Dopo il referendum della Scozia è la volta della Catalogna. Il referendum sull’indipendenza tenutosi il 1° ottobre di quest’anno può considerarsi diretta conseguenza della consultazione del 9 novembre 2014 e del risultato delle elezioni tenutesi a settembre 2015 per il rinnovo del Parlamento catalano, quando l’area indipendentista (formata da Junts Pel Sì del presidente secessionista Artur Mas e i radicali separatisti di Cup), pur non riuscendo a conquistare la maggioranza assoluta dei voti, ebbe un’indubbia affermazione raggiungendo il 47,9%. Questi due eventi hanno dato la spinta più recente all’azione indipendentista, culminata con la legge sul referendum del settembre scorso la cui sospensione da parte del Tribunal Constitucional e il tentativo di repressione attuato dal governo spagnolo di Mariano Rajoy non sono bastati ad impedirne lo svolgimento.
Eppure la vicenda rivela evidenti contorni di incostituzionalità al punto da porre problemi di ordine pubblico. Infatti, la Costituzione spagnola del 1978 non contempla la possibilità che le Comunità autonome possano indire referendum e tanto meno referendum secessionisti. Essa sancisce la sovranità del popolo spagnolo nella sua interezza nonché l’unità ed indissolubilità della nazione. Dunque, una secessione implicherebbe necessariamente un emendamento costituzionale (con un procedimento molto complesso) e non può risolversi in una mera dichiarazione unilaterale. C’è da chiedersi allora che peso potrà avere il voto referendario in tutta la vicenda catalana.
Esaminando i numeri, l’evento sembra fortemente ridimensionato: rispetto ai 5,3 milioni di aventi diritto al voto, hanno votato 2.262.424 elettori (pari al 42,2%) di cui il 90% ha votato a favore dell’indipendenza. Se si considera, poi, l’approssimazione con la quale sono state registrate le operazioni di voto, il risultato si presta ad ulteriori aggiustamenti. Ciò, tuttavia, non sminuisce l’importanza della spinta secessionista catalana le cui motivazioni vanno ricercate in ragioni di carattere storico, sociale, politico ed economico. La Catalogna è, infatti, una delle più antiche Comunità autonome, con radici storiche e culturali ben impiantate, orgogliosa della sua identità nazionale e della sua diversità linguistica, al punto da riconoscere la lingua catalana come lingua ufficiale assieme allo spagnolo. Quanto alle rivendicazioni di natura economica, gli indipendentisti sostengono che a fronte di un significativo contributo della regione al bilancio dello Stato spagnolo, il ritorno in termini di benefici sarebbe fortemente squilibrato.
C’è da dire in proposito che con la crisi economica si è ulteriormente rafforzata anche la richiesta di una gestione autonoma delle ingenti risorse fiscali. Ma l’opinione di molti è che queste rivendicazioni non abbiano in realtà un riscontro reale. Certo, se per assurdo la Catalogna riuscisse a proclamarsi Stato autonomo ed indipendente, il primo nodo da risolvere sarebbe quello dei rapporti con l’UE dalla quale si troverebbe improvvisamente fuori con tutti gli effetti che hanno accompagnato la Brexit.
Non è da escludere che anche questo aspetto abbia indotto martedì scorso Carles Puigdemont, Presidente della Generalitat (l’apparato amministrativo-istituzionale per il governo della Comunità autonoma della Catalogna) a proclamare dinanzi al Parlamento catalano, la cui seduta per la dichiarazione di indipendenza era stata precedentemente sospesa dal Tribunale Costituzionale, l’indipendenza della Catalogna per poi sospenderla al fine di avviare i negoziati con l’esecutivo centrale. Una riapertura del dialogo, dunque, per ridurre la tensione con Madrid.
di Carmine Petteruti, docente al Dipartimento di Scienze Politiche Jean Monnet