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Lo studio scientifico pubblicato sulla rivista Nature Communications

Più mangio e meno memoria e capacità di apprendimento ho. Questo il dato scientifico che emerge dalla ricerca condotta dal gruppo coordinato da Sabatino Maione, Ordinario di Farmacologia presso il Dipartimento di Medicina Sperimentale, Sezione di Farmacologia della Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, in collaborazione con il gruppo di ricerca del CNR di Pozzuoli coordinato dai Ricercatori Vincenzo Di Marzo e Luigia Cristino e con il TIGEM che ha identificato una correlazione tra l’obesità e la capacità di memoria e apprendimento. La ricerca è stata pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Communications.

“Nello studio – spiega Maione - si mette in evidenza come l’obesità possa alterare degli importanti circuiti cerebrali in aree del cervello che per la vita intera dell’individuo continuano a generare neuroni, attraverso un meccanismo definito di neurogenesi, come il giro dentato dell’ippocampo”.

Lo studio è stato condotto su topi sottoposti ad una dieta ad alto contenuto di grassi. Dopo 8 settimane i topi hanno raggiunto un peso del 40% superiore rispetto a quelli sottoposti ad un regime alimentare “standard”. I topi obesi, rispetto a quelli normopeso, hanno raggiunto un punteggio più basso nei test di memoria. A livello microscopico, i neuroni nell’ippocampo dei topi obesi perdono la capacità di potenziare lo scambio di informazioni con i neuroni nelle altre aree quando stimolati con impulsi elettrici ad alta frequenza.

“Questo fenomeno – spiega Serena Boccella, tra gli autori principali dello studio - è chiamato plasticità a lungo termine e rappresenta il meccanismo fisiologico che nell’uomo controlla l’apprendimento e il consolidamento dei diversi tipi di memoria. L’impatto sulla memoria è tale che il soggetto obeso inizia a non memorizzare in maniera corretta la sua stessa assunzione di cibo (memoria episodica)”.

Questo spiega in parte il perché dell’adattamento del nostro cervello alle diverse abitudini alimentari e perché quando ingrassiamo continuiamo a mangiare sempre di più.

“Se da un lato abbiamo questo circolo vizioso che si instaura a livello dei circuiti che regolano la fame e la sazietà, c’è poi un impatto generale dell’obesità sulla capacità degli individui di condurre una vita normale in cui memoria e concentrazione svolgono una parte principale della vita quotidiana come l’attività lavorativa - sostiene Maione - Nello studio abbiamo inoltre identificato le molecole endogene coinvolte in questi complessi meccanismi che sottendono questi fenomeni di alterata neurogenesi”.

In particolare, “sono state identificate in questo studio due molecole il neuropeptide orexina e l’endocannabinoide 2-arachidonoilglicerolo, quali responsabili della alterazione della neurogenesi e del normale funzionamento del circuito che regola la memoria episodica” continua Serena Boccella.

Lo studio, molto complesso da un punto di vista tecnico sperimentale, spiega un fenomeno molto semplice ossia che il sovrappeso ostacola la memorizzazione dell’atto stesso di nutrirsi, offuscando la mente sulla quantità di cibo ingerita e alterandone probabilmente anche la percezione. 

Dunque l’obesità incide in maniera importante sull’apprendimento e sulla memoria episodica che è alla base dei ricordi degli avvenimenti della nostra vita. In effetti, l’identificazione dei meccanismi coinvolti in tale processo potrebbe aprire nuove prospettive nel comprendere meglio altre patologie che presentano danni selettivi al sistema di memoria episodica.

A un anno dal primo intervento che ha restituito la vista a due piccoli pazienti ipovedenti dalla nascita, arriva la certificazione per il centro del Policlinico dell'Università Vanvitelli per la somministrazione di Luxturna® (voretigene neparvovec), terapia genica di Novartis.
Il via libera di AIFA alla rimborsabilità è una tappa fondamentale di un lungo percorso che ha visto protagonisti la Clinica Oculistica dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” e il TIGEM - Istituto Telethon di Genetica e Medicina di Pozzuoli.


Nei prossimi mesi altri pazienti, provenienti da tutta Italia, potranno quindi essere trattati con questa innovativa terapia genica, così come è avvenuto a dicembre del 2019 per due bambini pugliesi di 8 e 9 anni che, dopo circa 10 giorni dall'iniezione in retina del farmaco, ebbero miglioramenti della loro visione straordinari, al punto che subito recuperarono una piena autonomia nel muoversi, scendere le scale, camminare da soli, correre e giocare a pallone.


“I risultati evidenti di efficacia della terapia riscontrata a pochi giorni dal trattamento e di durabilità confermati dopo un anno, ci dimostrano che siamo all’inizio di una nuova pagina della medicina e di fronte a un vero e proprio cambio di paradigma di cui siamo orgogliosi di esserne tra i protagonisti – ha dichiarato Francesca Simonelli, Professore Ordinario Oftalmologia e Direttrice Clinica Oculistica dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli – Quello che mi auguro è che quanto raggiunto in campo clinico, genetico e tecnologico, sia solo il primo di una lunga e futura serie di successi.”
Voretigene neparvovec rappresenta oggi una speranza per quei pazienti e le loro famiglie che altrimenti non avrebbero altre opzioni terapeutiche a disposizione e andrebbero, invece, incontro ad una perdita quasi totale della vista sin dalla tenera età.


“La sinergia messa in campo tra Università, Tigem e Novartis ha reso possibile risultati che fino a poco tempo fa avremmo considerato irraggiungibili – afferma il Rettore dell'Ateneo Vanvitelli, Gianfranco Nicoletti – E oggi gli anni di studi e ricerche si trasformano in un'opportunità concreta per i pazienti affetti da questa malattia genetica di tutto il Paese: curarsi nel nostro Centro e riacquistare la vista, riappropiandosi della propria vita”.


Il Policlinico dell'Ateneo Vanvitelli di Napoli e la Campania sono quindi al centro di una vera e propria rivoluzione: l’applicazione di una terapia innovativa ed efficacie su una malattia rara.
“Lo sforzo congiunto del Centro di Coordinamento Malattie Rare della Regione Campania, della Direzione Generale Tutela della Salute, della UOD Ospedaliera e del Farmaco, insieme al Centro di Malattie Oculari della Università Vanvitelli – dice il professor Giuseppe Limongelli, direttore del Centro di Coordinamento Malattie Rare della Regione Campania - il porterà alla definizione dei primi percorsi diagnostici terapeutici assistenziali per le distrofie retiniche ereditarie. Questo faciliterà una presa in carico ed un accesso semplificato a trattamenti altamente innovativi per i numerosi pazienti campani e provenienti da altre regioni”.

Il processo di somministrazione della terapia genica è estremamente complesso e coinvolge un’equipe altamente specializzata e adeguatamente formata composta da clinici, medici, chirurghi, farmacisti ospedalieri, infermieri e tecnici che collaborano in sinergia durante l’intervento.

“Si parte dai bisogni del paziente e tutto ruota intorno a questo concetto. Questa è la forza della Clinica Oculistica dell’Azienda ospedaliera Vanvitelli che ha avuto la capacità di sperimentare tecniche innovative, all’avanguardia, studiate secondo le prove di efficacia scientifica e le esigenze dei pazienti. L’Azienda, che enfatizza la soddisfazione dei bisogni, ha immediatamente attivato le procedure e sostenuto la spesa per erogare tali tecniche, trasformando così la speranza in realtà” - spiega Antonio Giordano, Direttore generale dell’Azienda ospedaliera universitaria “Luigi Vanvitelli”.
Il disco verde di AIFA non celebra solo un successo in ambito terapeutico ma anche di un nuovo modello di sanità che vede una sempre maggiore sinergia tra istituzioni, pubblico e privato, un nuovo sistema, basato sulla co-creazione, virtuoso ed efficiente di cui la sanità campana, con le sue eccellenze, fa già parte.

 

 

 

La patologia: Le distrofie retiniche ereditarie sono malattie geneticamente determinate, che comportano una progressiva degenerazione dei fotorecettori della retina (coni e bastoncelli) con grave riduzione della capacità visiva nel corso degli anni. Le persone nate con mutazioni in entrambe le coppie del gene RPE65 possono andare incontro ad una perdita quasi totale della vista sin dalla tenera età, con la maggior parte dei pazienti che progredisce fino alla cecità totale. Si tratta quindi di una malattia progressiva, con gravissima invalidità anche nelle fasi molto precoci e pertanto di notevole rilevanza sociale sia perché si presenta con frequenza elevata pur essendo malattia rara, sia perché fortemente invalidante sul piano della formazione scolastica e dell’inserimento nel mondo del lavoro.
Luxturna® (Voretigene neparvovec) rappresenta la prima terapia genica approvata sia da FDA che EMA per una forma di distrofia retinica ereditaria, quella causata da mutazioni bialleliche del gene RPE65, che compromette gravemente la vista. Le distrofie ereditarie della retina rappresentano la principale causa di cecità nell’infanzia e nella età lavorativa. Le ricerche dimostrano che nei bambini la compromissione della vista e la cecità spesso causano isolamento sociale, stress emotivo, perdita di indipendenza e rischio di cadute e lesioni. Voretigene neparvovec rappresenta un punto di svolta promettente per i pazienti che potrebbero trarre beneficio dalla terapia genica, considerata l’assenza, fino ad oggi, di una qualsiasi opzione terapeutica. Luxturna è indicato per il trattamento di pazienti adulti e pediatrici con perdita della vista dovuta a distrofia retinica ereditaria causata da mutazioni bialleliche confermate in RPE65 e che abbiamo sufficienti cellule retiniche vitali.

 

Una nuova terapia per restituire la vista a pazienti affetti da Amaurosi congenita di Leber tipo 10. I primi 2 pazienti italiani sono stati trattati presso la Clinica Oculistica dell'Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, diretta da Francesca Simonelli, con l'innovativa terapia a base di RNA “Sepofarsen”, sviluppata da ProQR Therapeutics.
I pazienti, trattati con Sepofarsen, partecipano a uno studio clinico di fase 2/3 denominato Illuminate.

Nella Clinica Oculistica della Vanvitelli, insomma, continuano le grandi imprese. Stavolta si tratta di una terapia genica somministrata per via intravitreale che potrebbe portare ad una vera e propria rivoluzione nel campo delle cure contro l’Amaurosi congenita di Leber tipo 10.
Ma di cosa si tratta? Sepofarsen agisce in maniera precisa identificando e correggendo una mutazione all’interno del gene CEP290 con conseguente ripristino della funzione delle cellule retiniche. Sepofarsen è in fase di valutazione in studi clinici per determinare l'efficacia del miglioramento visivo indotto nei pazienti trattati.
“E’ noto a tutti ormai che la Clinica Oculistica del nostro Ateneo rappresenta un’eccellenza non solo italiana, ma di livello internazionale – commenta il Rettore della Vanvitelli, Gianfranco Nicoletti – Ma soprattutto è un punto di riferimento per tanti pazienti che vengono da tutta Italia per affidarsi ai nostri scienziati. I loro studi stanno portando a una piccola grande rivoluzione in alcune malattie genetiche, passi fondamentali per vincere battaglie di importanza straordinaria”.

Nell'ambito dello studio Illuminate il Centro diretto dalla Simonelli ha trattato, per la prima volta in Italia, due pazienti con Sepofarsen.

“La vision dell’Azienda ospedaliera Vanvitelli è quella di offrire assistenza sanitaria di spessore, di alta qualità, capace di migliorare la vita dei cittadini. In questa ottica si inserisce a pieno titolo la Clinica Oculistica che, coniugando Ricerca e tecniche innovative, risponde alle singole aspettative dei pazienti”, dichiara il Direttore generale dell’Azienda Ospedaliera Universitaria, Antonio Giordano.

“In uno studio clinico di fase 1/2, condotto precedentemente – spiega Francesca Simonelli - è stato osservato che Sepofarsen è ben tollerato, garantendo la sicurezza del paziente, e nella maggior parte dei soggetti trattati è stato osservato anche un miglioramento della capacità visiva. Sulla base di questi risultati incoraggianti, è in corso uno studio clinico più ampio di fase 2/3 denominato Illuminate, per una valutazione definitiva dell'efficacia del farmaco”.

 

  

Informazioni sull'amaurosi congenita di Leber tipo 10 (LCA10)
L'amaurosi congenita di Leber (LCA) è la causa più comune di cecità infantile su base genetica.
Consiste in un gruppo di malattie di cui LCA10 è la forma più frequente e una delle più gravi. LCA10 è causata da mutazioni nel gene CEP290, di cui la mutazione p.Cys998X ha la più alta prevalenza. Attualmente si stima che circa 2.000 persone nel mondo occidentale siano affette da LCA10 associata a mutazione p.Cys998X. LCA10 porta alla perdita precoce della vista causando cecità nella maggior parte dei pazienti nei primi anni di vita e non esiste, ad oggi, alcun trattamento approvato per la cura della malattia.
Informazioni su ProQR
ProQR Therapeutics si dedica allo sviluppo di terapie a base di RNA per il trattamento di gravi malattie genetiche rare come l'amaurosi congenita di Leber, la sindrome di Usher e la Retinite pigmentosa.

Si collegheranno virtualmente, ognuna dalla propria “cabina di regia”, su un portale messo a disposizione dalla Fondazione LIMPE per il Parkinson Onlus (organizzatrice e promotrice della GNP) i 90 centri Parkinson che da 12 anni si danno appuntamento l’ultimo sabato di Novembre, che in questo 2020 corrisponde al giorno 28, per offrire ai pazienti e alle loro famiglie informazioni preziose e puntuali su questa malattia così complessa ed eterogenea: IL PARKINSON. 

I centri Parkinson campani, con il coordinamento del Centro dell'Ateneo Vanvitelli, terrano il proprio incontro virtuale con i pazienti dalle ore 9 alle 11 dal titolo “Non siete soli… uniti contro il Parkinson” . Introdurranno Alessandro Tessitore, del Centro Parkinson della Vanvitelli e Giuseppe Vecchio dell'Associazione Parkinson Parthenope. I pazienti potranno intervenire durante il seminario e confrontarsi con gli specialisti campani.

Programma incontro campano

 

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Dopo il riscontro di positività al COVID-19 la chirurgia dovrebbe essere ritardata di sette settimane, poiché, secondo un nuovo studio mondiale, gli interventi che si effettuano fino a sei settimane dopo la diagnosi sono associati a un aumento del rischio di mortalità.

I ricercatori hanno dimostrato che i pazienti hanno più di due volte e mezzo la probabilità di decesso dopo l’operazione se la procedura si svolge nelle sei settimane successive a una diagnosi positiva per SARS-CoV-2.

Guidati da esperti dell'Università di Birmingham, più di 25.000 chirurghi hanno collaborato nell'ambito del gruppo collaborativo COVIDSurg per raccogliere dati da 140.727 pazienti in 1.674 ospedali in 116 paesi, tra cui Australia, Brasile, Cina, India, Italia, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito e Stati Uniti, dando vita a uno degli studi più estesi al mondo in chirurgia. Per l’Italia hanno partecipato in qualità di membri del Dissemination Committee i dott.ri Salomone di Saverio (Università di Varese), Gaetano Gallo (Università di Catanzaro), Francesco Pata (Ospitale Nicola Giannettasio, Corigliano-Rossano, CS) e Gianluca Pellino (Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”). Ben 115 Ospedali hanno preso parte allo studio in Italia.

Pubblicando i loro risultati in Anesthesia, i ricercatori hanno rivelato che i pazienti operati da 0 a 6 settimane dopo la diagnosi di infezione da SARS-CoV-2 erano a maggior rischio di morte postoperatoria, così come i pazienti con sintomi in corso al momento dell'intervento.

Il co-autore principale, il dott. Dmitri Nepogodiev, dell'Università di Birmingham, ha commentato: "Raccomandiamo che, qualora possibile, l'intervento chirurgico venga ritardato di almeno sette settimane dopo un risultato positivo del test SARS-CoV-2 oppure fino a quando i sintomi si risolvono, se i pazienti hanno sintomi per 7 settimane o più dopo la diagnosi."

Il co-autore principale, Aneel Bhangu, dell'Università di Birmingham, ha aggiunto: "Le decisioni riguardanti la dilazione della chirurgia dovrebbero essere adattate a ciascun paziente, poiché i possibili vantaggi di un ritardo minimo di sette settimane dopo la diagnosi di SARS-CoV-2 devono essere bilanciati contro i potenziali rischi del ritardo. Per alcuni interventi chirurgici urgenti, ad esempio nel caso di tumori avanzati, chirurghi e pazienti possono stabilire che i rischi del ritardo non sono giustificati".

 Sebbene sia noto che l'infezione da SARS-CoV-2 durante l'intervento chirurgico aumenti la mortalità e che le linee guida internazionali raccomandino che l'intervento chirurgico debba essere ritardato per i pazienti risultati positivi per COVID-19, ci sono poche prove scientifiche riguardo alla durata ottimale del rinvio.
Gli ospedali partecipanti hanno incluso tutti i pazienti sottoposti a procedura chirurgica nell'ottobre 2020. Sono stati esclusi dallo studio i pazienti che sono si sono infettati con SARS-CoV-2 dopo l'intervento. La misura dell’outcome primario era il decesso postoperatorio a 30 giorni.

Per calcolare e correggere per paziente, malattia e variabili operatorie i tassi di mortalità a 30 giorni, per i diversi periodi di tempo dalla diagnosi di SARS-CoV-2 alla chirurgia, è stato utilizzato un modeling statistico dedicato.

Il tempo trascorso dalla diagnosi di SARS-CoV-2 fino all’intervento è stato di 0-2 settimane in 1.144 pazienti (0,8%), 3-4 settimane in 461 pazienti (0,3%), 5-6 settimane in 327 pazienti (0,2%), 7 settimane o più in 1.205 pazienti (0,9%), mentre 137.590 (97,8%) non avevano infezione da SARS-CoV-2. La mortalità corretta a 30 giorni nei pazienti che non avevano l'infezione da SARS-CoV-2 era dell'1,5%. Questo ultimo dato è risultato aumentato nei pazienti operati a 0-2 settimane (4,0%), 3-4 settimane (4,0%) ea 5-6 settimane (3,6%), ma non a 7-8 settimane (1,5%) dopo la diagnosi di SARS-CoV-2.

Questi risultati erano coerenti tra i gruppi di età, la diversa gravità delle condizioni del paziente, l'urgenza dell'intervento e la classe di intervento chirurgico, e nelle analisi di sensibilità per la chirurgia elettiva. Dopo un’attesa per l’intervento di sette settimane o più, i pazienti con sintomi COVID-19 in corso (6,0%) riscontravano una mortalità più elevata rispetto ai pazienti i cui sintomi si erano risolti (2,4%) o che erano stati asintomatici (1,3%).

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Continua lo screening sierologico per l'infezione da SARS-CoV-2 per tutto il personale dell'Ateneo Vanvitelli. L'Ateneo, considerato il perdurare dell'emergenza sanitaria per la diffusione del COVID-19, ritiene opportuno continuare una sorveglianza epidemiologica che è inserita nell'ambito delle misure già adottate di prevenzione e contrasto all'epidemia.

Per potersi sottoporre su base volontaria allo screening, le unità di personale docente e ricercatore, gli specializzandi che svolgono attività in presenza e non svolgono attività assistenziale, gli studenti dei corsi di laurea, i dottorandi, borsisti e assegnisti di ricerca, potranno rivolgersi ai propri Dipartimenti. Il personale tecnico amministrativo potrà altresì fare richiesta al Responsabile dell'ufficio di afferenza. Le richieste dovranno pervenire entro il 25 novembre, indicando la sede di prelievo preferita (Sorveglianza Sanitaria, Complesso di Santa Patrizia in via Luciano Armanni 5 a Napoli o Complesso di via Vivaldi a Caserta).

Il Servizio di Sorveglianza Sanitaria dell’Ateneo in collaborazione con il Servizio di Igiene Ospedaliera della AOU organizzerà la ripetizione del test ogni 30 giorni.

Sono medici, docenti, ricercatrici, dottoresse. Tante donne, tante professioniste, che da un anno lavorano in trincea senza mai fermarsi. Nonostante il Covid, i figli a casa o i genitori anziani, nonostante la paura, la distanza dagli affetti.

Siamo nel Reparto di Ginecologia della Vanvitelli, presso il Dipartimento della Donna, del Bambino e di Chirurgia generale e specialistica, dove l'attività non si è mai fermata dagli inizi di marzo ad oggi.

In questo anno si sono sovrapposti per le donne diversi ruoli: madre, moglie, professionista, figlia. Ci si è trovati a rispondere nello stesso momento alle esigenze disparate dettate da questi stessi ruoli.

Maddalena Morlando, ricercatrice di Ginecologia e Ostetricia alla Vanvitelli

"All’epoca della prima ondata non era permesso che le donne in travaglio fossero accompagnate da una persona di fiducia. Ricordo la delusione negli occhi delle mamme e soprattutto dei papà che non hanno potuto assistere alla nascita dei loro bambini. Solo qualche settimana fa invece, durante l’esecuzione di un’ecografia in gravidanza, ho chiesto alla paziente come si sarebbe chiamato il bambino. Lei mi ha risposto che si sarebbe chiamato come il padre: morto di Covid-19 a 34 anni, solo 2 mesi prima. Non ho saputo trattenere le lacrime e la rabbia. E ancora, quanta rabbia nel momento in cui, incinta, ho scoperto di essere positiva al Covid-19, a una settimana dal Natale. In questo anno, la difficoltà più grande è stata quella di bilanciare il timore di mettere in pericolo i nostri cari, di essere fonte di contagio, con il desiderio di conservare per le nostre famiglie e una parvenza di normalità. La mia bambina di 2 anni ha imparato a parlare durante questi ultimi mesi, è cambiata moltissimo, e i nonni che abbiamo cercato di proteggere con la distanza, sentono di essersi persi tanto. Tutto quanto abbiamo perso in termini di calore e condivisione non ci verrà mai restituito. Ma il pensiero di chi ha perso i propri cari aiuta a giustificare tutte le rinunce fatte. Come professionista, pur essendo in gravidanza, non ho mai pensato di smettere di lavorare: il mio lavoro rappresenta una parte troppo importante di me. Anche questa scelta però è stata ed è tutt’ora fonte di grossi sensi di colpa. Ma noi donne siamo così: conviviamo con i nostri sensi di colpa come se fossero vecchi amici".

Domenica Cicala, anestesista alla Vanvitelli

"In quest'anno difficile un'immagine che mi è rimasta più impressa è stata quella di R.P., una nostra paziente giudicata inoperabile in altri centri, immunodepressa con numerose patologie e madre di due figli. I suoi occhi esprimevano tutto lo spavento, la paura di non farcela. R.P. invece ce l'ha fatta, è stata operata presso di noi, ed è rinata a nuova vita. Oggi riabbraccia la sua famiglia. Per quanto riguarda il Covid, la frase che meglio ha rappresentato e rappresenta questo periodo è l’amore contro la paura. Io non ho mai temuto il carico di lavoro e di responsabilità. Perché è negli occhi di mio figlio c’è quel conforto che mi serve per affrontare tutte le difficoltà di ogni giorno".

Giusy Capasso, ostetrica alla Vanvitelli
“Sicuramente uno dei momenti che mi sono rimasti impressi è il giorno in cui l'Italia è stata dichiarata in uno stato di emergenza, con il susseguirsi di tutti una serie di fenomeni/eventi che poi hanno dato origine alla cosiddetta Zona Rossa. Ci hanno privato improvvisamente di cose che mai avremmo pensato, che per me sono essenziali: famiglia, amici, il poter stare accanto ad un familiare o ad un’amica. Il non poterlo fare, beh, è stato per e qualcosa che ha stravolto la società. Ma come dico sempre per farci forza, è una situazione transitoria. E tutti speriamo che al più presto si possa tornare ad una serena e tranquilla normalità. Oggi è la festa della donna, e ad oggi il nostro ruolo si può definire come uno dei più complessi da svolgere. Ogni donna deve immedesimarsi in varie situazioni, familiari, professionali, di gestione organizzativa. Dal mio punto di vista il ruolo della donna risulta essere uno dei più belli, ma reca con sé uno dei disagi che ad oggi vedo ancora: il dover sminuire in qualche modo l’importanza di questa figura del suo ruolo all'interno della società”.

Anche in tempo di covid la ricerca in campo neurologico va avanti. Si terrà infatti il 5 novembre alle ore 8.30 il corso di aggiornamento online sul tema delle epilessie focali. Le Epilessie Focali comprendono crisi focali o multifocali, così come crisi che interessano un intero emisfero cerebrale. La classificazione delle epilessie si è notevolmente evoluta dalla sua prima stesura negli anni '60. Le numerose nuove versioni riflettono i progressi raggiunti nella comprensione dei diversi fenotipi e dei sottostanti meccanismi di malattia grazie ai contributi apportati dalla ricerca clinica, dagli avanzamenti in campo neuroradiologico e biochimico. Di concerto le nuove acquisizioni hanno portato allo sviluppo di terapie innovative, siano esse farmacologiche, dietetiche, chirurgiche o mediante l’utilizzo di “dispositivi” medicali.

Tre le sessioni in cui sarà suddiviso il webinar. "Nella prima sessione è quello di fornire un “update” circa i recenti avanzamenti in campo clinico, genetico ed immunitario delle epilessie focali - spiega Alfonso Giordano, neurologo alla Vanvitelli -. Nella seconda sessione si affronteranno tematiche comuni nella pratica clinica inerenti l’utilizzo e l’interpretazione delle metodiche eegrafiche e di neuroimaging nella diagnosi e nel follow up dei pazienti; il tutto sarà corroborato da una serie di casi clinici esemplificativi. Nell’ultima sessione infine saranno trattati temi più squisitamente terapeutici con particolare attenzione ai farmaci antiepilettici di terza generazione ivi compresi i cannabinoidi e alle metodiche di stimolazione vagale".

Come partecipare
L’iscrizione gratuita è garantita fino ad un numero massimo di 45 Medici appartenenti alle seguenti discipline: Neurologia, Neurofisiopatologia e Neuropsichiatria infantile. Oltre questo limite la partecipazione, se ammessa, non darà diritto al conseguimento dei crediti formativi previsti. Le iscrizioni saranno raccolte online ed accettate, in base all’ordine di arrivo, entro e non oltre il 29 Ottobre 2020. Link per l'iscrizione http://www.eventi8adv.it/eventi/le-epilessie-focali-update-e-nuovi-orizzonti-terapeutici/

Accreditamento
Il Convegno è stato accreditato in Age.na.s. con ID N° 45-291025 ed aperto alla partecipazione gratuita di n° 45 tra neurologi, neurofisiopatologi, neuropsichiatri infantili e n° 5 tecnici di neurofisiopatologia. La partecipazione al convegno permette il rilascio di 6 ECM. Per il conseguimento dei crediti ECM è necessario partecipare all’intera durata delle sessioni on line, al termine del webinar verrà effettuato il test di apprendimento obbligatorio. Alla conclusione dei lavori si riceveranno le istruzioni di accesso alla piattaforma per la compilazione dei quiz.

Oncologhe, docenti, ricercatrici, dottoresse, farmaciste, data manager e infermiere. Tante donne, tante professioniste, che da un anno lavorano in trincea senza mai fermarsi. Nonostante il Covid, i figli a casa o i genitori anziani, nonostante la paura, la distanza dagli affetti.
Siamo nell’Oncologia Medica dell’Ateneo Vanvitelli, dove l’attività, in piena pandemia, è aumentata, e già dalla prima settimana di Marzo 2020: un incremento delle attività cliniche, del Day Hospital (20 per cento in più), della ricerca clinica con l’arruolamento attivo dei pazienti in protocolli clinici nell’ambito del progetto di ricerca finanziato dalla regione Campania I-Cure, della parte didattica con la riorganizzazione dell’attività telematica e, infine, con l’organizzazione e gestione del piano vaccinale, con i vaccini eseguiti su 5000 persone (personale universitario, ospedaliero, amministrativo e studenti).

Il 70 per cento dell’Oncologia Medica è composto da donne.

Erika Martinelli, Professore Associato di Oncologia Medica, responsabile dei tumori del colon-rettoepatocarcinoma e tumori delle vie biliari:

“Un silenzio spettrale per le vie di Napoli e dalla finestra del mio ufficio potevo apprezzare il rumore continuo delle ambulanze a sirene spiegate che interrompevano il silenzio. Troppi, tanti i disagi provati da marzo dello scorso anno a oggi. Da madre il distacco dai miei figli, per ben due mesi non li ho potuti abbracciare e toccare; la paura di contagiarli, a causa del mio lavoro di medico, era troppo forte. Come moglie di medico ho condiviso le paure, le speranze, le esperienze e spesso le opinioni scientifiche su come affrontare questa pandemia. Da professionista ho cercato di proteggere i miei pazienti fin dal primo giorno, percependo la loro estrema fragilità legata alla malattia oncologica e al fatto che il virus avrebbe potuto danneggiarli in misura maggiore rispetto alla popolazione generale. Da figlia …..ho vissuto un altro irreversibile distacco”

Teresa Troiani, Professore Associato di Oncologia Medica, responsabile dei tumori del colon-retto, melanoma e tumori della cute:

“L’immagine che è rimasta scolpita nella mia mente e nel mio cuore sono gli occhi dei miei tre figli che con grande sgomento mi fissavano ogni giorno che andavo a lavoro. La mattina erano occhi terrorizzati pieni di lacrime ed impauriti ….
Le difficolta sono state tante, ma soprattutto è stato complicato gestire le diverse situazioni cercando di non farsi sopraffare dall’ansia, dall’angoscia e da quell’aria funesta che aleggiava ovunque. La nostra vita è cambiata in un attimo proprio come cambia la vita di un paziente che riceve la diagnosi di cancro mi sono detta. Mi sono dovuta fermare per un istante e farmi ritornare alla mente i sentimenti e le motivazioni che mi hanno spinto a ricoprire tutti questi ruoli. L’amore che nutro per i miei figli e mio marito, la passione e la cura che hanno accompagnato la mia scelta lavorativa, medico e docente universitario, mi hanno dato la forza per alzarmi ogni mattina ed affrontare con equilibrio questi momenti drammatici”.

Floriana Morgillo, Professore Associato di Oncologia Medica, responsabile dei tumori toracici:

“Marzo 2020. Portavo la spesa ai miei genitori: lasciavo le buste giù alle scale e da lontano intravedevo mio padre, rimpicciolito, chino, spaurito, con una mascherina messa male e gli occhiali appannati che mi salutava alzando la mano. Nessuna parola.
Ho sempre gestito abbastanza bene i ruoli della mia vita, ho sempre pensato a prendermi prima cura dei miei cari e dei miei pazienti e poi di me. Ma l'idea di poter essere io stessa la causa di un male in quanto esposta al virus più di loro, e quindi potenziale veicolo di un loro danno, mi ha destabilizzato enormemente. In questo senso il vaccino ha rappresentato davvero una rassicurazione”.

 Stefania Napolitano, Ricercatrice in Oncologia Medica:

“La paura di un futuro incerto, non programmabile, di una vita ferma mentre il tempo continua a scorrere invano. La nostalgia di spensieratezza, di incontri, di dialoghi, l’amarezza di programmi mai realizzati, di desideri non soddisfatti che possano compensare la responsabilità di figlia, di professionista le cui scelte influiscono sulla felicità degli altri”.

 Carminia Della Corte Ricercatrice in Oncologia Medica:

“Inizi di marzo, un anno fa, la comparsa delle mascherine sui nostri volti, simbolo di paura e protezione per i pazienti, per i colleghi, per i propri cari e impegno e responsabilità per un futuro covid-free e con sorrisi visibili.
La più grande difficoltà è stata "tenere la distanza": rinunciare ad una stretta di mano o un abbraccio. Da lì, una nuova esperienza di comunicare forza e speranza "con gli occhi" con pazienti, colleghi, studenti, parenti, amici.

 Giulia Martini, Ricercatrice in Oncologia Medica:

“Napoli all’improvviso si ferma, il suo silenzio è assordante. La lunga lontananza da mia madre che vive da sola. Le videochiamate e la paura nel suo sguardo e nelle sue parole, la sensazione di impotenza. Spero ancora di poterla abbracciare di nuovo senza paura. Come professionista, il fine ultimo di questi mesi di profondi cambiamenti organizzativi e strutturali è stato sempre poter garantire le cure ai nostri pazienti oncologici”.

 Morena Fasano, dirigente medico in Oncologia Medica, responsabile dei tumori del distretto cervico-facciale e dei tumori cerebrali:

“L’immagine che mi ha maggiormente colpito in quest’ultimo anno trascorso è legata al primo giorno in cui sono iniziate le vaccinazioni anti COVID in Italia; ricordo l’emozione, il sentimento di speranza provato per il progresso umano e scientifico che quel gesto significava, per il simbolo di riconquista delle nostre vite e del nostro futuro che rappresentava e per la sensazione di rinascita avvertita, proprio come il fiore, la primula, divenuto simbolo della campagna vaccinale anti COVID.
La difficoltà più grande che ha accompagnato quest’ultimo anno è stata il conflitto interiore tra cuore e mente, tra l’istinto materno di abbracciare, baciare e stringere a me i miei figli al ritorno dal lavoro e il timore che, quei semplici gesti di amore, potessero rappresentare un pericolo per i miei bambini. Tutto questo associato all’impossibilità di poter abbracciare i miei genitori e di doverli tenere sempre ad una giusta distanza da me.
Il mio più grande disagio è dettato dalla sensazione di impotenza verso il virus ma anche verso le persone che non hanno o non vogliono avere la piena consapevolezza della gravità della situazione e dalla presa di coscienza che il comportamento inadeguato e superficiale di pochi compromette i sacrifici di molti, specie dei bambini, categoria molta penalizzata da questa pandemia”.

 Maria Giovanna Ferrara, dirigente medico Ematologa:

“E’ la sensazione d’ impotenza che mi accompagna in questo ultimo anno quella che non potrò mai più dimenticare.
Nonostante la pandemia, grazie ad un’ottima organizzazione di reparto, la gestione clinica dei pazienti non ha subito cambiamenti, cercando di dare sempre il massimo, per quanto possibile. Ma i nostri pazienti sono fragili anche dal punto di vista emotivo, forse quello che più mi è mancato e mi manca è il “contatto “.
Questo periodo, che sembra non finire mai, mi ha fatto riscoprire il valore degli affetti e il piacere della quotidianità, che a volte diamo troppo per scontato”.

 Lucia Esposito, data manager Oncologia Medica:

“Il momento più significativo dell’anno è stato l’arrivo dei vaccini in Italia, poiché l’ho vissuto come un momento di svolta di questa pandemia. La speranza che finalmente questo incubo chiamato Covid-19 possa terminare.
Un anno in cui la cosa più difficile resta quella di definire le mie priorità, che mi erano sempre sembrate chiare. Il peso della situazione ha reso il passare del tempo pesante; lo svolgimento di ogni singolo ruolo, oggi, richiede il doppio della forza psichica e fisica rispetto al passato”.

Maria Mirto, data manager Oncologia Medica:

“E’ dura non dare e non ricevere più semplici gesti d’affetto come un abbraccio. Può sembrare superfluo, ma davvero ad oggi quando incontriamo una persona non siamo più spontanei nei gesti, ciò che prima era naturale, oggi sembra strano e illogico.
Pensare al fatto che siamo stati lontani dai nostri affetti, immaginare malati che si sono ritrovati soli in ospedale senza il sostegno dei propri familiari, dover accettare e rassegnarsi all’idea di non poter dare un ultimo saluto ad un proprio caro e non essere presente all’inizio di una nuova vita come la nascita di un figlio, è ciò che mi ha maggiormente ferito.
La difficoltà più grande oggi resta abituarsi all’idea di non essere più liberi, liberi di pensare, agire, esprimersi senza costrizioni. Vorrei dunque non essere più in bilico tra libertà e restrizioni e tornare alla normalità.
Mi piace concludere con una citazione che racchiude il periodo storico che stiamo vivendo:
“La libertà è come l’aria, ci si accorge di quanto vale, quando comincia a mancare”.
Piero Calamandrei

 Francesca Marrone, Dirigente Farmacista Oncologia Medica:

 “Moglie, madre, figlia, professionista. Ho sempre vissuto ognuno di questi ruoli come unico e di uguale valenza, irrinunciabile e meraviglioso al contempo. Di certo quest’ultimo anno è stato innegabilmente più duro per la pandemia, che ha reso tutto più complicato nella vita familiare sociale e lavorativa. Penso alle scuole improvvisamente chiuse, allo sport negato, alla mole di lavoro decuplicata. Ma quanta alternanza di sentimenti forti! La gara di sci di mia figlia, quella di canoa di mio figlio e poi i momenti sconfortanti legati ai malati oncologici seguiti con tanto amore alcuni dei quali ahimè non ce l’hanno fatta.
Ma certo è che ognuna di queste esperienze è valsa la pena di viverla nella sua pienezza e sono sicura costituiranno per me un bagaglio prezioso formativo e indelebile”.

Tina Tuccillo, Responsabile Laboratorio di Ricerca del Dipartimento e della gestione del laboratorio dei vaccini, Oncologia Medica:

 “I mezzi militari a Bergamo (marzo 2020) che trasportavano le bare in altri cimiteri italiani per cremare i morti: un’immagine simbolo della pandemia da Covid-19.
Una pandemia che ha cambiato in tanti modi le nostre vite. Una delle categorie più penalizzate dalla pandemia è stata proprio quella delle donne che hanno avuto maggiori problemi sul lavoro, si sono spesso fatte carico di compiti aggiuntivi durante il lockdown e la chiusura delle scuole sostituendosi in tanti casi agli insegnanti, o facendosi carico di parenti bisognosi di cura. La difficoltà più grande è stata quella di rinunciare ad una vita “normale” (anche se la normalità è relativa), a nessuno piace stare rinchiusi in casa, non avere una vita sociale e poter fare solamente le solite attività. Tuttavia noi donne abbiamo una migliore attitudine ad offrire le risposte giuste alla crisi, le più corrette in termini di comportamenti e di capacità di risoluzione delle difficoltà continuando ad offrire uno sguardo positivo e di speranza”.

Francesca Fiore, psiconcologa:

“Ricordo con chiarezza l'ultimo giorno di lavoro in presenza: tempi, luoghi, colori dell'atmosfera che ci circondavano associati allo sgomento dei volti di noi tutti in reparto.
Il dover giocare diversi ruoli è qualcosa che da sempre mi rappresenta in quanto donna e che si colloca anche alla base della scelta motivazionale del tipo di professione svolta. Più che la poliedricità, è l'aver dovuto svolgere "in parallelo" quello che era un modus operandi e vivendi "in serie" sullo sfondo di un contenitore temporale che, se da un lato poteva essere sentito come dilatato (basti pensare all'essere costretti a restare per molto tempo a casa), veniva vissuto come contratto a causa della pressione percepita e rappresentata dal "dover" rispondere alla richiesta di aiuto URGENTE della nostra utenza o dei nostri cari per lenire l'angoscia”.

Carmela Acquisto, caposala Oncologia Medica:

“Che malinconia il ricordo dei primi giorni di lock-down con le strade deserte per recarsi sul luogo di lavoro.
La difficoltò più grande che vivo è quella di figlia che riesce a malapena a far capire a due genitori anziani il tempo strano che stiamo vivendo, fatto di mascherine, temperature e file estenuanti. Come moglie e madre mancano le riunioni con gli amici di sempre, le passeggiate per le strade della città, la solita pizza o il solito teatro, spesso abitudinari ma che ora mi mancano come l’aria”.

 

L'emergenza coronavirus avrà come importante conseguenza un significativo aumento dei disturbi mentali, come afferma l'Organizzazione mondiale della sanità. E i danni, in Italia come in molti altri paesi, si vedono già adesso: basti pensare che nel nostro paese i sintomi depressivi risultano quintuplicati e oggi ne soffre ben una persona su 3. In occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale, sono stati diffusi i risultati di una ricerca, coordinata dall'Università della Campania Luigi Vanvitelli, che stima un aumento fino al 40% dei sintomi di stress e ansia dovuto al lockdown. Lo studio è in via di pubblicazione su European Psychiatry e già disponibile in preprint. 
 
Lo studio 
I ricercatori hanno voluto studiare meglio in che modo la pandemia e il lockdown abbiano avuto un impatto sulle nostre emozioni, determinando in molti casi malessere se non vere e proprie patologie. In un campione di 20mila italiani, lo studio ha valutato, durante e dopo il lockdown, i livelli di stress, ansia, presenza e intensità di sintomi depressivi, di manifestazioni cliniche legate a disturbi ossessivo-compulsivi, da stress post-traumatico e ad altre malattie psichiche. I partecipanti afferivano a quattro diverse categorie: operatori sanitari, persone con malattie psichiatriche precedenti, persone entrate in contatto con il coronavirus a vario titolo (positivi in isolamento o ricoverati oppure familiari di persone contagiate o decedute) e la popolazione generale. 
 
Si stava peggio alla fine del lockdown 
“Dall'indagine è emerso che al passare delle settimane di lockdown aumentavano anche i problemi e i sintomi psichici”, spiega Andrea Fiorillo, presidente della Società Italiana di Psichiatria Sociale, primo autore dello studio, “ad esempio la settimana peggiore per la salute mentale è risultata quella del 4 maggio, alla fine del lungo blocco delle attività, mentre nell'ultima settimana di marzo, circa a metà del lockdown, le problematiche non erano così accentuate”. 

 

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a cura di Marcellino Monda, direttore del Dipartimento di Medicina Sperimentale e docente di fisiologia

 

I periodi di quarantena stanno aggravato la prevalenza di obesità e di sedentarietà nella popolazione generale, specialmente nelle aree densamente popolate come quelle metropolitane. La Campania, già maglia nera per obesità specialmente infantile, è stata pienamente colpita da questo aspetto negativo del confinamento sociale, indubbiamente necessario per arginare la pandemia da Covid-19, ma che ha generato comportamenti per niente salutari.

Non bisogna comunque angustiarsi: il “Sentiero del Benessere” può essere sempre intrapreso con una sana alimentazione ed una adeguata attività motoria

Ecco alcune regole:

Ridurre drasticamente la quantità di cibo e lasciare il posto ai colori della Vita: rosso, giallo-arancio, verde, bianco, blu-viola. Questi sono i colori della frutta e della verdura, alimenti essenziali, poco calorici e ben presenti nella sana dieta italiana. Il colore indica la presenza di differenti sostanze salutari con forte potere antiossidante. Rosso: licopene; Giallo-arancio: carotene; Verde: clorofilla; Bianco: polifenoli, Blu-viola: antocianine. Una sana abitudine nutrizionale prevede 5 porzioni al giorno di verdura e frutta, ognuna di un diverso colore. Il peso di ogni porzione si aggira tra i 200 e 250 grammi. Talvolta, 2 porzioni di frutta e verdura possono costituire un pasto leggero per compensare l’eccesso calorico di pasti troppo abbondanti. La presenza di fibra ed acqua rendono la frutta e la verdura alimenti con alto potere saziante e con scarso apporto calorico, caratteristiche eccellenti per poter prevenire e combattere l’epidemia di obesità. La sana alimentazione italiana, come stile di vita non solo come comportamento alimentare, rappresenta un modello culturale di immenso valore da esportare nel mondo intero. 

Se la sana alimentazione rappresenta una delle Colonne del Benessere, non si può tralasciare l’altra: l’equilibrata attività motoria, a cominciare dai diecimila passi al giorno fino all’attività sportiva ben controllata, il cui effetto positivo sulla qualità della vita è ben dimostrato da una miriade di studi scientifici.

La Quaresima, quindi, potrebbe essere l’occasione per mettere in atto uno stile di vita salutare, da non abbandonare, ovviamente, dopo Pasqua.

E’ un docente dell’Ateneo Vanvitelli il coordinatore del Clinico del Centro Nemo di Napoli. E’ stata firmata oggi una convenzione tra l’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli e la Fondazione Serena Onlus, con cui Vincenzo Pota, ricercatore della Vanvitelli, è stato designato coordinatore del Centro Clinico Nemo di Napoli.

Il Centro NeMO è frutto dell’accordo di sperimentazione gestionale pubblico-privato tra Fondazione Serena (ente gestore dei Centri Clinici NeMO), Regione Campania e Azienda Ospedaliera Specialistica dei Colli firmato a febbraio 2019. Un’eccellenza multidisciplinare per le malattie neuromuscolari in Campania, il Centro Clinico NeMO Napoli ha sede presso l'Ospedale Monaldi ed è presieduto da Alberto Fontana. Si tratta di un centro di eccellenza ad alta specializzazione per le malattie neuromuscolari, patologie fortemente invalidanti come la Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), le distrofie muscolari e l’Atrofia Muscolare Spinale (SMA).

Il Centro si prende cura di pazienti adulti e pediatrici, per un totale di circa 2000 persone all'anno che convivono con questo tipo di patologie, provenienti dal territorio campano e dalle Regioni del sud Italia vicine, che potranno evitare così viaggi per accedere alle strutture sanitarie.

“La nomina di un nostro docente al coordinamento del Centro Nemo – commenta il Rettore della Vanvitelli, Giuseppe Paolisso - conferma la volontà dell’Ateneo di avere un ruolo centrale nella ricerca e nella cura delle malattie neuromuscolari. Il Centro è infatti un’eccellenza per la nostra regione e per tutto il Sud Italia ed è un importante punto di riferimento per migliaia di pazienti”.

Al Centro NeMO si effettueranno diversi regimi di intervento: ricoveri, servizi ambulatoriali ad alta specializzazione e Day Hospital. Il Centro è dotato di 23 posti letto di degenza ordinaria e 3 posti per Day Hospital, su una superficie di quasi 1500 metri quadri.

L’approccio di cura del NeMO Napoli è quello che caratterizza da sempre la rete dei Centri Clinici NeMO e che vede il paziente e la sua famiglia al centro di un percorso di presa in carico, dal momento del ricovero, fino al suo rientro a casa.