebrali (in condizioni fisiologiche e patologiche) che il movimento ed il comportamento umano. Ulteriori contributi che si inquadrano su queste linee provengono dal gruppo di Fisica Teorica di Lucilla De Arcangelis del Dipartimento di Matematica e Fisica e dal gruppo di Neuropsicologia di Luigi Trojano e di Gabriella Santangelo del Dipartimento di Psicologia che stanno rispettivamente indagando la validità dei modelli computazionali per lo studio dei fenomeni di neuroplasticità e connettività eccitatoria ed inibitoria, anche attraverso l’impiego di modelli in-vitro delle cellule nervose e delle reti neuronali, e le caratteristiche del connetoma che possono influenzare alcuni aspetti della cognizione sociale.

 

Onnipresenti, le micro- e nanoplastiche attaccano anche il cuore con effetti dannosi fino ad oggi sconosciuti e mai trovati prima. Dopo averle trovate nell’uomo in diversi organi e tessuti, tra cui la placenta, il latte materno, fegato e polmoni, compresi i tessuti cardiaci, uno studio italiano rivela per la prima volta la loro presenza perfino nelle placche aterosclerotiche, depositi di grasso nelle arterie pericolose per il cuore e fornisce soprattutto prova inedita della loro pericolosità. I dati raccolti mostrano infatti che le placche aterosclerotiche “da inquinamento” sono anche più infiammate della norma, quindi più friabili ed esposte a rischio di rottura con un aumento almeno 2 volte più alto del rischio di infarti, ictus e mortalità rispetto a placche aterosclerotiche che non sono infarcite di plastica. Lo ha verificato un ampio studio italiano coordinato da ricercatori dell’Università  della Campania Luigi Vanvitelli, oggi pubblicato sulla rivista The New England Journal of Medicine, che dimostra come le placche aterosclerotiche contengano spesso micro- e nanoplastiche a base di polietilene (PE, rilevato nel 58.4% dei casi) o polivinilcloruro (o PVC, individuato nel 12.5% dei casi), due dei composti plastici di maggior consumo nel mondo, utilizzati per realizzare prodotti che vanno dai contenitori ai rivestimenti, dalle pellicole plastificate a materiali per l’edilizia.

 

L’editoriale del New England Medical Journal

Lo studio italiano è accompagnato da un editoriale della rivista che definisce la ricerca “una scoperta rivoluzionaria che solleva una serie di domande urgenti: l’esposizione a microplastiche e nanoplastiche può essere considerato un nuovo fattore di rischio cardiovascolare? Quali organi oltre al cuore possono essere a rischio? Come possiamo ridurre l’esposizione?”, scrive l’epidemiologo Philip J. Landrigan, fondatore e direttore del Global Public Health Program del Boston College e del Global Pollution Observatory all’interno dello Schiller Institute for Integrated Science and Society, che firma l’editoriale. “Il primo passo è riconoscere che il basso costo e la convenienza della plastica – continua - sono ingannevoli e che, di fatto, nascondono grandi danni, come il contributo della plastica agli esiti associati alla placca aterosclerotica. Dobbiamo incoraggiare i nostri pazienti a ridurre l’uso della plastica, in particolare degli articoli monouso non necessari e sostenere il Trattato Globale sulla Plastica delle Nazioni Unite per rendere obbligatorio un tetto globale alla produzione di plastica. Come per i cambiamenti climatici anche la risoluzione dei problemi associati alla plastica richiederà una transizione su larga scala dal carbonio fossile”.

 

Lo studio

L’indagine è stata condotta su 257 pazienti con oltre 65 anni sottoposti a un’endoarterectomia per stenosi carotidea asintomatica, procedura chirurgica durante la quale sono state rimosse placche aterosclerotiche che poi sono state analizzate con il microscopio elettronico così da rilevare l’eventuale presenza di micro- e nanoplastiche, ovvero particelle plastiche con un diametro rispettivamente inferiore a 5 millimetri o a 1 micron (0,001 millimetri). “L’analisi ha dimostrato la presenza di particelle di PE a livelli misurabili (circa 20 microgrammi per milligrammo di placca) nel 58.4% dei pazienti e di particelle di PVC (in media 5 microgrammi per milligrammo di placca) nel 12.5% - dichiara Giuseppe Paolisso, coordinatore dello studio e Ordinario di Medicina Interna dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” -; soprattutto, tutti i partecipanti sono stati seguiti per circa 34 mesi e si è osservato che in coloro che avevano placche ‘inquinate’ dalle plastiche il rischio di infarti, ictus o di mortalità per tutte le cause era almeno raddoppiato  rispetto a chi non aveva placche aterosclerotiche contenenti micro- e nanoplastiche, indipendentemente da altri fattori di rischio cardio-cerebrovascolari come età, sesso,  fumo, indice di massa corporea, valori di colesterolo, pressione e glicemia o precedenti eventi cardiovascolari. I dati mostrano inoltre un incremento locale significativo di marcatori dell’infiammazione in presenza delle micro- e nanoplastiche”.

 

Il meccanismo dei danni creati al cuore dalla plastica

“L’effetto pro-infiammatorio potrebbe essere uno dei motivi per cui le micro- e nanoplastiche comportano una maggiore instabilità delle placche e quindi un maggior rischio che si rompano, dando luogo a trombi e provocando così infarti o ictus – spiega Raffaele Marfella, ideatore dello studio e Ordinario di Medicina Interna dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” –. Dati raccolti in vitro e negli animali da esperimento hanno già mostrato che le micro- e nanoplastiche possono promuovere lo stress ossidativo e l’infiammazione nelle cellule dell’endotelio che ricopre i vasi sanguigni, ma anche che possono alterare il ritmo cardiaco e contribuire allo sviluppo di fibrosi e alterazioni della funzionalità del cuore: questi risultati mostrano per la prima volta nell’uomo una correlazione fra  la presenza di micro- e nanoplastiche e un maggior rischio cardiovascolare”.

 

La diffusione delle plastiche

Il PE è una delle plastiche più utilizzate al mondo, tanto da costituire il 40% del volume totale della produzione mondiale di materie plastiche; leggero e resistente a urti e corrosione, è usato ampiamente per realizzare contenitori, oggetti, rivestimenti. Il PVC è altrettanto diffuso ed è una delle materie plastiche più versatili, perché può essere modellato e stampato a caldo, ma anche sciolto per spalmare tessuti e superfici; si trova in innumerevoli prodotti, dai rivestimenti alle pellicole, dai tubi fino ai dischi in vinile. Entrambi possono dare origine a microscopiche particelle plastiche che si riversano nell’ambiente e possono poi essere assorbite: stando all’ultimo rapporto Future Brief sulle nanoplastiche della Commissione Europea, in media un adulto inala o ingerisce dalle 39.000 alle 52.000 particelle plastiche all’anno, pari a 5 grammi di plastica alla settimana, l’equivalente di una carta di credito. “L’aumento esponenziale della produzione è la causa principale del peggioramento dei danni da plastica – si legge nell’editoriale -. In tutto il mondo, la produzione annuale è cresciuta da meno di 2 milioni di tonnellate nel 1950 a circa 400 milioni di tonnellate a oggi. Si prevede che questa produzione raddoppierà entro il 2040 e triplicherà entro il 2060”.

 

Cosa resta ancora da chiarire

Il nostro studio non ha indagato l’origine delle micro- e nanoplastiche rilevate nelle placche aterosclerotiche: considerata l’ampia diffusione di PE e PVC, attribuirne la fonte di provenienza nell’uomo è pressoché impossibile – precisa il Prof. Antonio Ceriello dell’IRCSS Multimedica di Milano -. Sono soprattutto le particelle plastiche più piccole, le nanoplastiche, a poter penetrare in profondità nei tessuti, ma numerosi studi ne hanno rinvenute anche di dimensioni maggiori e in quantità rilevabili in molti organi umani: si sono trovate particelle con un diametro fino a 10 micron nella placenta, fino a 15 micron nel latte materno e nelle urine, fino a 30 micron nel fegato, fino a 88 micron nei polmoni, con un diametro superiore a 0,7 micron nel sangue. Sebbene i nostri dati non stabiliscano un rapporto di causa-effetto, tuttavia suggeriscono che le  micro- e nanoplastiche potrebbero costituire un nuovo, importante fattore di rischio cardiovascolare di cui tenere conto”. “La qualità di questo studio – aggiunge il Rettore dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, Prof. Gianfranco Nicoletti - dimostra ancora una volta quanto sia cresciuta la nostra Università in questi anni e che grandi potenzialità di sviluppo essa ha nel prossimo futuro”.

Un test genetico per curare efficacemente i neonati colpiti dall’asfissia perinatale. Potrebbe essere questa la strada per migliorare le strategie terapeutiche per un evento che rappresenta ad oggi la principale causa di morte e neurodisabilità nel neonato a termine. Evento del tutto inatteso che si verifica al momento del parto a causa del mancato apporto a livello cerebrale di sangue e ossigeno.

Nuove prospettive le ha aperte lo studio di un team di ricercatori guidato da Paolo Montaldo, dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli, in collaborazione con il team dell’Imperial College London, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Jama Network (Whole-Blood Gene Expression Profile After Hypoxic-Ischemic Encephalopathy | Pediatrics | JAMA Network Open | JAMA Network).

La ricerca si è focalizzata sulle differenze nei profili di espressione genica nei neonati affetti da asfissia perinatale nati nei paesi sviluppati e neonati nati in India, Sri Lanka e Bangladesh così da comprendere perché una popolazione (la prima) beneficerebbe del trattamento ipotermico e l’altra (quella del Sud Asia) no. Dallo studio è emerso infatti che il profilo di espressione genica subito dopo la nascita, associato ad outcome avverso, è significativamente differente: nel caso dei nati nei paesi in via di sviluppo, si tratterebbe di un’asfissia non acuta ma bensì di un processo di sofferenza che inizierebbe già nel grembo materno, e quindi al di fuori della finestra di efficacia del trattamento ipotermico.

“Abbiamo evidenziato – spiega Montaldo – che nel caso dei neonati del Sud Asia si tratta di un processo che si instaura più lentamente, tanto da persistere nel tempo. Probabile, che altri fattori agiscano nei paesi in via di sviluppo come malnutrizione, basso peso alla nascita ed insufficienza placentare. Questo cambia l'efficacia delle strategie di neuroprotezione che noi usiamo. Ad esempio, l'ipotermia terapeutica che consiste nel ridurre la temperatura corporea a 33.5°C per 3 giorni, ha un'efficacia estrema solo se iniziata entro alcune ore dall'instaurarsi dell'ipossia acuta perché agisce rallentando il metabolismo cerebrale. Se tuttavia l'ipossia si instaura più lentamente ed in maniera non acuta, il danno cerebrale è mediato soprattutto da un processo di stress ossidativo e flogosi”.

Ecco perché avere un test genetico che possa un domani dare queste informazioni, potrebbe guidare i medici sulla migliore strategia terapeutica. “Attualmente – continua Montaldo - la terapia elettiva è rappresentata dall’ipotermia terapeutica, che consiste nel ridurre la temperatura corporea del neonato poco dopo la nascita, così da limitare i danni dell’insulto ipossico-ischemico. Tuttavia, nonostante questo trattamento, oggi oltre 2 milioni di neonati presenta danni cerebrali permanenti. Pertanto, l’ipotermia terapeutica da sola sembrerebbe essere solo parzialmente efficace e addirittura di nessuna efficacia per i bambini nati nei paesi in via di sviluppo, sui quali invece potrebbe essere più efficace l'eritropoietina “.

La sfida, dunque, è individuare quali sono i bambini che necessitano di un trattamento e come curarli al meglio. Questa ricerca, oltre a chiarire i meccanismi fisiopatologici alla base del danno ipossico ischemico, fornisce basi solide per future strategie terapeutiche con il potenziale di sviluppare un test nel sangue che guidi i neonatologi nel processo decisionale al fine di ottimizzare la strategia di neuroprotezione sia nei paesi in via di sviluppo come anche nei paesi sviluppati come il nostro.

 

Incidere sul funzionamento dell’orologio biologico delle cellule per rallentare la crescita di quelle tumorali. Un importante passo avanti nella ricerca contro il cancro è stato compiuto dal team di ricercatori guidato da Sandro Cosconati, docente del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Ambientali e Farmaceutiche dell’Università Vanvitelli. In collaborazione con la Prof.ssa Hilda Picket del Children's Medical Research Institute (CMRI) di Sydney, i risultati di questa innovativa scoperta sono stati condivisi recentemente sulla prestigiosa rivista Cell Chemical Biology (https://authors.elsevier.com/c/1iDJY8jWWJtYH9) in cui figurano come primi autori Alex Sobinoff (CMRI) e Salvatore Di Maro (Vanvitelli).
Lo studio si focalizza su un componente chiave del complesso multiproteico denominato shelterin, il telomeric repeat-binding factor 2 (TRF2), che svolge un ruolo essenziale nella regolazione dell'omeostasi telomerica e nella stabilità genomica e sembra essere implicato nel processo di tumorigenesi.
"I telomeri - spiega Cosconati - spesso considerati l'orologio biologico delle cellule, svolgono un ruolo cruciale nel determinare il destino cellulare, bilanciando tra la morte cellulare programmata, nota come senescenza, e la possibilità di immortalità. Posti alle estremità dei cromosomi, questi segmenti di DNA fungono da chiari indicatori del numero di divisioni cellulari a cui una cellula può ancora sottoporsi. La loro regolazione precisa è fondamentale: telomeri troppo corti possono innescare il processo di senescenza, mentre un allungamento eccessivo potrebbe favorire la trasformazione tumorale delle cellule.
Lo studio dunque si focalizza su un elemento chiave nel complesso quadro di regolazione dei telomeri: il telomeric repeat-binding factor 2 (TRF2), parte integrante del complesso multiproteico noto come shelterin. TRF2 è vitale per controllare la stabilità dei telomeri e il suo coinvolgimento nello sviluppo di tumori è ampiamente riconosciuto".

Il team ha ideato molecole innovative in grado di legarsi in modo irreversibile a TRF2. Tra queste, APOD53 ha dimostrato di innescare una risposta di danno al DNA nei telomeri, generando stress durante la replicazione cellulare e interferendo con il corretto funzionamento di proteine regolatrici. Attraverso questo meccanismo, APOD53 ha mostrato la sua capacità di rallentare la crescita delle cellule tumorali, indipendentemente dal tipo di meccanismo di allungamento dei telomeri utilizzato, preservando al contempo la vitalità delle cellule sane.

"Questo successo è il risultato di anni di impegno e della preziosa collaborazione con la professoressa Hilda Picket - dice ancora Cosconati - Abbiamo aperto nuove prospettive nella comprensione e nel potenziale trattamento del cancro. APOD53 rappresenta un significativo passo avanti, ma ci sono ancora sfide da affrontare per traslare questa promettente scoperta in fase pre-clinica e clinica."
Questa ricerca non solo fornisce basi solide per futuri sviluppi terapeutici, ma sottolinea anche l'importanza della cooperazione internazionale nella ricerca scientifica. Lo studio è frutto di una collaborazione anche con altri gruppi dell'ateneo, come quelli dei docenti Angela Chambery, Paolo Vincenzo Pedone e Lucia Altucci, ma anche grazie al sostegno ricevuto dalla Fondazione AIRC per la Ricerca sul Cancro, che ha scelto di finanziare le sue ricerche nel 2021 attraverso un Investigator Grant. Ciò conferma che l'impegno finanziario, lo studio e le collaborazioni interdisciplinari sono gli elementi fondamentali di una formula che, in un futuro prossimo, ci condurrà verso progressi sempre più significativi nella cura del cancro.

Mettere insieme i dati sull'evoluzione della malattia di 800mila pazienti affetti da Diabete di tipo 2 per dare vita a una sorta di gemelli virtuali. Un gigantesco lavoro di sistemazione di dettagli e prognosi per riuscire a fare previsioni personalizzate della patologia e dunque per garantire terapie appropriate.

Facendo un significativo passo avanti verso il progresso della medicina di precisione, un gruppo di ricerca, coordinato dal Prof. Dr. Jan Baumbach dell’Università di Amburgo (Germania), con l'Università Vanvitelli con i dipartimenti di Precisione e di Scienze Mediche e Chirurgiche Avanzate, e altri 12 partner provenienti da sette paesi, ha ricevuto un prestigioso finanziamento Horizon Europe per lo sviluppo di un’infrastruttura comune all’avanguardia dei dati sanitari. Il progetto, denominato “dAIbetes”, si concentra sull'utilizzo di gemelli virtuali come strumenti prognostici nella gestione personalizzata della malattia, mirando specificamente agli esiti del trattamento nel diabete di tipo 2. Il progetto ha avuto inizio il 1° gennaio 2024.

Nel perseguimento dei suoi obiettivi, dAIbetes mira ad ottenere una previsione personalizzata degli esiti di terapia nei pazienti affetti da diabete di tipo 2 - una condizione che colpisce 1 adulto su 10 a livello globale, con una spesa annua di circa 893 miliardi di euro. I partner metteranno insieme e organizzeranno i dati di circa 800.000 pazienti affetti da diabete di tipo 2 distribuiti in tutto il mondo in una rete specializzata comune di banche dati e li utilizzeranno per formare gemelli virtuali come strumenti prognostici. Dopo la validazione, questi modelli verranno applicati nella pratica clinica reale attraverso un software dedicato. In definitiva, i risultati aiuteranno a colmare l’attuale mancanza di linee guida sui risultati previsti per il trattamento di pazienti specifici. Il progetto cerca di dimostrare che le previsioni personalizzate provenienti da modelli di gemelli virtuali comuni hanno un errore di previsione inferiore di almeno il 10% rispetto ai modelli basati sulla media della popolazione.

DAIbetes riunisce un consorzio multidisciplinare con competenze in intelligenza artificiale, sviluppo di software, protezione della privacy, sicurezza informatica, nonché diabete ed il suo trattamento. Lo sforzo collaborativo mira a creare un modello per superare l’antagonismo tra privacy e big data nella ricerca transnazionale sul diabete ed oltre.

Il consorzio è impegnato a far avanzare le frontiere della ricerca medica, migliorando in definitiva i risultati dei pazienti e contribuendo allo sviluppo globale della medicina di precisione.

Partner del consorzio:
Universität Amburgo, Germania
Il Brigham Women’s Hospital, Inc, Stati Uniti d’America
Friedrich-Alexander-Universitaet Erlangen-Nuernberg, Germania
Gnome Design SRL, Romania
Istituto di ricerca AG & Co KG, Austria
tp21 GmbH, Germania
SBA Research gGmbH, Germania
Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, Italia
Università degli Studi di Roma La Sapienza, Italia
Medizinische Universitaet Wien, Romania
Joslin Diabetes Center INC, Stati Uniti d'America
Regione Stoccolma, Svezia
Semmelweis Egyetem, Ungheria

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