Prima laurea internazionale, ecco il racconto di Silvia

  Il famoso “Progetto doppio titolo” sta per concretizzarsi. Tra qualche giorno io ed Antonio Russo stringeremo tra le mani il diploma di Laurea che sancisce l’accordo tra l’Università della Campania Luigi Vanvitelli e l’Università Statale di Pyatigorsk.

Oltre ad un percorso di studi, termineremo un percorso di vita lungo tre anni,anni meravigliosi in una terra fascinosa quanto sconosciuta: Il Caucaso. Mentre per noi, probabilmente fino a qualche tempo fa il Caucaso rappresentava qualche posto indefinito, difficilmente individuabile su una cartina geografica, oggi ha assunto dei contorni ben precisi, è il prodotto finale di tante esperienze: ciò a cui pensiamo quando ci dicono “casa”.

Per riuscire a capire bene questo posto, credo basti un solo aggettivo: sazio.

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Qui ci si sente davvero sazi e non solo di cibo. I miei occhi si sono riempiti fino a scoppiare dei più bei colori, dal bianco smaltato delle vette innevate alle vallate smeraldo, dal blu intenso dei laghi al grigio opaco delle betulle in fiore; e allo stesso tempo, il mio cuore si è nutrito di sorrisi, dell’ospitalità e dell’amore sincero delle persone del posto. Un vero e proprio banchetto per l’anima insomma.

Adesso più che mai, ora che questa grande cena sta per volgere al termine che riesco davvero ad assaporare tutto.

La Russia non è una meta, ma una scelta. Chi mette piede qui è inevitabilmente destinato a cambiare,nel bene o nel male. La prima sensazione che ho avuto,è che non ci fosse un criterio, che tutto fosse stato messo un po’ a caso e la cosa meravigliosa è che le persone che facevano cose le facevano e basta, non andavano da nessuna parte.

Noi non viviamo cosi. Si va all’università perché si deve trovare un lavoro, ci si sposa perché è normale “ad una certa età compiere il passo” e via di seguito… Si passa un po’ troppo tempo, piccoli Frenkeinstein, a progettarsi in laboratorio per come si dovrebbe essere che spesso con l’ansia di costruire un personaggio, dimentichiamo di esser prima di tutto persone.  Posso giurare di aver visto qui classi piene di ragazzi solo perché davvero interessati alla materia e non come troppo spesso accade, bisognosi di avere un bel voto. L’università ha conservato l’originale quanto dimenticato significato di “Universitas”, un luogo cioè dove si fondono idee, dove ci si confronta, si organizzano eventi, si progetta qualcosa di bello insieme e poco importa se si tratti di preparare un esame o di un saggio di danza. Insieme è la parola chiave, quella che spesso manca nella mia bella Italia, dove si corre si corre e non si va da nessuna parte, dove più che vincere è importante far cadere gli altri, dove anche una cosa soddisfacente come lo studio viene vista come un dovere.

La mia isola felice in una terra senza mare sono state le persone, i miei amici stranieri che mi hanno fatto capire tante cose: in primis che tutto si può condividere nella vita, dal pezzo di pane più piccolo al problema più grande, ma anche e soprattutto che si può vivere nell’amore e nel rispetto reciproco parlando lingue diverse o pregando un altro Dio.  Grazie a loro ho capito tanto, che nel mondo c’è tanto male ma anche persone buone, che non sempre la vita è un selfservice e che qualsiasi posto della Terra ha i suoi problemi ma la differenza sta nel come affrontarli.

Ho capito che è facile criticare la propria terra quando il giudizio lo esprimi comodamente dal divano di casa tua, ma che quando sei fuori non passi neppure un giorno senza pensare “Vorrei essere lì “. La Russia è una terra bella ma anche tanto difficile ed è forse in questo che risiede la grandiosità di questa esperienza: riuscire a superare un altro giorno che sembra eterno, sfidando continuamente se stessi, azionando una lavatrice a gettoni solo con le istruzioni in russo, leggendo un menù senza immagini o trovandosi di fronte a qualche indicazione stradale senza sbagliare la direzione. Una lingua aliena che ho imparato ad amare, una specie di colonna sonora perpetua che avrò nella testa come una melodia e che mi ricorderà anche quando starò per mollare che ce l’ho fatta e potrò farcela ancora, sempre.

La Russia mi ha dato il giusto stimolo, quello che tutti i giovani dovrebbero avere quando iniziano a creare qualcosa, quando iniziamo a costruire la loro strada.

 C’è sicuramente tanto lavoro da fare affinchè queste mie parole possano divenire “la storia di qualcun altro” , ma noi siamo la  prova che anche i viaggi più lunghi cominciano con un passo.  Partire significa avere coraggio, significa accettare che il tempo passi, che la vita di chi ami inevitabilmente cambi e tu potresti esserne fuori, partire significa non sapere nulla di domani ma sentire con ogni centimetro del tuo corpo che ci sei oggi. Partire è un po’ come vivere, ma senza la fregatura della morte.

L’università ci ha reso dottori e la Russia sognatori.

Santa Maria Capua Vetere - Giugno 2016

 

di Silvia Raucci, laureanda al corso di Laurea Magistrale in Filologia Moderna