Un nuovo studio della SISSA e dell’Università Vanvitelli approfondisce le dinamiche che inducono le proteine prioniche ad assumere la forma patologica responsabile di gravi malattie neurodegenerative. Le malattie da prioni, come l’encefalopatia bovina spongiforme (“morbo della mucca pazza”), sono patologie infettive neurodegenerative letali che colpiscono esseri umani e altri mammiferi e per cui oggi non esiste una cura. Queste malattie sono causate dall’accumulo di prioni, versioni mal ripiegate di una proteina naturalmente presente nel nostro cervello.

Una nuova ricerca guidata da Giuseppe Legname della SISSA e da Roberto Fattorusso dell’Università Vanvitelli, pubblicata recentemente su Chemical Science, approfondisce il meccanismo molecolare che induce le proteine prioniche ad assumere la forma patologica. Una scoperta che apre la strada a possibili opzioni terapeutiche.

I prioni sono forme alterate, cioè mal ripiegate, della proteina cellulare prionica (PrPC) che è presente principalmente nel nostro cervello. Si tratta di agenti infettivi in grado di indurre la versione originale della proteina prionica ad assumere la forma patologica. L’accumulo di prioni nelle regioni cerebrali è la causa delle malattie prioniche, patologie neurodegenerative rapidamente progressive che colpiscono sia l’uomo che altri animali. In particolare, la replicazione dei prioni nel cervello crea delle minuscole bolle che portano alla formazione di forellini microscopici che rendono il tessuto cerebrale simile a una spugna, da qui il nome encefalopatie spongiformi. Le malattie prioniche sono caratterizzate da un graduale declino delle capacità cognitive e delle funzioni motorie, fino alla morte. Nonostante i numerosi studi sperimentali e teorici, il meccanismo molecolare che regola il cambiamento della struttura del prione dalla forma fisiologica a quella patologica era finora poco conosciuto.

“Per approfondire le dinamiche che regolano questo meccanismo, abbiamo effettuato sofisticati esperimenti di Risonanza Magnetica Nucleare (NMR) multidimensionali, condotti da Luigi Russo presso il nostro Dipartimento di Scienze e Tecnologie Ambientali Biologiche e Farmaceutiche  - spiega Roberto Fattorusso, coordinatore dello studio pubblicato su Chemical Science, rivista di punta della Royal Society of Chemistry - Grazie ad approcci sperimentali multidisciplinari che spaziano dalla biologia strutturale alla biologia cellulare  è stato possibile mettere in luce nuovi importanti dettagli sulle basi molecolari delle malattie prioniche”.

Al lavoro ha partecipato anche Giulia Salzano, ex dottoranda SISSA e attualmente post-doc presso lo Human Technopole di Milano.
Si è dunque arrivati a evidenziare una struttura della proteina prionica umana che è un intermedio tra la forma cellulare fisiologica e quella patologica. “Grazie a questa scoperta – spiega Giuseppe Legname, anche lui coordinatore dello studio e Direttore del Laboratory of Prion Biology della SISSA – ora sarà possibile disegnare nuove molecole organiche, e quindi dei farmaci, in grado di bloccare la transizione della proteina prionica dalla forma fisiologica a quella patologica, impedendo così la replicazione dei prioni. Un passo avanti molto importante per combattere questa famiglia di malattie neurodegenerative per cui al momento non esiste ancora una cura”.

Individuare la cefalea a grappolo attraverso la voce dei pazienti. È questa l'intuizione alla base dello studio dall’Università Vanvitelli condotto da un team di esperti composto da neurologi e otorini.

La ricerca, condotta da Antonio Russo, Alessandro Tessitore e Marcello Silvestro, ricercatori del Centro Cefalee della Clinica Neurologica dell’Università Vanvitelli di Napoli diretta da Gioacchino Tedeschi e nato dalla collaborazione tra i neurologi della Vanvitelli e gli otorini ed i glottologi della Federico II di Napoli, è stata pubblicata recentemente sulla prestigiosa rivista "Headache”, organo ufficiale della American Headache Society.

È noto che pazienti affetti dalla cefalea a grappolo presentino oltre ad un dolore lancinante che colpisce un solo lato della testa, concentrandosi spesso nella zona attorno all'occhio (tra i dolori più forti che si possano sopportare) molti sintomi definiti “vegetativi” tra i quali la lacrimazione, l’arrossamento degli occhi, e la sensazione di naso chiuso o che cola. È la forma più severa di mal di testa e, fortunatamente, tra le più rare. Infatti, la cefalea a grappolo colpisce una persona su 1000. Si può manifestare a qualsiasi età, ma tende a comparire dopo i 20 anni e a colpire soprattutto gli individui di sesso maschile.
Nel corso di circa due secoli trascorsi dall’identificazione di tale tipo di cefalea, mai nessuno aveva posto l’attenzione ad un sintomo che sembrerebbe essere molto caratteristico della cefalea a grappolo: la voce rauca.

Associando alla valutazione clinica della cefalea un’analisi spettrale computerizzata per la valutazione di frequenze, timbro ed intensità della voce sono stati delineati i tratti caratteristici e significativi della voce in questa patologia.
"Siamo molto soddisfatti del risultato ottenuto - afferma il prof. Russo responsabile del Centro Cefalee dell’Università Vanvitelli di Napoli, poiché la cefalea a grappolo è una patologia estremamente dolorosa ed invalidante, che comporta una grave sofferenza dei pazienti: tuttavia essa è spesso sotto-diagnostica e l’identificazione di un parametro strumentale che analizzi la voce dei pazienti potrebbe aiutare anche i meno esperti a raggiungere la diagnosi e la terapia opportuna.

Il passo successivo è quello di perfezionare l’utilizzo della tecnica dell’analisi spettrale della voce per differenziare la cefalea a grappolo dalle cefalee più rare e difficili da diagnosticare cosa che – commenta il dott. Silvestro – avrebbe un sicuro impatto sul miglioramento della vita dei pazienti.

Lo studio sulla qualità della voce nei pazienti con cefalea a grappolo si inserisce in un filone di ricerca il cui valore è riconosciuto a livello internazionale con l’attribuzione, negli ultimi due anni, ai ricercatori del Centro Cefalee dell’Università Vanvitelli di Napoli del “Greppi Award” e del “Wolff Award” i due premi più prestigiosi nell’ambito della ricerca sulle cefalee.

Natalità e benessere riproduttivo, appuntamento a Napoli il 17 e il 18 settembre in piazza del Plebiscito per discutere insieme ad esperti delle difficoltà e domande di uno dei momenti più delicati della vita di coppia.

Lo scopo di questa iniziativa è quello di parlare di natalità con le sue speranze, i suoi desideri, le sue problematiche, per  essere vicini alle coppie ed  aiutare le future mamme e i futuri papà a realizzare il loro desiderio con la fiducia di un parto ed una nascita sicura.

"Creare un villaggio in città ci è sembrata la soluzione migliore è più concreta per dialogare direttamente con le coppie, offrendo loro sia visite specialistiche gratuite che uno spazio per dialogare delle difficoltà riproduttive - afferma Nicola Colacurci, ordinario di Ginecologia alla Vanvitelli e Presidente della SIGO .- Lo scopo è quello di fare in modo che la gravidanza diventi nuovamente un momento centrale nella vita della donna, in un momento in cui c'è ancora il massimo della realtà riproduttiva".

Nel corso delle giornate si potranno ricevere consulti da parte di esperti in ostetricia, ginecologia, endocrinologia, andrologia, oltre a consulti di tipo alimentare e psicologico, per chiarire i tanti dubbi che spesso si accompagnano all'essere genitori.  

Ma non solo. Sarà anche possibile effettuare visite e check-up gratuiti sia per le coppie che lo desiderano sia per bambini fino a 12 mesi.

L'evento, patrocinato, tra gli altri, dall'Università Vanvitelli e  dall'Aou Vanvitelli e dalla Federico II, è stato è organizzato dalla Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (SIGO) in collaborazione con la Società Italiana di Endocrinologia (SIE) e la Società Italiana di Neonatologia (SIN)

Tra gli ospiti dell'evento ci sarà anche Francesca Valla, meglio conosciuta come Tata Francesca di SOS Tata.

SIGO scende in piazza attività cliniche Locandina

IT   |  EN

Si chiama Pola’s classification dal nome del docente dell’Ateneo Vanvitelli che l’ha descritta e proposta per la prima volta nel 2017. Uno studio multicentrico appena pubblicato sullo European Spine Journal ne conferma definitivamente la validità e l’indicazione ad utilizzarla a livello internazionale

Si chiama Pola’s classification ed è la classificazione internazionale per tutte le infezioni della colonna vertebrale. L’autore è Enrico Pola, da cui il nome, docente del Dipartimento Multidisciplinare di Specialità Medico-Chirurgiche ed Odontoiatriche dell’Università Vanvitelli.

La validità della Pola’s classification come parametro di riferimento, già validata ed utilizzata da numerosi autori statunitensi ed europei, è stata confermata da uno studio multicentrico (oltre al Prof. Pola hanno contribuito autori argentini, cileni, brasiliani, europei) appena pubblicato dalla rivista European Spine Journal dal titolo: “An inter- and intra-rater agreement assessment of a novel classification of pyogenic spinal infections”.

La Pola’s classification stabilisce le tipologie e il grado della spondilodiscite piogenica, ovvero processi infettivi della colonna vertebrale, necessarie sia per gli studi scientifici che per i trattamenti chirurgici e clinici da adottare ed è stata presentata da Pola per la prima volta 4 anni fa in un importante studio dal titolo: “Nuova classificazione per il trattamento della spondilodiscite piogenica: studio di validazione su una popolazione di 250 pazienti con un follow-up di 2 anni”.

Le spondilodisciti o osteomieliti vertebrali sono processi infettivi della colonna vertebrale. Si tratta di condizioni patologiche molto gravi che si associano ad una mortalità intorno al 7-8% e a gravi complicanze neurologiche nel 15-20% dei casi.
Nonostante l'aumento dell'incidenza, la scelta di un trattamento ortopedico adeguato è spesso ritardata dalla mancanza di dati clinici. Lo scopo di questo studio era dunque proprio quello di proporre una classificazione clinico-radiologica della spondilodiscite piogenica per definire un algoritmo di trattamento standard.

“Lo studio multicentrico – ha spiegato Pola – ha confermato l’efficacia a livello internazionale della classificazione di queste infezioni che avevamo elaborato nel primo lavoro scientifico di qualche anno fa. Avere una scala di riferimento che consente agli specialisti di individuare la gravità della patologia, a cui corrisponde oggi un preciso tipo e numero, consente anche di poter effettuare studi sempre più utili e mirati, ma soprattutto di poter trattare i pazienti in maniera adeguata e tempestiva”.

L’uso della classificazione messa a punto da Pola, infatti, ha già consentito di cambiare il trend delle guarigioni.

“Seguendo le indicazioni per i trattamenti per le specifiche classi di infezioni alla colonna vertebrale – ha spiegato ancora il docente della Vanvitelli – si è già potuto registrare un aumento delle guarigioni superiore al 90 per cento. Questo significa anche una conseguente riduzione drastica del tasso di mortalità legato alla patologia nella sua forma più grave, conseguente ad un trattamento tempestivo e alla prevenzione di evoluzioni più gravi della malattia stessa”.

Nel primo studio effettato sulla base dei dati di 250 pazienti trattati dal 2008 al 2015, era stata sviluppata la classificazione clinico-radiologica della spondilodiscite piogenica. Secondo i criteri primari di classificazione (distruzione ossea o instabilità segmentale, ascessi epidurali e compromissione neurologica), sono state identificate tre classi principali. Le sottoclassi sono state definite in base a criteri secondari.

Conclusioni: Il trattamento standardizzato del PS è altamente raccomandato per garantire ai pazienti una buona qualità di vita. Lo schema proposto include tutti i trattamenti ortopedici disponibili e aiuta i chirurghi della colonna vertebrale a ridurre significativamente le complicazioni e i costi e a evitare l'overtreatment. 

Le spondilodisciti o osteomieliti possono colpire pazienti di tutte le età con una lieve prevalenza maschile. Fattori di rischio per lo sviluppo di spondilodiscite sono il diabete, tumori, stato di immunodepressione, patologie renali croniche, terapia corticosteroidea prolungata e l’abitudine al fumo.
La clinica è rappresentata da un dolore acuto la rachide e resistente a tutti i trattamenti associato a febbre nel 65% dei casi, dolore o deficit neurologici nel 40% dei casi, perdita di peso nel 30% dei casi.
La diagnosi viene fatta con la risonanza magnetica e la biopsia.
L’infezione può distruggere il disco ed i corpi vertebrali causando grave instabilità meccanica della colonna, causare ascessi nei muscoli ma anche nel canale vertebrale con compressione del midollo e danno neurologico fino alla plegia
Il trattamento si basa sulla terapia antibiotica, immobilizzazione con busto rigido o un intervento chirurgico.

Identificata una proteina responsabile dello sviluppo delle leucemie. Una proteina che potrebbe diventare quindi un bersaglio di terapie farmacologiche, rendendo questo tipo di tumore sempre più curabile.

In uno studio italiano condotto dai ricercatori del laboratorio di epigenetica presso il Dipartimento di Medicina di Precisione dell’Università Vanvitelli, coordinati dalla professoressa Lucia Altucci, in collaborazione con BIOGEM e un team di ricercatori olandesi, è stata identificata una nuova proteina coinvolta nell’insorgenza e nella progressione della Leucemia mieloide acuta (AML). La ricerca è stata pubblicata sulla prestigiosa rivista “Molecular cancer”.

La proteina si chiama CBX2 ed appartiene ad una classe di proteine epigenetiche cosiddette regolatori epitrascrizionali. CBX2 funziona come un interruttore molecolare che, quando presente, è capace di “intrappolare” specifiche regioni del DNA (fenomeno conosciuto come condensazione del DNA) che diventano inaccessibili ai comuni fattori trascrizionali, non permettendo la trascrizione di geni in esse contenuti.

Nello studio, i ricercatori hanno osservato che le cellule leucemiche mostrano livelli di CBX2 più alti rispetto alle cellule normali ed hanno associato l’elevata espressione di CBX2 con le caratteristiche distintive del cancro, valutando come questa iper-espressione fosse strettamente implicata nella sopravvivenza delle cellule leucemiche stesse.
In seguito, i ricercatori attraverso l’utilizzo di tecnologie genetiche all’avanguardia, hanno chiarito il meccanismo attraverso cui CBX2 favorisce lo sviluppo della leucemia.

“L’aumentata espressione di CBX2 nelle cellule tumorali- afferma Nunzio Del Gaudio, ricercatore dell’Università Vanvitelli e principale autore dello studio - intrappola diversi geni all’interno di regioni molto condensate della cromatina (DNA e proteine) impedendone la trascrizione. Sorprendentemente abbiamo osservato che molti di questi geni codificano per proteine aventi una forte attività antitumorale”.

I ricercatori hanno infine dimostrato come la riduzione dei livelli proteici di CBX2 nelle cellule tumorali fosse capace di inibire la proliferazione tumorale ed eccezionalmente innescare i meccanismi di morte cellulare programmata evasi dal tumore.

“Il nostro studio – afferma Lucia Altucci, docente dell’ateneo Vanvitelli - identifica CBX2, come un nuovo potenziale bersaglio terapeutico per lo sviluppo di nuove terapie tumorali, inoltre, in laboratorio sono già in corso disegni sperimentali volti a sviluppare nuove molecole capaci di inibire l’attività di CBX2”.
Lo studio è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista “Molecular cancer” annoverata tra le più importanti riviste mondiali in campo oncologico (fattore di impatto 41,44!!). Pertanto, i risultati dello studio pongono le basi per lo sviluppo di nuove terapie molecolari di precisone allo scopo di rendere il cancro sempre più curabile.

 

Nonostante i sostanziali progressi compiuti negli ultimi due decenni, le malattie cardiovascolari rappresentano ancora una delle principali cause di morte in Italia e nei paesi occidentali. Infatti, ogni anno, vi sono più di 4,3 milioni di morti per cause cardiovascolari in Europa. In Italia, i numeri sono in linea con le statistiche europee, con un impatto imponente sulla salute pubblica e sulle risorse sanitarie ed economiche. Trattandosi di malattie con elevati tassi di morbilità e di mortalità, generano, infatti, elevati costi indiretti, e notevoli costi diretti in termini di assistenza sanitaria.
La pandemia da COVID-19 ha comportato enormi cambiamenti nella vita quotidiana, nella pratica clinica e nei momenti di aggiornamento professionale. L’appuntamento annuale con il simposio CardioUpdate, arrivato alla sua IX edizione, si terrà anche in modalità digitale con una “Hybrid Edition”.
Il CardioUpdate 2021, organizzato con il patrocinio dell’AORN S. Anna e S. Sebastiano di Caserta e dell’Università degli Studi della Campania “L. Vanvitelli”, si terrà il 30 novembre e 1 dicembre attraverso 7 sessioni scientifiche in cui verranno discussi con modalità interattiva diversi Topics ed ospiterà esperti nazionali ed internazionali che si confronteranno sulle ultime novità nel campo della Cardiologia
Nel corso del congresso saranno affrontati temi inerenti le nuove terapie antitrombotiche, anticoagulanti e per il trattamento delle dislipidemie e del diabete mellito; inoltre si discuterà delle più innovative tecniche di cardiologia interventistica coronarica e strutturale e delle procedure di elettrofisiologia ed elettrostimolazione per il trattamento dello scompenso cardiaco, affrontando anche in modo critico le recenti linee guida europee.
Il responsabile scientifico, il prof. Paolo Calabrò, Professore Ordinario di Cardiologia presso l’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” e Direttore del Dipartimento Cardio Vascolare e della Cardiologia dell’AORN S. Anna e S. Sebastiano di Caserta, afferma: “L'attuale emergenza da COVID-19 ha cambiato le nostre vite, la vita sociale, la pratica clinica e la forma di aggiornamento della classe medica. Visti i recenti dati epidemiologici preoccupanti, ma non volendo rinunciare ad un’occasione di crescita professionale, abbiamo organizzato per quest’anno un appuntamento che consenta che consenta la partecipazione sia in presenza che in modalità digitale. Il CardioUpdate 2021 sarà quindi una “Hybrid Edition” con un panel di esperti collegati da tutta Italia e dall’estero. Il confronto e la discussione tra esperti è fondamentale per affrontare insieme tematiche complesse e questioni aperte, cercando soluzioni concrete e realizzabili nella attuale realtà con un’attenzione particolare ai pazienti fragili, quali quelli affetti da malattie rare, alla continuità assistenziale ospedale-territorio, ed alle associazioni di pazienti”.

  programma

 

Francesco Trepiccione, Professore Associato di Nefrologia presso la Università della Campania Luigi Vanvitelli, nel corso della cerimonia di apertura del congresso di Parigi, è stato insignito dello Stanley- Shaldon Award for Young Investigator da parte della Società Europea di Nefrologia (ERA).

Il premio è riservato al miglior giovane nefrologo europeo nel campo della Nefrologia Traslazionale. Un riconoscimento importante per Francesco Trepiccione che nella sua breve, ma intensa carriera scientifica, ha già pubblicato lavori sulle più importanti riviste nefrologiche aventi come tema i meccanismi molecolari coinvolti nella patogenesi di varie tubulopatie.

Vincitore di una long term fellowship della ERA, Francesco Trepiccione ha completato la sua preparazione clinico-scientifica con lunghi stages in USA, Danimarca e Francia. Ottimo nefrologo clinico, ha al suo attivo due grant Telethon. Con lui continua e si rinverdisce la lunga tradizione fisiopatologica della scuola nefrologica vanvitelliana.

 

IT   |  EN

Lo studio scientifico pubblicato sulla rivista Nature Communications

Più mangio e meno memoria e capacità di apprendimento ho. Questo il dato scientifico che emerge dalla ricerca condotta dal gruppo coordinato da Sabatino Maione, Ordinario di Farmacologia presso il Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sezione di Farmacologia della Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, in collaborazione con il gruppo di ricerca del CNR di Pozzuoli coordinato dai Ricercatori Vincenzo Di Marzo e Luigia Cristino e con il TIGEM che ha identificato una correlazione tra l’obesità e la capacità di memoria e apprendimento. La ricerca è stata pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Communications.

“Nello studio – spiega Maione - si mette in evidenza come l’obesità possa alterare degli importanti circuiti cerebrali in aree del cervello che per la vita intera dell’individuo continuano a generare neuroni, attraverso un meccanismo definito di neurogenesi, come il giro dentato dell’ippocampo”.

Lo studio è stato condotto su topi sottoposti ad una dieta ad alto contenuto di grassi. Dopo 8 settimane i topi hanno raggiunto un peso del 40% superiore rispetto a quelli sottoposti ad un regime alimentare “standard”. I topi obesi, rispetto a quelli normopeso, hanno raggiunto un punteggio più basso nei test di memoria. A livello microscopico, i neuroni nell’ippocampo dei topi obesi perdono la capacità di potenziare lo scambio di informazioni con i neuroni nelle altre aree quando stimolati con impulsi elettrici ad alta frequenza.

“Questo fenomeno – spiega Serena Boccella, tra gli autori principali dello studio - è chiamato plasticità a lungo termine e rappresenta il meccanismo fisiologico che nell’uomo controlla l’apprendimento e il consolidamento dei diversi tipi di memoria. L’impatto sulla memoria è tale che il soggetto obeso inizia a non memorizzare in maniera corretta la sua stessa assunzione di cibo (memoria episodica)”.

Questo spiega in parte il perché dell’adattamento del nostro cervello alle diverse abitudini alimentari e perché quando ingrassiamo continuiamo a mangiare sempre di più.

“Se da un lato abbiamo questo circolo vizioso che si instaura a livello dei circuiti che regolano la fame e la sazietà, c’è poi un impatto generale dell’obesità sulla capacità degli individui di condurre una vita normale in cui memoria e concentrazione svolgono una parte principale della vita quotidiana come l’attività lavorativa - sostiene Maione - Nello studio abbiamo inoltre identificato le molecole endogene coinvolte in questi complessi meccanismi che sottendono questi fenomeni di alterata neurogenesi”.

In particolare, “sono state identificate in questo studio due molecole il neuropeptide orexina e l’endocannabinoide 2-arachidonoilglicerolo, quali responsabili della alterazione della neurogenesi e del normale funzionamento del circuito che regola la memoria episodica” continua Serena Boccella.

Lo studio, molto complesso da un punto di vista tecnico sperimentale, spiega un fenomeno molto semplice ossia che il sovrappeso ostacola la memorizzazione dell’atto stesso di nutrirsi, offuscando la mente sulla quantità di cibo ingerita e alterandone probabilmente anche la percezione. 

Dunque l’obesità incide in maniera importante sull’apprendimento e sulla memoria episodica che è alla base dei ricordi degli avvenimenti della nostra vita. In effetti, l’identificazione dei meccanismi coinvolti in tale processo potrebbe aprire nuove prospettive nel comprendere meglio altre patologie che presentano danni selettivi al sistema di memoria episodica.

Si chiama “Regolo del Piatto Mediterraneo” ed è uno strumento ideato per la diffusione e l’implementazione del Piatto Mediterraneo presso la popolazione. Il “Piatto Mediterraneo” è stato teorizzato da Kathrine Esposito, docente della Scuola di Medicina dell'Ateneo Vanvitelli, sulla scorta delle evidenze della letteratura scientifica che hanno validato la dieta Mediterranea come un modello alimentare salutare. La sua rappresentazione prevede una forma familiare e immediata di un’alimentazione sana, che insiste sulla stagionalità dei prodotti, la loro freschezza, la biodiversità, e soprattutto sul largo consumo di vegetali.

"Con il "Regolo del piatto Mediterraneo” auspico di consentire un’ampia diffusione del concetto di tradizione alimentare Mediterranea a tutti gli strati della popolazione - spiega la professoressa Esposito - offrendo agli utenti l’opportunità di elaborare in modo semplice un piatto “individualizzato”, basato sul proprio gusto, sulla stagionalità dei prodotti e sulle necessità del momento. Uno degli elementi di originalità dell’invenzione è infatti la possibilità di utilizzo “trasversale” del regolo".

Esso non è diretto a specifiche categorie di individui o di persone affette da specifiche patologie, ma alla cittadinanza tutta, indipendentemente da professioni, mestieri o classe sociale di appartenenza e il suo uso non è circoscritto a specifiche fasi della vita, ma è valido dall’infanzia alla terza età e in entrambi i sessi ed inoltre è adattabile nelle dimensioni sia per il singolo che per le collettività, rendendosi fruibile a molteplici livelli, sia in ambiente domestico che in contesti sociali differenti.

Il regolo del piatto Mediterraneo non definisce il numero di calorie o di portate per giorno per ciascuna categoria alimentare rappresentata: semplicemente vuole suggerire in modo semplice e diretto le proporzioni relative a ciascuna categoria di cibi che devono essere inclusi in un pasto salutare. Non esiste al momento uno strumento in grado di suggerire la composizione di un piatto salutare: il regolo del piatto Mediterraneo rappresenta il prototipo di uno strumento ideato per accompagnare qualsiasi individuo nell’atto quotidiano del mangiare, aiutando a scegliere i cibi associati ad effetti benefici per la salute.

Nello specifico, il regolo del piatto Mediterraneo fornisce uno strumento innovativo e di semplice utilizzo per:

1. Essere informati sulle categorie di cibi salutari

2. Avere un’idea delle proporzioni con le quali i diversi gruppi di alimenti devono essere assunti

3. Individualizzare le scelte alimentari nell’ambito di un regime economicamente sostenibile e a basso impatto ambientale.

I possibili ambiti di riferimento ai quali destinare il regolo del piatto Mediterraneo sono:

1) l’industria alimentare e del fitness, per diffondere insieme ai prodotti uno strumento in grado di indirizzare la popolazione alla composizione di pasti salutari;

2) i servizi di ristorazione, le mense e le attività commerciali orientate alla vendita di prodotti alimentari, per avere un orientamento sulla composizione di piatti salutari da offrire alla cittadinanza intera;

3) gli istituti scolastici, per favorire l’educazione e l’implementazione su regimi alimentari salutari attraverso la cultura del piatto Mediterraneo;

4) gli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri per favorire la prevenzione delle malattie croniche attraverso il modello alimentare Mediterraneo;

5) in generale, la popolazione tutta, per la composizione di pasti che rispecchino la tradizione Mediterranea, per migliorare la qualità dell’alimentazione e preservare lo stato di salute.

Il regolo del piatto Mediterraneo ha ricevuto registrazione dalla SIAE nel giugno scorso (n. 2021 02735 del 25.06.2021.)

 

Una nuova terapia per restituire la vista a pazienti affetti da Amaurosi congenita di Leber tipo 10. I primi 2 pazienti italiani sono stati trattati presso la Clinica Oculistica dell'Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, diretta da Francesca Simonelli, con l'innovativa terapia a base di RNA “Sepofarsen”, sviluppata da ProQR Therapeutics.
I pazienti, trattati con Sepofarsen, partecipano a uno studio clinico di fase 2/3 denominato Illuminate.

Nella Clinica Oculistica della Vanvitelli, insomma, continuano le grandi imprese. Stavolta si tratta di una terapia genica somministrata per via intravitreale che potrebbe portare ad una vera e propria rivoluzione nel campo delle cure contro l’Amaurosi congenita di Leber tipo 10.
Ma di cosa si tratta? Sepofarsen agisce in maniera precisa identificando e correggendo una mutazione all’interno del gene CEP290 con conseguente ripristino della funzione delle cellule retiniche. Sepofarsen è in fase di valutazione in studi clinici per determinare l'efficacia del miglioramento visivo indotto nei pazienti trattati.
“E’ noto a tutti ormai che la Clinica Oculistica del nostro Ateneo rappresenta un’eccellenza non solo italiana, ma di livello internazionale – commenta il Rettore della Vanvitelli, Gianfranco Nicoletti – Ma soprattutto è un punto di riferimento per tanti pazienti che vengono da tutta Italia per affidarsi ai nostri scienziati. I loro studi stanno portando a una piccola grande rivoluzione in alcune malattie genetiche, passi fondamentali per vincere battaglie di importanza straordinaria”.

Nell'ambito dello studio Illuminate il Centro diretto dalla Simonelli ha trattato, per la prima volta in Italia, due pazienti con Sepofarsen.

“La vision dell’Azienda ospedaliera Vanvitelli è quella di offrire assistenza sanitaria di spessore, di alta qualità, capace di migliorare la vita dei cittadini. In questa ottica si inserisce a pieno titolo la Clinica Oculistica che, coniugando Ricerca e tecniche innovative, risponde alle singole aspettative dei pazienti”, dichiara il Direttore generale dell’Azienda Ospedaliera Universitaria, Antonio Giordano.

“In uno studio clinico di fase 1/2, condotto precedentemente – spiega Francesca Simonelli - è stato osservato che Sepofarsen è ben tollerato, garantendo la sicurezza del paziente, e nella maggior parte dei soggetti trattati è stato osservato anche un miglioramento della capacità visiva. Sulla base di questi risultati incoraggianti, è in corso uno studio clinico più ampio di fase 2/3 denominato Illuminate, per una valutazione definitiva dell'efficacia del farmaco”.

 

  

Informazioni sull'amaurosi congenita di Leber tipo 10 (LCA10)
L'amaurosi congenita di Leber (LCA) è la causa più comune di cecità infantile su base genetica.
Consiste in un gruppo di malattie di cui LCA10 è la forma più frequente e una delle più gravi. LCA10 è causata da mutazioni nel gene CEP290, di cui la mutazione p.Cys998X ha la più alta prevalenza. Attualmente si stima che circa 2.000 persone nel mondo occidentale siano affette da LCA10 associata a mutazione p.Cys998X. LCA10 porta alla perdita precoce della vista causando cecità nella maggior parte dei pazienti nei primi anni di vita e non esiste, ad oggi, alcun trattamento approvato per la cura della malattia.
Informazioni su ProQR
ProQR Therapeutics si dedica allo sviluppo di terapie a base di RNA per il trattamento di gravi malattie genetiche rare come l'amaurosi congenita di Leber, la sindrome di Usher e la Retinite pigmentosa.

La I Clinica Neurologica e Neurofisiopatologia della Vanvitelli come riferimento per la formazione dei neurologi di tutta Europa. Il riconoscimento di “Host Department” (unico in tutta Italia) arriva dall’European Accademy of Neurology (EAN) che ha individuato e confermato il possesso di elevati standard di competenza clinica e di ricerca scientifica tale da poter svolgere questo ruolo centrale nella formazione degli specialisti europei.

L’EAN è un'organizzazione scientifica che rappresenta più di 45mila membri, nonché 47 società nazionali europee. In quanto società medico-scientifica, essa promuove l'eccellenza nella pratica della neurologia in tutta Europa, portando a una migliore assistenza ai pazienti e mirando a all'avanguardia nella ricerca neurologica e a mantenere l'Europa nella sua posizione di centro scientifico mondiali nell’ambito neurologico.

“Neurologi in formazione provenienti da tutta Europa avranno la possibilità di apprendere la metodologia clinica e di ricerca scientifica riconosciuti come eccellenze dall’EAN– chiarisce Gioacchino Tedeschi, direttore della I Clinica Neurologica e Neurofisiopatologia – e dopo un’attenta valutazione delle domande da parte di una commissione internazionale, i vincitori avranno a disposizione una borsa di studio EAN per svolgere il loro stage di formazione per un periodo di tempo fino a 12 settimane”

“L’European Accademy of Neurology –spiega Alessandro Tessitore, professore ordinario della Clinica Neurologica – supporta i neurologi europei nella loro formazione per approfondire le esperienze e competenze professionali. Come Direttore della Scuola di Specializzazione in Neurologia credo che il confronto tra gli specialisti in formazione italiani ed i neurologi provenienti da diverse realtà europee possa rappresentare un arricchimento, per chi ospita e per coloro che saranno ospitati, non solo per quanto concerne i temi della neurologia ma culturale nel senso più autentico del termine”.

IT   |  EN

 

Dopo il riscontro di positività al COVID-19 la chirurgia dovrebbe essere ritardata di sette settimane, poiché, secondo un nuovo studio mondiale, gli interventi che si effettuano fino a sei settimane dopo la diagnosi sono associati a un aumento del rischio di mortalità.

I ricercatori hanno dimostrato che i pazienti hanno più di due volte e mezzo la probabilità di decesso dopo l’operazione se la procedura si svolge nelle sei settimane successive a una diagnosi positiva per SARS-CoV-2.

Guidati da esperti dell'Università di Birmingham, più di 25.000 chirurghi hanno collaborato nell'ambito del gruppo collaborativo COVIDSurg per raccogliere dati da 140.727 pazienti in 1.674 ospedali in 116 paesi, tra cui Australia, Brasile, Cina, India, Italia, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito e Stati Uniti, dando vita a uno degli studi più estesi al mondo in chirurgia. Per l’Italia hanno partecipato in qualità di membri del Dissemination Committee i dott.ri Salomone di Saverio (Università di Varese), Gaetano Gallo (Università di Catanzaro), Francesco Pata (Ospitale Nicola Giannettasio, Corigliano-Rossano, CS) e Gianluca Pellino (Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”). Ben 115 Ospedali hanno preso parte allo studio in Italia.

Pubblicando i loro risultati in Anesthesia, i ricercatori hanno rivelato che i pazienti operati da 0 a 6 settimane dopo la diagnosi di infezione da SARS-CoV-2 erano a maggior rischio di morte postoperatoria, così come i pazienti con sintomi in corso al momento dell'intervento.

Il co-autore principale, il dott. Dmitri Nepogodiev, dell'Università di Birmingham, ha commentato: "Raccomandiamo che, qualora possibile, l'intervento chirurgico venga ritardato di almeno sette settimane dopo un risultato positivo del test SARS-CoV-2 oppure fino a quando i sintomi si risolvono, se i pazienti hanno sintomi per 7 settimane o più dopo la diagnosi."

Il co-autore principale, Aneel Bhangu, dell'Università di Birmingham, ha aggiunto: "Le decisioni riguardanti la dilazione della chirurgia dovrebbero essere adattate a ciascun paziente, poiché i possibili vantaggi di un ritardo minimo di sette settimane dopo la diagnosi di SARS-CoV-2 devono essere bilanciati contro i potenziali rischi del ritardo. Per alcuni interventi chirurgici urgenti, ad esempio nel caso di tumori avanzati, chirurghi e pazienti possono stabilire che i rischi del ritardo non sono giustificati".

 Sebbene sia noto che l'infezione da SARS-CoV-2 durante l'intervento chirurgico aumenti la mortalità e che le linee guida internazionali raccomandino che l'intervento chirurgico debba essere ritardato per i pazienti risultati positivi per COVID-19, ci sono poche prove scientifiche riguardo alla durata ottimale del rinvio.
Gli ospedali partecipanti hanno incluso tutti i pazienti sottoposti a procedura chirurgica nell'ottobre 2020. Sono stati esclusi dallo studio i pazienti che sono si sono infettati con SARS-CoV-2 dopo l'intervento. La misura dell’outcome primario era il decesso postoperatorio a 30 giorni.

Per calcolare e correggere per paziente, malattia e variabili operatorie i tassi di mortalità a 30 giorni, per i diversi periodi di tempo dalla diagnosi di SARS-CoV-2 alla chirurgia, è stato utilizzato un modeling statistico dedicato.

Il tempo trascorso dalla diagnosi di SARS-CoV-2 fino all’intervento è stato di 0-2 settimane in 1.144 pazienti (0,8%), 3-4 settimane in 461 pazienti (0,3%), 5-6 settimane in 327 pazienti (0,2%), 7 settimane o più in 1.205 pazienti (0,9%), mentre 137.590 (97,8%) non avevano infezione da SARS-CoV-2. La mortalità corretta a 30 giorni nei pazienti che non avevano l'infezione da SARS-CoV-2 era dell'1,5%. Questo ultimo dato è risultato aumentato nei pazienti operati a 0-2 settimane (4,0%), 3-4 settimane (4,0%) ea 5-6 settimane (3,6%), ma non a 7-8 settimane (1,5%) dopo la diagnosi di SARS-CoV-2.

Questi risultati erano coerenti tra i gruppi di età, la diversa gravità delle condizioni del paziente, l'urgenza dell'intervento e la classe di intervento chirurgico, e nelle analisi di sensibilità per la chirurgia elettiva. Dopo un’attesa per l’intervento di sette settimane o più, i pazienti con sintomi COVID-19 in corso (6,0%) riscontravano una mortalità più elevata rispetto ai pazienti i cui sintomi si erano risolti (2,4%) o che erano stati asintomatici (1,3%).