In vacanza all’aria aperta, luoghi insoliti e un’alimentazione diversa, e aumentano i rischi di allergie. Un vademecum per chi è allergico e per chi vuole essere tranquillo con i figli in vacanza. Una guida per sapere cosa evitare, come prevenire e come intervenire in caso di reazioni allergiche, che siano da insetti, da alimenti o di stagione. Carlo Capristo, ricercatore all’Università Vanvitelli, e esperto di allergie nei bambini, spiega come difendersi.

Allergie da punture di insetti
Per allergia al veleno di insetti si intende una reazione esagerata alla loro puntura. È dovuta a una sensibilizzazione allergica verso alcune componenti del veleno iniettato dall'insetto. Quasi 2 persone su 100 vanno incontro a reazioni allergiche locali quando vengono punte. Fortunatamente, tra i bambini è molto più bassa che negli adulti. Purtroppo ogni anno muoiono in Italia, per reazioni allergiche al veleno degli imenotteri, da 5 a 20 persone (adulti e bambini), in genere a causa di edema della glottide e dello shock anafilattico.
1) Quali sono le punture più pericolose?
In Italia, gli insetti che provocano più frequentemente allergie sono gli imenotteri: le api, le vespe e i calabroni.
Diversi insetti con pungiglione, pungendo la pelle, iniettano sostanze nocive che provocano bruciore, rossore, dolore e prurito. Questa reazione è assolutamente normale se localizzata nella sede della puntura e se è limitata nell'estensione, nella gravità e nella durata. Si parla di allergia al veleno degli imenotteri quando la reazione locale è eccessiva: troppo estesa, grave e duratura.
2) Come accorgersi subito di una reazione allergica?
Le principali reazioni allergiche alla puntura degli imenotteri sono: reazioni in zone di pelle molto distanti dalla zona della puntura; orticaria (eruzione cutanea con prurito) angioedema (gonfiore sottocutaneo, spesso sul volto e sulle labbra); reazioni dell'apparato cardiocircolatorio (grave calo della pressione) edema della glottide (rigonfiamento della laringe all'altezza delle corde vocali, che può impedire anche del tutto il passaggio dell'aria).
L'ostruzione grave e potenzialmente fatale delle vie aeree si manifesta generalmente con: − raucedine; − difficoltà a parlare;− tosse insistente;− soffocamento;− gola serrata; − asma (restringimento improvviso, anomalo e persistente dei bronchi dovuto a spasmo della parete bronchiale e abbondante secrezione dì muco); − shock anafilattico (grave calo di pressione marcato e persistente).
3) Come intervenire?
− rimuovere immediatamente (entro 20 secondi) il pungiglione, se è visibile, con un movimento secco e rapido (usando le unghie o le pinzette). Trascorsi i primi 20 secondi l'operazione risulterà meno utile perché tutto il veleno sarà stato ormai liberato;
− applicare nella zona colpita qualcosa di freddo (ghiaccio, impacchi freddi);
− identificare, se possibile, l'insetto responsabile;
− rivolgersi al medico oppure al pronto soccorso;
− pianificare una visita specialistica dall'allergologo se la reazione è stata molto importante.
I bambini allergici ad altre sostanze (ai pollini, acari, gatto, latte, uovo...) non hanno un rischio maggiore dei bambini non allergici di sviluppare, se punti, un'allergia al veleno degli imenotteri.
In caso di una reazione locale a una singola puntura - ape, vespa o calabrone - oltre al ghiaccio e a eventuale analgesico, si può somministrare un antistaminico per bocca e l'applicazione locale di una pomata cortisonica. Il medico, se necessario, prescriverà una terapia antinfiammatoria a base di cortisone per bocca per 3-7 giorni.
In caso di reazione allergica grave – anafilattica - è essenziale somministrare il prima possibile e in maniera corretta una dose di adrenalina per via intramuscolare nella coscia (meglio della via sottocutanea perché agisce più rapidamente) da ripetere anche dopo 10 minuti circa, se necessario.
L'allergologo consiglierà il tipo di adrenalina a pronto impiego che va somministrata al bambino, specie in condizioni di maggiore rischio, e istruirà i genitori o il bambino su come utilizzarla correttamente. Esistono preparazioni di adrenalina "pronto-impiego" a forma di penna che, premute sulla cute in vicinanza della puntura, inoculano automaticamente l'adrenalina e sono particolarmente utili per interventi rapidi ed efficaci.
Vanno periodicamente rinnovate alla scadenza e portate sempre con sé. Successivamente sarà opportuno somministrare anche antistaminici e cortisone per via endovenosa o intramuscolare.
4) E’ possibile prevenire reazioni allergiche da insetti?
L'immunoterapia desensibilizzante consiste nella inoculazione sottocutanea di dosi crescenti del veleno cui il bambino è sensibilizzato, partendo da dosi estremamente basse. Ovviamente si tratta di una procedura non priva di rischi che va condotta in un centro allergologico altamente specializzato, in grado di condurre la vaccinazione in completa sicurezza. Il vaccino va proseguito per 3-5 anni e l'effetto si mantiene solitamente per molti anni dopo la sospensione della cura. In condizioni particolari può essere effettuato rapidamente in pochi giorni, ma questo metodo va esclusivamente utilizzato in ospedale, con il bambino ricoverato.

Nel bambino l'immunoterapia contro il veleno di un imenottero va iniziata in caso di reazioni anafilattiche gravi, ad alto rischio (figlio di agricoltori, apicoltori, bambini che abitano in campagna, etc). Nell'adolescente va iniziata anche in caso di reazioni allergiche di medio-alta intensità anche se non è a rischio la sopravvivenza del paziente.

 

Allergie alimentari
Per allergia alimentare si intende una risposta anomala del sistema immunitario, scatenata dal contatto con un cibo che comunemente viene assunto senza problemi dalla maggioranza degli individui.
1) Quali sono gli alimenti più allergizzanti?
Potenzialmente qualunque alimento è in grado di indurre allergia, infatti sono stati riportati più di 170 alimenti come causa di reazioni allergiche ma solo una minoranza di questi è responsabile della maggior parte delle reazioni.
Se il bambino nasce con una forte predisposizione familiare allergica, le proteine contenute negli alimenti più frequentemente assunti dalla mamma che allatta o dal bambino con le pappe (come per es. il latte di mucca, le uova, il pesce, il pomodoro, il grano, etc.) possono sensibilizzare il bambino e provocare reazioni allergiche. Le proteine del latte vaccino sono le prime da tenere sotto controllo in quanto le formule artificiali che sostituiscono il latte materno sono a base di latte di mucca. In seguito, numerosi altri alimenti possono causare allergia; i più frequenti sono:
- l'uovo;- il grano;- la soia;- con la crescita anche il pesce (merluzzo, trota, sogliola);
- alcuni tipi di frutta a guscio e legumi (noce brasiliana, mandorle, nocciole, arachidi).
L'80% dei bambini non sviluppa allergia a più di due alimenti contemporaneamente.
2) Come accorgersi subito di una reazione allergica?
Nella maggior parte dei casi le reazioni sono immediate e sono quelle più temibili in quanto compaiono da pochi minuti a due ore circa dal pasto che contiene le proteine allergizzanti.
Le manifestazioni di allergia alimentare possono essere a carico dell'apparato digerente:
- vomito, - dolori addominali, - scariche diarroiche,
che compaiono dopo l'assunzione di un alimento (come latte di mucca o uovo) e fanno sorgere il sospetto di allergia alimentare.
L'orticaria (e l'angioedema), a differenza di quanto comunemente si pensa, è causata da allergia ai cibi in meno del 5% dei casi. Talvolta, ma si tratta di eventualità ben poco frequenti, la rinite e l'asma bronchiale possono essere causate da allergia alimentare.
Il sintomo più temibile è lo shock anafilattico, reazione generalizzata causata dal contatto con l'alimento a cui il bambino è allergico. Fortunatamente il pallore e la riduzione della pressione sono preceduti da manifestazioni cutanee come orticaria/angioedema, rinite, asma bronchiale, spasmo laringeo. Se non si interviene prontamente con un adeguato trattamento salvavita, il collasso cardio-circolatorio può aggravarsi e talvolta condurre al decesso.
3) Come intervenire?
Quando la diagnosi è certa, la terapia dell'allergia alimentare consiste semplicemente nell'esclusione, dalla dieta, dell'alimento che causa l'allergia. Se la dieta terapeutica deve essere protratta per un lungo periodo è opportuno integrarla con i nutrimenti che vengono a mancare come calcio, ferro o altri a giudizio del medico curante

Allergie estive
A volte si tende a credere che le allergie ai pollini si manifestino soprattutto in primavera. In realtà, il processo di impollinazione delle piante, che porta alla diffusione nell’aria dei pollini allergenici, avviene anche in estate e continua fino all’autunno.
I sintomi principali delle reazioni allergiche al polline, sono di tipo respiratorio, come naso chiuso o che cola e starnuti frequenti, oppure gonfiore, lacrimazione o bruciore agli occhi, tosse, prurito alla gola e al palato. In alcuni casi, si possono anche avere grosse difficoltà a respirare e deglutire.
1) Cosa portare in viaggio nel caso di attacchi allergici?
Chi ha già manifestato reazioni avverse dopo l’assunzione di alimenti cui si è allergici o a seguito della puntura di un insetto, ha ovviamente ricevuto i consigli più opportuni per l’assunzione dei medicinali: conviene portare con sé i farmaci di cui si potrebbe aver bisogno (antistaminici, cortisonici, antiasmatici, adrenalina ecc.), prescritti dal medico curante, e che si è imparato ad assumere. Ogni indicazione terapeutica deve essere personalizzata tenendo conto dei possibili rischi. Anche perché la guardia medica turistica non conoscendo la storia clinica dell’assistito potrebbe avere alcune difficoltà nella prescrizione delle terapie più opportune.

 

Sulle prestigiose riviste Blood e Nature Medicine i risultati di due studi dell’Università Vanvitelli sulla talassemia: da farmaci innovativi e terapia genica le speranze per il futuro

Trasfusioni ridotte fino al 50% grazie a un farmaco innovativo che intrappola le sostanze responsabili della morte prematura dei globuli rossi nel midollo osseo: basta un’iniezione sottocute ogni 3 settimane per diminuire di oltre il 20% la necessità di trasfusioni in 8 pazienti su 10 e per dimezzarle nel 10% dei casi. L’Università Vanvitelli protagonista anche per la terapia genica, utilizzata per la prima volta su bambini: 3 piccoli trattati su 4, tutti con talassemia grave, sono ora indipendenti dalle trasfusioni. Buoni risultati anche negli adulti e negli adolescenti sottoposti alla terapia genica, tutti hanno potuto ridurre il numero di trasfusioni.

Liberi dalle trasfusioni grazie a innovativi farmaci-trappola per salvare i globuli rossi da sostanze dannose o alla terapia genica, che trasferisce il gene sano per risolvere la malattia: arrivano dall’Università Vanvitelli due buone notizie per i 7000 italiani malati di talassemia, soprattutto per i 4000 che sono dipendenti dalle trasfusioni di sangue. Per tutti loro una speranza arriva dalle due ricerche pubblicate di recente dal Centro di cura delle Talassemie ed Emoglobinopatie dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Vanvitelli, con altri centri italiani ed esteri, sulle due prestigiose riviste internazionali Blood e Nature Medicine.

“La talassemia o anemia mediterranea – spiega Silverio Perrotta, direttore del Centro - è causata da un’alterazione genetica che porta a una sintesi difettosa di emoglobina; nella forma più grave i pazienti sopravvivono solo grazie ad un regime trasfusionale cronico. In media un bambino con talassemia riceve una trasfusione di sangue ogni mese ma, crescendo, l’intervallo tra una trasfusione e l’altra tende ad essere sempre più breve, con le inevitabili ripercussioni sia in termini di sovraccarico di ferro legato alle trasfusioni, sia in termini di qualità di vita”. Le talassemie sono patologie molto frequenti in Italia e in particolare in alcune aree come la Sardegna, il delta padano e la Campania: qui i pazienti con anemia mediterranea sono circa 300, di cui 50 gravi al punto da non poter fare a meno delle trasfusioni. I flussi migratori degli ultimi anni stanno cambiando l’assetto e la presenza delle diverse forme di emoglobinopatie nel nostro paese.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito le alterazioni congenite dell’emoglobina come un problema di salute globale verso le quali è necessario focalizzare rinnovate risorse per il miglioramento della gestione e la ricerca di una cura definitiva.

In questo senso vanno perciò le due ricerche dell’Università Vanvitelli: il primo studio, condotto dal 2013 assieme ad altri centri italiani e stranieri e pubblicato su Blood, è una sperimentazione clinica di fase 2 per lo sviluppo di una terapia in grado di ridurre la gravità della talassemia attraverso l’utilizzo del Luspatercept, una proteina ricombinante che funge da “trappola” per alcune delle sostanze che contribuiscono alla morte prematura dei globuli rossi nel midollo osseo. Presso il Centro dell’Ateneo è stato arruolato il più alto numero di pazienti, 13 su 64 totali. “La somministrazione del Luspatercept per via sottocutanea ogni 3 settimane ha aumentato i valori di emoglobina e ridotto la necessità di trasfusioni, con un miglioramento evidente della qualità di vita dei pazienti – osserva Perrotta – La terapia è necessaria in cronico a cadenza regolare per i pazienti dipendenti dalle trasfusioni, può essere saltata qualche iniezione invece nei casi più lievi, che non dipendono dalle trasfusioni. I dati mostrano che nell’81% dei pazienti il numero di trasfusioni si è ridotto di oltre il 20%; in due sperimentazioni cliniche di fase 3 tuttora in corso a cui partecipa il nostro Centro, che a oggi hanno arruolato complessivamente quasi 500 pazienti, i dati preliminari sono ancora più promettenti e mostrano come il 70% dei pazienti dipendenti da trasfusioni ha ridotto di un terzo la necessità di sangue da donatori, il 10% ha addirittura dimezzato le trasfusioni”.

La seconda ricerca a cui ha partecipato il Centro della Vanvitelli, finanziata da Telethon, mira a rendere i pazienti talassemici del tutto indipendenti dalle trasfusioni grazie alla terapia genica; i risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Nature Medicine. “Il trattamento prevede il trasferimento del gene sano all’interno delle cellule del paziente, in modo da compensare il difetto genetico e tentare la guarigione completa – prosegue Perrotta -. Si tratta in sostanza di una sorta di auto-trapianto, in cui le cellule del paziente vengono prelevate, modificate in laboratorio e reinfuse nel paziente stesso una volta corrette”. La ricerca si è svolta presso l’Istituto San Raffaele di Milano, coordinata dai docenti Aiuti e Ferrari del gruppo TIGET (Istituto San-Raffaele-Telethon di Terapia Genica), e ha coinvolto 9 soggetti di diversa età - 3 adulti sopra i trent’anni, 3 adolescenti e 3 bambini sotto i sei anni di età - tutti con forme di beta talassemia gravi al punto da renderli trasfusione-dipendenti. “La terapia genica – spiega Perrotta - si è dimostrata sicura ed efficace. Gli adulti trattati, a quasi 3 anni distanza, hanno riportato una riduzione significativa del numero di trasfusioni necessarie alla gestione della malattia ma in 3 dei soggetti più giovani si è raggiunta la totale indipendenza dalle trasfusioni di sangue. Solo uno dei bambini trattati non ha riportato effetti positivi sul decorso della malattia e i ricercatori stanno ora cercando di capirne il motivo. E’ la prima volta che la terapia genica è stata utilizzata in pazienti pediatrici talassemici e i risultati di questo studio sembrerebbero dimostrare una maggiore efficacia nei bambini rispetto agli adulti, forse perché i bambini sono più protetti dal potenziale danno d’organo che si sviluppa col passare degli anni di malattia”, conclude Perrotta.

 

L’ aumento delle temperature, l’esposizione al sole e ad altri inevitabili fattori ambientali possono rappresentare dei veri i propri elementi “stressanti” per la nostra cute soprattutto se non trattata nella maniera più adeguata. Cosa fare dunque? Esistono delle regole da seguire per permettere anche alla nostra pelle di trascorrere un’estate rilassante?
Ne abbiamo parlato con Elisabetta Fulgione specialista in Dermatologia e Venereologia presso l’U.O Clinica Dermatologica dell’Università degli Studi “Luigi Vanvitelli” e Consigliere Nazionale SIME (Società Italiana di Medicina Estetica).
“Le alte temperature rappresentano la prima fonte di stress che la nostra pelle deve affrontare nel periodo estivo: il caldo determina un cambiamento nella naturale traspirazione cutanea con un aumento della sudorazione ed in generale una maggiore perdita di acqua dovuta ad una diversa gestione dei meccanismi di termoregolazione. In estate, inoltre, la pelle produce più radicali liberi, perché più fotoesposta rispetto all’inverno ed è, inoltre, sottoposta anche ad un maggior contatto con fattori irritanti ambientali”.
Per questo motivo, nel periodo estivo, bisognerebbe ricordare alcune piccole regole per mantenere in buono stato la nostra pelle e ritrovarci a settembre con una cute pronta ad affrontare una nuova stagione invernale. La prima di queste regole riguarda utilizzo quotidiano della protezione solare.
“In estate - spiega la dott.ssa Fulgione - non dovrebbe mai mancare nella skincare una protezione solare da utilizzare quotidianamente e riapplicare ogni 2-3 ore nel caso di lunghe esposizioni al sole. Solo in questo modo possiamo cercare di ridurre i danni che i raggi UV possono provocare alla nostra pelle accellerando il photoging (invecchiamento) cutaneo ed aumentando la possibilità di comparsa dei tumori”.
La seconda regola riguarda la corretta detersione
Adrebbero evitate docce e bagni prolungati che possano alterare la fisiologica idratazione della pelle - spiega la dermatologa - attraverso lo squilibrio di due meccanismi quello di traspirazione e la normale perdita di acqua cutanea. Queste alterazioni si traducono nell’immediato con un indebolimento del film idrolipidico e successivamente, a cause delle lunghe giornate d’esposizione al sole, con la comparsa di secchezza o xerosi cutanea. Docce brevi, dunque, inferiori a 5 minuti prediligendo una temperatura non superiore a 38 gradi "Soprattutto in caso di lavaggi frequenti - continua la specialista - e utilizzando  detergenti in grado di rimuovere adeguatamente lo sporco esogeno (cioè quello derivato dall’ambiente che ci circonda) e endogeno (cioè detriti cellulari e secrezioni ghiandole sebacee) senza alterare la barriera cutanea. E’ consigliabile scegliere sostanze lipofile che rimuovano lo sporco ( matrice grassa) per affinità: come oli, creme o latte in grado detergere delicatamente senza delipidizzare troppo la cute.”
Se la detersione corretta rappresenta un momento fondamentale per mantenere in buono stato la nostra pelle l’applicazione di un crema idratante è la terza regola fondamentale della corretta beauty routine quotidiana. “Tra i dermocosmetici i più utili per ripristinare le caratteristiche di normalità della cute del corpo stressata dal sole - ricorda la dott.ssa Fulgione - sono quelli contenenti molecole capaci di attirare acqua come, ad esempio, acido ialuronico, urea, allantoina, acido lattico e con azione elasticizzante e nutriente quali la vitamina E e gli oli vegetali. Le formulazioni più adatte al corpo sono le creme e le mousse idratanti mentre per il viso vanno preferite le texture gelificate o fluide più leggere e facilmente applicabili che riescono a dare un’idratazione e una compensazione alla pelle senza appesantire. Gli attivi quali vitamine C ed E, acido ferulico e acido jaluronico sono i più adatti al periodo estivo per la loro azione antiossidante”.
L’ultima regola riguarda la salute dei capelli. “Così come la cute anche i capelli vanno protetti dalle insidie degli agenti atmosferici: il cuoio capelluto, infatti, non dovrebbe esser sottoposto senza protezione al sole soprattutto per evitare la caduta dei capelli stagionale che si verifica classicamente nel periodo autunnale (dopo 2-3 mesi dal danno estivo). Per proteggerlo dal sole e dalla salsedine i migliori alleati sono cappello e protezioni solari studiate per i capelli e realizzate in formulazione di gel, spray o oli che creando sul capello un film protettivo bloccano i raggi UV e l’azione disidratazione della salsedine e del cloro. L’ acconciatura giusta, inoltre, può aiutare a difendere i capelli dal vento e dagli altri agenti atmosferici quali sabbia, salsedine e cloro che possono farli spezzare o rovinarli più facilmente. Via libera, dunque, a capelli morbidamente raccolti in trecce, coda o chignon evitando, tuttavia, eccessiva trazione che può spezzarli e indebolirli nella regione frontale”.

 

Cannabis sì, cannabis no. Nuovi studi sull’epilessia per i pazienti resistenti ai farmaci si interrogano sull’utilizzo del cannabidiolo nella cura della malattia.
Questi ed altri aspetti saranno affrontati in un convegno sull’epilessia per approfondire il tema. L'appuntamento è per venerdì 12 aprile alle ore 8.30 presso il Renaissance Naples Hotel Mediterraneo. Una giornata di formazione per discutere di una tra le patologie neurologiche più frequenti, che interessa 1 persona su 100, con 6 milioni di pazienti epilettici in fase attiva in Europa (cioè con crisi persistenti e/o tuttora in trattamento) e circa 500.000 pazienti in Italia.
Due le sindromi più difficili da curare, quella di Lennox-Gastaut e quella di Dravet, che hanno un rapporto di mortalità precoce più alto di altri tipi di epilessia e non rispondono a molte delle medicine disponibili. E proprio a proposito di queste forme epilettiche saranno discussi nuovi approcci terapeutici, prendendo spunto da tre grandi studi clinici presi in considerazione dall’agenzia internazionale del farmaco in cui i ricercatori hanno presentato prove valide sull’efficacia del cannabidiolo (CBD)

La domanda è se i nuovi medicinali disponibili contenenti la nuova sostanza possano in alcuni casi risolvere o ridurre il problema della farmacoresistenza, ovvero il fallimento della terapia, che interessa il 30%-40% dei pazienti con epilessia.
Ma anche altri saranno i temi trattati. In particolare, il rapporto territoriale che si viene a creare tra il neurologo del territorio e il centro per la diagnosi e cura dell’epilessia nella gestione a lungo termine di pazienti complessi, o per quali è richiesto uno studio più mirato ed approfondito.

“Cruciale diventa il ruolo del Neurologo generale che come spesso accade è il primo specialista coinvolto nella gestione anche a posteriori di un primo evento critico a verosimile genesi epilettica – spiega Alfonso Giordano, Neurologo all’Università vanvitelli –. Egli deve necessariamente avviare un corretto iter diagnostico differenziale tra l’epilessia ed altri “imitators” clinici e deve inoltre essere capace di instaurare una corretta terapia antiepilettica tenendo conto delle recenti molecole disponibili dotate di maggiore maneggevolezza e tollerabilità rispetto ai farmaci antiepilettici di prima generazione”.
L’epilessia colpisce tutte le età della vita con picchi maggiori d’incidenza nei bambini e negli anziani e clinicamente si manifesta con la ripetizione di sintomi e segni molto variabili, le cosiddette crisi epilettiche.
Il corretto inquadramento clinico e la gestione della terapia farmacologica a lungo termine risultano fondamentali per migliorare la prognosi del paziente affetto da epilessia e per prevenire le complicanze legate al mancato controllo delle crisi.
“In questo focus group – continua l’esperto – la prima sessione verrà dedicata agli aspetti clinici nell’ambito della diagnosi differenziale con altri eventi critici non epilettici, e alle recenti acquisizioni in tema di diagnosi e terapia delle epilessie generalizzate e focali. Nella seconda sessione prenderemo in considerazione gli aspetti terapeutici con uno sguardo ai recenti avanzamenti in termini di molecole antiepilettiche ivi compresi i cannabinoidi disponibili nell’ottica di ridurre l’annoso problema della farmacoresistenza. Il corso terminerà infine con un’ultima sessione di casi clinici in cui guideremo l’anamnesi e il processo diagnostico e terapeutico.

Locandina

 

"Esattamente nove anni fa il mio braccio sinistro tremava, 9 anni fa la paura per il mio futuro si insinuava nella mia vita. Già mi vedevo sulla sedia a rotelle, lo sguardo inebetito e la bava alla bocca". A raccontare la sua storia è Marina Agrillo, paziente ammalata di Parkinson, seguita dall'equipe del Centro Parkinson della Vanvitelli insieme al Centro Parkinson del Cardarelli, che lunedì 29 luglio parteciperà alla Swim for Parkinson, la traversata a nuoto dello Stretto di Messina da Capo Peloro a Cannitello, sotto la supervisione dei medici dell'Ateneo.  Scopo dell'iniziativa è sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di questa malattia così diffusa ma ancora poco conosciuta e di lanciare un messaggio positivo a tutti coloro che vivono la malattia di Parkinson in modo invalidante. 

"La malattia di Parkinson è la seconda più comune malattia neurodegenerativa - spiega Alessandro Tessitore docente di Neurologia, coordinatore del Centro Parkinson alla Vanvitelli e membro del Comitato tecnico scientifico della Fondazione Limpe per il Parkinson ONLUS - ed è la forma più frequente di malattia del movimento". Combattere la malattia anche attraverso lo sport, dunque, nel rispetto dell'approccio terapeutico più corretto.  "Terapia farmacologica, supporto psicologico due dei pilastri alla base dell'approccio terapeutico, a cui si aggiunge un terzo pilastro altrettanto fondamentale: l'attività fisica, che riesce a contenere gli stessi sintomi motori della malattia, determinando un notevole miglioramento della qualità di vita."

Marina rappresenterà l'Associazione Parkinson Parthenope, organizzazione di volontariato napoletana di pazienti molto attiva in Campania. Dopo nove anni, grazie alla sua determinazione ed al supporto medico scientifico del team della Vanvitelli e Cardarelli, attraverserà a nuoto lo stretto di Messina insieme ad altri 7 ammalati di Parkinson. "In quei 3600 metri non nuoterò solo per raggiungere la Calabria, ma lo farò soprattutto per convincermi che, se in tutto quello che faccio, oltre alla mente metto anche il cuore, allora anche il mio corpo risponderà con energia. Nove anni fa pensavo che la mia vita fosse finita. Oggi invece posso dire che non mi sono mai sentita più viva di così e spero di farlo capire a tutti gli ammalati di Parkinson come me".
La manifestazione è organizzata e sostenuta dalla Fondazione LIMPE e da Aquilone ONLUS di Messina.

Nutri-RARE: il cibo come medicina, ovvero uno sguardo nel passato remoto per immaginare il futuro prossimo. Giovedì 28 febbraio si celebrerà nel mondo la 12° giornata internazionale dedicata alle malattie rare, organizzata da Eurordis Rare Diseases Europe, un’alleanza no profit che raggruppa più di 800 associazioni di pazienti affetti da malattie rare di 70 paesi. 

A partire dalle ore 10, nel Museo Interattivo Corporea di Città della Scienza si svolgerà l’incontro scientifico e divulgativo “Nutri-RARE: il cibo come medicina, ovvero uno sguardo nel passato remoto per immaginare il futuro prossimo”.
Le voci del mondo accademico, della scienza e della ricerca saranno quelle di Marina Melone e Simone Sampaolo del Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche Avanzate & Centro Interuniversitario di Ricerca in Neuroscienze, Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, e di Giuseppe Sorrentino del Dipartimento di Scienze Bio-Agroalimentari del Consiglio Nazionale delle Ricerche (ISAFOM CNR).
L’Associazione Italiana Adrenoleucodistrofia (AIALD), presieduta da Valentina Fasano, si associa ai ricercatori per affrontare un tema complesso, al centro della riflessione promossa quest’anno da Eurordis: la interazione tra assistenza sanitaria e assistenza sociale, per migliorare la qualità di vita dei pazienti affetti da malattie rare e dei loro familiari e caregivers. Si affiancano all’AIALD, l’Associazione Leucodistrofie Unite e Malattie Rare (AILU), presieduta da Erasmo Di Nucci e l’Associazione Neurofibromatosi (ANFA), nella figura del vicepresidente Michele Palomba.
Tra le azioni possibili e le opportunità terapeutiche nella gestione delle Malattie Rare, fondamentali si sono rivelate le dietoterapie.
“C’è stata un'esplosione di interesse dei consumatori – spiega Marina Melone - per il ruolo di specifici alimenti o componenti alimentari fisiologicamente attivi, nel migliorare lo stato di salute, i cosiddetti alimenti funzionali. Chiaramente, tutti gli alimenti sono funzionali, in quanto sono dotati di gusto, aroma o forniscono valore nutritivo. Nell'ultimo decennio, tuttavia, il termine funzionale così come si applica agli alimenti, ha adottato una connotazione diversa: quella di fornire un beneficio fisiologico aggiuntivo oltre a quello di soddisfare i bisogni nutrizionali di base, e/o di entrare in una dieta con alimenti su misura per i pazienti con malattie rare”.
Ospite dell’evento è il Museo Corporea di Città della Scienza, science centre partenopeo di rilievo internazionale, un luogo che ha come mission fondante la divulgazione della scienza, con uno sguardo particolarmente rivolto ai giovani e giovanissimi. Qui, attraverso laboratori didattici, sarà possibile comprendere perché il principio "Che il cibo sia la tua medicina e la medicina sia il tuo cibo", sposato da Ippocrate quasi 2.500 anni orsono, sta ora ricevendo così tanta attenzione da parte dei ricercatori e delle industrie farmaceutiche.
Infatti, “queste dietoterapie – continuano Marina Melone, Simone Sampaolo e Giuseppe Sorrentino – non sono qualcosa di pronto all'uso come i biscotti senza glutine o lo yogurt a basso contenuto di grassi, ma sono un complesso ‘cibo medico’, risultato di una ricerca avanzata multidisciplinare”.
Ad animare la mattinata di festa a Città della Scienza, si svilupperanno inoltre i laboratori “SHOW YOU RARE Mostra che ci sei a fianco di chi è raro”, con la partecipazione creativa del pittore Sergio Spataro. Così un pubblico “di passaggio”, sarà libero di incantarsi o sarà guidato a partecipare dagli studenti dell’Istituto Professionale di Stato per l'Enogastronomia e l'Ospitalità Alberghiera- G. Rossini di Napoli.
“L’intento – spiega Valentina Fasano, presidente AIALD – è di coinvolgere i giovani e meno giovani visitatori, perché sappiano, attraverso un processo di consapevolezza, riconoscere e ribaltare le resistenze psicologiche e culturali nei confronti di chi è in difficoltà, e sviluppare una reale cultura dell’integrazione così da dare un senso all' impegno collettivo.

Un interruttore per “spegnere il dolore”. Un recentissimo studio getta le basi per lo sviluppo di nuove terapie antidolorifiche - che non siano a base di narcotici - per combattere il dolore cronico di cui soffrono milioni di persone a causa di infortuni e malattie, tra cui lesioni del midollo spinale, diabete, sclerosi multipla e cancro.
I farmacologi, Livio Luongo e Serena Boccella afferenti al gruppo di Ricerca di Sabatino Maione, ordinario di Farmacologia della Università Vanvitelli, in collaborazione con i ricercatori della università di St. Louis (USA) coordinati dalla Prof.ssa Daniela Salvemini, hanno identificato un nuovo protagonista nella fisiopatologia del dolore neuropatico.

Nello studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica PNAS e condotto negli Stati Uniti e presso la Vanvitelli, gli autori hanno dimostrato, sugli animali in questa prima fase, che un particolare recettore cellulare, presente nel nostro organismo, potrebbe essere il colpevole della comparsa del dolore che limita drammaticamente la qualità della vita dei pazienti neuropatici.
"Il dolore neuropatico può essere grave e non sempre risponde al trattamento - dice la coordinatrice Daniela Salvemini dell'Università di Saint Louis - Antidolorifici oppioidi sono ampiamente utilizzati, ma possono causare importanti effetti collaterali e portare i rischi di dipendenza e abuso. C'è un urgente bisogno di opzioni migliori per i pazienti affetti da dolore cronico. "

Ecco perché questo studio mira a trovare altri sistemi per combattere il dolore neuropatico che siano alternativi all’uso dei narcotici.
In termini scientifici, i ricercatori hanno capito che in risposta a una lesione del nervo, il corpo genera una molecola chiamata sfingosina-1-fosfato (S1P) nel corno dorsale del midollo spinale.

“Questa molecola a sua volta – spiega Livio Luongo dell’Università Vanvitelli - può attivare il sottotipo recettoriale 1 (S1PR1) sulla superficie delle cellule di supporto specializzate del sistema nervoso chiamate astrociti. Questo innesca una cascata di eventi che portano a processi neuroinfiammatori e rendono i neuroni coinvolti con la trasmissione del dolore molto “attivi”. Questo sintomo associato al dolore neuropatico rende il paziente incapace di svolgere le comuni mansioni quotidiane. La riduzione di questo sintomo subdolo rende il paziente affetto da dolore neuropatico meno ansioso e meno depresso e più capace di affrontare la propria patologia”.

 Sebbene lo studio è stato eseguito su animali da laboratorio, molecole che agiscono inibendo la stimolazione della proteina recettoriale S1PR1, sono già disponibili in commercio e sono ad oggi impiegate nel trattamento della sclerosi multipla. Di conseguenza, tale scoperta risulta di fondamentale importanza per il possibile futuro impiego di queste sostanze nel dolore cronico di tipo neuropatico.
Questi risultati, dunque, gettano le basi per sviluppare una nuova classe di farmaci che offra benefici antidolorifici senza i rischi e gli effetti collaterali degli oppioidi.
“I risultati di questa ricerca, insomma – conclude Luongo - individuano in questo recettore un buon bersaglio, e dunque scenari possibili per lo sviluppo di nuove terapie, creando una nuova classe di antidolorifici non narcotici."

 

 

Ricercare e sperimentare nuovi approcci terapeutici contro la malattia di Alzheimer. I maggiori esperti in questo campo si confronteranno sulle “Nuove frontiere per i pazienti a rischio e nelle fasi precoci della malattia di Alzheimer” (AD), il prossimo 15 febbraio, dalle ore 9, presso l’hotel Royal Continental. L’incontro, di cui è responsabile scientifico Gioacchino Tedeschi, Direttore della I Clinica Neurologica dell’Università Vanvitelli, mira a  fornire ai neurologi della comunità gli strumenti culturali per una accurata identificazione degli individui potenzialmente a rischio di sviluppare l’AD, ma anche a  favorire la creazione di una rete tra territorio e centri di ricerca, e promuovere un programma di educazione sanitaria basato sulle nuove opportunità terapeutiche sperimentali. 

“Questo programma educativo – spiega Tedeschi -  vuole anche migliorare l’identificazione di pazienti eleggibili alla prescrizione dei prossimi farmaci per l’AD e quindi  favorire il reclutamento di pazienti per progetti di ricerca futuri”. Il meeting è composto da tre sessioni, caratterizzate da relazioni frontali seguite da una discussione con l’auditorium, costituito da neurologi, geriatri e psicologi. 

Il Centro Alzheimer della Clinica Neruologica della Vanvitelli è, inoltre, insieme a quello di Palermo, l’unico di tutto il sud Italia a far parte dello studio Interceptor, promosso dal Ministero della Salute e da AIFA (Agenzia Italiana del farmaco) e in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità e AIMA, con lo scopo di indagare quali esami sono più utili al medico nel diagnosticare l’effettiva presenza di malattia di Alzheimer nelle persone che presentano un iniziale disturbo cognitivo lieve, prima che la stessa si manifesti in modo conclamato. Fare una diagnosi precoce è utile da subito per modificare stili di vita, promuovere interventi preventivi e avviare percorsi terapeutici con tempestività. 

Lo studio coinvolgerà 500 pazienti con lievi deficit cognitivi, di età compresa tra 50 e 85 anni che saranno reclutati in 20 centri italiani, con il supporto di 5 centri specializzati nella diagnosi e nella cura della demenza di Alzheimer. Tutti i pazienti saranno valutati mediante i 6 biomarcatori: test neuropsicologici, dosaggio di proteine su liquor cefalorachidiano, marcatori genetici, tomografia ad emissione di positroni (PET), risonanza magnetica cerebrale (RMN) e elettroencefalogramma (EEG). 

I pazienti saranno monitorati per 3 anni, al termine dei quali sarà possibile conoscere quale biomarcatore o quale combinazione di biomarcatori sono in grado di predire con maggior precisione l’evoluzione della malattia dall’inizio dei primi sintomi.

 


Design for autonomy of Parkinson’s disease
. E’ questa la linea di ricerca in cui si inserisce SynCrono, il dispositivo in fase di progettazione per pazienti affetti da malattia di Parkinson con freezing della marcia (FOG). L'idea nasce nei laboratori dell'Officina Vanvitelli, moderno hub e officina di idee dalla proposta di Geremia Nappo, laureato alla Vanvitelli. 
SynCrono. Il dispositivo SynCrono collabora con le altre soluzioni fisioterapiche alla deambulazione, sollecitando attraverso stimoli e monitorando il movimento del paziente. Dal dispositivo primario si sviluppano una serie di ausili sia per altri sintomi correlati alla malattia, sia per altre patologie di natura neurologica. Benessere nell’era del post digitale, dunque.  La scelta degli stimoli da utilizzare è fonte di studio e di ricerca su quelle che sono le classiche metodiche utilizzate in riabilitazione, con l’aggiunta di ricerche scientifiche sull’argomento – spiega Geremia Nappo, vincitore della borsa di studio di Officina Vanvitelli -.  Quattro le competenze - design, neurologia, ingegneria, economia – per il design, redesign, co-design di prodotti e servizi per l’autonomia". 
Come funziona. Gli stimoli di SynCrono servono a cadenzare il passo e a dargli un ritmo, così che il paziente possa avvertirli e seguirli ripristinando una deambulazione regolare. Nell’ampia gamma di stimoli da scegliere sono stati selezionati uno stimolo tattile ed uno visivo. Lo stimolo tattile è una vibrazione, lo stimolo visivo sono degli è costituito da luminosi che il paziente deve seguire. “La scelta di questi due stimoli non è casuale, entrambi sono risultati quelli più versatili da utilizzare nelle diverse occasioni della routine quotidiana e in ambienti ambulatoriali - spiega l'ideatore del progetto - Basti pensare ai luoghi affollati, troppo rumorosi o magari con scarsa illuminazione in cui il paziente si potrebbe trovare. Sia lo stimolo tattile che quello visivo si integrano alla perfezione nell’ambiente che circonda il paziente, senza interferire con gli stimoli esterni. Chi utilizza l’ausilio non deve far altro che seguire il ritmo degli impulsi e porre la propria attenzione sul movimento.” 
Officina Vanvitelli incentiva le idee. Questo è uno dei dieci progetti di ricerca dei talenti creativi danno ufficialmente inizio alle attività di Officina Vanvitelli, che si apre il 3 giugno alle ore 11, presso il complesso monumentale del Belvedere di San Leucio. 
Si comincia con la presentazione dei progetti di ricerca dei 10 talenti creativi selezionati attraverso una call nei settori del Design, della Moda e della Comunicazione, che gli ha consentito di vincere altrettante borse di studio. I talenti disporranno di uno spazio di co-working attrezzato con computer, laboratori di simulazione e prototipazione, multiconference systems, otre che di banche dati, tutorship di esperti nazionali ed internazionali per configurare un modello di lavoro internazionale.
Durante il percorso di Officina Vanvitelli i borsisti avranno l’opportunità̀ di confrontarsi con il mondo del lavoro sviluppando competenze, capacità organizzative e collaborative, partecipando a progetti in staff che prevedono il contatto diretto con imprese ed enti.
L'inaugurazione delle attività di Officina Vanvitelli è solo il primo di una serie di incontri, mostre, seminari tematici, workshop, sfilate che partiranno da giugno e culmineranno a dicembre con eventi internazionali nei settori della moda e del design. Nello specifico il programma di Officina sarà articolato su Open Lectures, lezioni magistrali aperte al pubblico sui temi dell’innovazione delle aziende design e fashion oriented, Talents, la presentazione di laureati Unicampania d’eccellenza, Manufactures, incontri con aziende, Events, incontri con stilisti, designers e stilisti attraverso mostre e sfilate, e Workshop.

Cellule staminali per curare l’artrosi del ginocchio.
Tecnologie ortopediche d’avanguardia all’Università Vanvitelli, relative al trattamento rigenerativo della cartilagine articolare del ginocchio, un intervento molto ben tollerato dai pazienti e con rischi minimi.

Questa metodica, oggetto di uno studio pubblicato sulla celebre rivista International Orthopaedics,  viene regolarmente effettuata presso la nostra Unità Operativa da circa 2 anni con ottimi risultati – spiega il Prof. Alfredo Schiavone Panni –, intervento a basso rischio per il paziente ed una degenza post-operatoria di poche ore”. Fisioterapia, acido ialuronico, antiinfiammatori intra-articolari, fino ad arrivare all’intervento chirurgico in casi più gravi, questi gli interventi fino ad ora utilizzati per la cura di questa probelmatica, che posso essere sostituiti dall’intervento con le cellule staminali.

“Particolare rilievo nazionale ed internazionale negli ultimi anni è stato dato alle cellule staminali, in grado di determinare effetti anti-infiammatori e rigenerativi sulla cartilagine articolare, target principale del processo osteoartrosico – continua il docente. – Questa metodica viene regolarmente effettuata presso la nostra Unità Operativa da circa 2 anni, con ottimi risultati”.

Ad oggi sono 52 i pazienti affetti da artrosi di ginocchio resistente ad altri tipi di trattamento, sottoposti a questa tipologia di intervento, e che hanno mostrato un miglioramento della funzionalità dell’articolazione e del dolore rispetto ai valori registrati in fase pre-operatoria. “Attualmente è in corso un ulteriore studio, condotto insieme alla mia equipe, sulla validità dello stesso tipo di trattamento nell’artrosi precoce di anca, dove i primi risultati risultano incoraggianti”- conclude Panni Schiavone. 
A collaborare con il prof. Schiavone i dottori Braile Adriano, Toro Giuseppe, De Cicco Annalisa e Lepore Federica, che hanno condotto lo studio, di rilievo internazionale, su International Orthopaedics. 

Per effettuare una visita medica prenota presso il nostro ambulatorio di chirurgia rigenerativa della cartilagine con impegnativa medica per visita ortopedica al CUP, telefonicamente al numero 800177780 (chiamata gratuita da telefono fisso) dalle ore 8:30 alle ore 14:30 nei giorni feriali o al numero 0810176956 (chiamata da telefono mobile, al costo di una chiamata urbana, dalle ore 8:30 alle ore 14:30 nei giorni feriali) o in loco.

A seguito di una valutazione clinica e radiografica si deciderà se intervenire o meno con questa metodica.

I campioni olimpici Jury Chechi e Antonio Rossi testimonial speciali per una giornata di formazione dei caregiver dei malati di Parkinson.  Il Centro Parkinson e Disordini del Movimento, Prima Clinica Neurologica dell'Azienda universitaria ospedaliera Vanvitelli - in collaborazione con l'Associazione Parkinson Parthenope - organizza un progetto educativo al fianco di chi si prende cura delle persone con malattia di Parkinson. Il progetto si chiama "Un campione per caregiver" e vedrà un pomeriggio di formazione mercoledì 21 novembre, dalle 14.45 alle 18.30,  a Napoli, nell'Aula PM2 del Policlinico di Piazza Miraglia. 
"Anche per esperienza personale - ha detto il campione Jury Chechi - posso dire che il caregiver va formato e allenato, sia dal punto di vista psicologico e fisico, all’assistenza al malato".

In Italia sono circa 3 milioni i caregiver, soprattutto donne tra i 45-55 anni, che quotidianamente si prendono cura di un familiare non autosufficiente.
CAREGIVING è una parola di derivazione anglosassone difficile da tradurre e da definire nella lingua italiana: significa “prestare cure” a qualcosa o qualcuno che ne ha necessità. Il CAREGIVER è colui o colei che si prende cura del malato e molto spesso tale ruolo è svolto dal familiare più prossimo (marito, moglie, convivente, fratelli, figli) che si assume la responsabilità della cura e dell'assistenza del congiunto.
La funzione di caregiver è un compito a volte imprevisto e determinato dallo stato di necessità senza conoscere bene la patologia di base, la sua evoluzione e ciò che comporta la gestione della quotidianità.

Il corso di formazione “Un campione per caregiver” vedrà la partecipazione di neurologi, riabilitatori e psicologi che affronteranno le principali problematiche che nella quotidianità di un paziente affetto dalla malattia di Parkinson si devono affrontare, non sottovalutando l’enorme carico emotivo e psicologico che lo stesso caregiver deve affrontare. È quindi necessario che il caregiver si prenda cura di sé stesso, cercando un equilibro tra la propria vita sociale e l’impegno assistenziale.

invito