"Come nuvole all'orizzonte": il romanzo di Irene Cortellessa, studentessa alla Vanvitelli

Irene Cortellessa, studentessa di Psicologia, 21 anni e il suo primo libro “Come nuvole all’orizzonte” sullo scottante tema dell’anoressia.
E’ in questo romanzo autobiografico che la nostra studentessa di Psicologia, si racconta, partendo dalla sua dolorosa battaglia contro la malattia e soprattutto contro quel malessere interiore che l’ha portata a trovare riparo dietro l’etichetta di “anoressica”. Analizzando le sue emozioni e ripercorrendo il lungo cammino verso la guarigione, Irene vuole dar voce e sostegno a tutte quelle persone che ancora cercano una via di uscita da questa patologia.
-Da dove nasce la volontà di raccontarti e metterti a nudo in questo libro?
Il libro non è nato con l’intento di essere pubblicato. Anzi, era lontanissima da me l’ipotesi che ciò potesse accadere. Anche perché a 21 anni alcune cose pensiamo possano accadere solo nei film, nei sogni, e per me pubblicare un libro in età così precoce era un qualcosa poco compatibile con la realtà. Come è nata allora questa opera? È nata grazie alla fiducia che la mia professoressa di inglese del liceo, la professoressa Gaia Gervino, ha sempre riposto in me. Mi spiego meglio: all’epoca della malattia iniziai a chiudermi sempre di più in me stessa, rifiutando qualsiasi contatto con il mondo esterno, rinunciando alla comunicazione con i miei pari, ma anche con i miei familiari. Diciamo che iniziai a ritirarmi dalla scena sociale, relegando il mio vivere ad un mondo puramente interiore. Pensieri, emozioni, tormenti, paure ed angosce popolavano la mia mente, ma non trovavano alcun riscontro concreto, non trovavano voce. Fu in quel periodo di totale chiusura che presi l’abitudine di scrivere un diario. La scrittura, in quel momento, insieme al disegno, erano l’unico strumento che avevo per portare fuori stati d’animo che altrimenti mi sarebbero morti dentro; quegli stessi stati d’animo che, arginati e confinati in un luogo di difficile accesso per gli altri, erano esplosioni continue in un campo minato che minacciavano continuamente la mia integrità. Nel momento in cui, dopo il mio ricovero presso l’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù di Roma, la mia professoressa venne a conoscenza di questo mio diario, cercò di convincermi a pubblicarlo, dicendomi che era inammissibile che lasciassi la mia testimonianza chiusa in un cassetto, ma che avrei dovuto farne assolutamente qualcosa di costruttivo. In un primo momento la mia reazione fu quella di categorico rifiuto.
-Perché, qual era la tua principale paura?
Avevo paura ad espormi tanto, paura di essere giudicata, criticata, condannata. Pubblicare la mia testimonianza significava mettermi completamente a nudo, esporre me e la mia famiglia all’occhio inquisitore di chi giudica e condanna senza sentenza. Ed io, che ho sempre odiato stare sotto i riflettori, che ho sempre temuto il confronto, ero terrorizzata all’idea di rendere nota la mia storia. Eppure la mia professoressa mi fece riflettere su un altro aspetto che riguardava la pubblicazione: la possibilità di essere d’aiuto ad altre persone che si trovano ad affrontare la mia stressa esperienza. Allora, dopo molti tentennamenti e molti turbamenti, decisi di accogliere quella proposta.
-A chi desideri rivolgerti con questo nudo racconto?
Mi illudo tuttora che il mio libro possa essere una testimonianza di speranza per quelle persone che hanno difficoltà a credere nel futuro perché ancora troppo invischiate e perse nei meandri della malattia. Mi piace pensare, in maniera piuttosto fideistica, che la mia storia possa fungere da guida, da supposto, da compagnia per coloro che non hanno risposte circa un domani che le spaventa, che possa dare loro la forza ed il coraggio per iniziare a reagire contro un’ossessione che le manipola e le governa; ma mi piace anche sperare che il mio libro possa dare risposte a quei genitori che non riescono a comprendere il dolore silente che si cela dietro la patologia delle proprie figlie, perché lo so bene io quanto possa far male la chiusura dietro la quale ci si nasconde e che non permette a chi ci sta accanto di capire, di intervenire.
-Come è stato riaffrontare il tuo passato attraverso il queste pagine?
Non è stato semplice riaffrontare il passato, non è stato semplice rivivere, attraverso le mie stesse parole, vissuti che mi appartengono e che, nonostante il tempo trascorso, continuano ad essere tasti dolenti della mia vita. E non nego che diverse volte ho abbandonato il lavoro di revisione, accantonando l’idea del libro; ma ogni volta ho trovato la giusta motivazione nelle persone che mi sono accanto e che non hanno mai smesso di credere in me. Purtroppo quello che posso fare io oggi è solo raccontare la mia storia, sperando che possa essere prova di come le difficoltà, che investo la vita di ogni singolo individuo, debbano essere affrontate, sempre e comunque, con la forza ed il coraggio di chi non si dimette alla sofferenza, ma lotta per riuscire a credere ancora nel domani, nella vita, e nelle possibilità che quest’ultima ha da offrirci.
-Sulla base del tuo vissuto, cos’è l’anoressia?
Beh, l’anoressia è una patologia che troppo spesso viene riconosciuta come la scelta volontaria che una persona compie nel tentativo di conformarsi a canoni di bellezza stereotipati e, in qualche modo, imposti dalla società. No, l’anoressia non è una scelta consapevole, né è la volontà di agire sul proprio corpo, di intervenire sul proprio aspetto estetico. L’anoressia è il sintomo esteriore di un malessere interiore; è il sintomo estetico elaborato dal nostro corpo per gridare agli altri che non stiamo bene, senza il bisogno di troppe spiegazioni.
-E allora da dove è nato questo tuo malessere interiore?
La mia malattia è nata in seguito alla mancata elaborazione di un dolore che ho covato per anni dentro di me, senza esternarlo, senza condividerlo, senza concedergli la possibilità di essere riconosciuto. Un dolore causato dalla separazione dalla mia gemella, Mara. Fino alla terza media abbiamo sempre frequentato le stesse scuole, nella stessa classe, con le stesse amicizie e con le stesse esperienze. E per tutti quegli anni ho lasciato che Mara vivesse anche per me, dimettendomi alle sue scelte, assecondando i suoi voleri, lasciando che le conseguenze delle sue azioni ricadessero anche su di me. In quegli anni sono stata semplicemente la sorella di Mara, lasciando Irene arginata in un mondo puramente illusorio. Arrivate al liceo, mamma e papà ci hanno imposto la separazione e, per quanto da tempo fossimo consapevoli che le nostre strade avrebbero preso direzioni differenti, non accettavo l’idea che ciò potesse accadere veramente: una cosa è sapere di dover essere divise, altro è, invece, vivere quella separazione. Mi sono, così, trovata al liceo a dovermi muovere in un paese nuovo, in una classe nuova, con compagni sconosciuti…e senza mia sorella a fungere da filtro, da maschera, da scudo. Ma la cosa che più mi ha destabilizzata e mi spaventata la sensazione di non avere mezzi, né strumenti, né risorse per saper camminare nel mondo, perché in quegli anni precedenti non avevo costruito nulla di mio, nulla che appartenesse alla mia persona, alla mia esperienza, alla formazione della mia identità. È come se mi fossi trovata a nascere per la prima volta a 14 anni, e se da una parte mi sentivo terribilmente indietro con i tempi rispetto ai miei coetanei, dall’altra dovevo, comunque, cercare di condurre la vita di una quattordicenne perché sicuramente non avrei potuto mettere in stand-by il tempo per recuperare gli anni persi e poi ricominciare da dove mi ero interrotta. Così nel tentativo di colmare lacune, che con il tempo si erano trasformate in voragini, mi sono persa e, abbandonate le speranze, impossibilitata a riconoscermi, a sentirmi, a vivermi, ho lasciato che la mia vita deragliasse senza fare nulla per oppormi a quella forza travolgente che stava distruggendo tutto ciò che appartiene ad una comune adolescente. 
-Questo dolore come si è trasformato in anoressia?
Mi sono aggrappata, in maniera piuttosto ingenua, a quell’etichetta di “anoressica” che le persone iniziavano a cucirmi addosso nel momento in cui iniziavo a perdere peso, per ragioni legate esclusivamente ad una sofferenza che stavo vivendo: lo sappiamo tutti che le condizioni di stress psichico hanno inevitabilmente ripercussioni incontrollate sul nostro corpo. Perché mi sono aggrappata a quell’etichetta?! Perché dal momento in cui Mara aveva rinunciato al rapporto simbiotico, alla relazione fusionale, che fino ad allora mi aveva garantito la stabilità, mi aveva fornito un volto, una connotazione, mi sono trovata completamente sprovvista di identità, e senza alcuna base solida da cui partire per costruirne una solo mia, che non fosse intaccata dal bisogno morboso che avevo di mia sorella. Allora è stato facile per me arginare quel caos che mi investiva, assumendo le sembianze dell’anoressica, che in quel momento, per la prima volta, mi permettevano di riconoscermi, di avere un posto nel mondo…un’identità. È stata una scelta assolutamente inconsapevole ed involontaria, ma soprattutto sbagliatissima perché non poteva essere un’etichetta, perché di questo stiamo parlando, a garantirmi un volto, soprattutto non doveva essere quello il pretesto da cui partire per costruire la mia persona, perché non avrei mai potuto essere anoressica per sempre, dal momento che non è una condizione compatibile con la vita. Prima o poi avrei dovuto scegliere quale direzione dare al mio percorso e non potevo scegliere di essere riconosciuta attraverso una patologia.
-Quando hai capito di dover cambiare direzione?
Ho iniziato a rendermene conto, ma soprattutto ho iniziato a capire di dover compiere una scelta, nel momento in cui un medico specializzato nella cura dei disturbi alimenti, dal quale mamma e papà mi portarono, mi disse in maniera piuttosto diretta come stavano realmente le cose, quanto a rischio fosse la mia vita. Le sue parole, in un certo senso brutali, e che mi arrivarono come un ceffone in pieno volto, sono state:
 “Irene il tuo corpo non riceve cibo sufficiente per svolgere le normali reazioni metaboliche. Ciò nonostante, ha comunque bisogno di quell’energia che tu ti rifiuti di dargli, quindi se la prende non più da fonti esterne, quale il cibo, ma inizia ad attaccare i tuoi organi interni, inizia ad attaccare i muscoli. Ora, sai benissimo che anche il cuore è un muscolo. Essendo anch’esso un muscolo, il tuo corpo sta attaccando anche lui, che si sta facendo sempre più piccolo. Continuando a perdere peso, stai sottoponendo il tuo cuore ad uno sforzo che non è in grado di reggere. Batterà ancora, e ancora, fino a quando non ne sarà più in grado e si fermerà”.
Di fronte a quelle parole non è stato così scontato per me optare per la vita, scegliere di lottare. Anzi, per la prima volta seppi cosa volessi davvero: stavo sottoponendo la mia famiglia a dispiaceri che non ero capace di alleviare, li stavo gettando in una disperazione senza fine, rompendo ogni equilibrio familiare, ogni forma di serenità, e di fronte a tutto il caos che li stava investendo per colpa mia, pensai, in maniera piuttosto vile ed immatura, che se mi fossi tolta di mezzo io, magari avrei tolto di mezzo la fonte primaria di dolore, e loro avrebbero smesso di soffrire a causa mia. Ma quello che non avevo considerato era che il dolore al quale li stavo sottoponendo in quel momento era sicuramente più tollerabile del dolore della perdita.
-E quando hai capito che per uscire dal tunnel dovevi iniziare a lottare?
Quando la mia resa ha iniziato ad essere ormai evidente e distruttiva, e mia sorella mi ha chiesto di restare perché aveva bisogno di me, io non avevo più le forze per reagire, non per farcela da sola. Ma sicuramente le sue parole sono state la molla che ha fatto scattare in me il desiderio di lottare, perché pensavo che una vita senza Mara io non riuscirei ad immaginarla, né potrei accettarla, e allora perché stavo facendo a lei qualcosa che non avrei mai voluto venisse fatto a me?! Così, per la prima volta, arrivata a pesare circa 33kg, non mi opposi più al ricovero e accettai la proposta dei miei genitori di portarmi in ospedale per farmi curare. Eppure c’è voluto un bel po’ di tempo prima che iniziassi concretamente a collaborare per guarire, se non altro avevo iniziato a rendermi conto del problema. Si, perché non è così scontato ed automatico ricominciare a mangiare, ma è un processo piuttosto lungo e travagliato, che richiede tantissimo sforzo e forza di volontà, perché ciò significa andare ad intervenire su ossessioni, schemi rigidi, abitudini consolidati in me per anni, e che sono stati il mio vivere. È un po’ come combattere una dipendenza: non è così semplice rompere quel circolo vizioso che ormai è strutturato in te. Durante le prima settimane in ospedale, quindi, la mia condizione è peggiorata ulteriormente perché continuavo ad essere piuttosto oppositiva, fino a quando una serie di eventi succedutisi in quel luogo che reclamava libertà, non mi hanno fornito la giusta motivazione per iniziare a collaborare.
-Durante la riabilitazione chi o cosa ti ha dato la forza per scegliere il cammino della guarigione?
Non è stata una sola la causa scatenante che mi ha permesso la guarigione, ma diversi fattori: a partire dal senso di colpa nei confronti dei bambini che erano ricoverati con me e che, così piccoli ed ingenui, si trovavano a lottare contro patologie più gravi della mia e dalle quali probabilmente non avrebbero trovato guarigione; c’era il senso di colpa nei confronti della mia famiglia che aveva completamento annullato la propria vita per abbracciare i miei bisogni e le mie necessità, dal momento in cui la mia mamma viveva con me in ospedale; c’era il desiderio opprimente di tornare alla mia vita, alle mie abitudini, alla mia routine; ed, infine, forse l’unica cosa che mi ha permesso di affrontare tutte le difficoltà che la risalita richiedeva, c’era la mia psicoterapeuta che, unica fra tutti, mi ha rassicurata su quella che era la mia più grande paura, il limite più invalidante: dover affrontare le cause sottostanti la malattia, dover lavorare su quel dolore latente che, silente ed indisturbato, mi aveva fatto terra bruciata intorno. Infatti l’anoressia, per tutto quel tempo, non era stata altro che un alibi: nutrendomi delle ossessioni legate ad essa, non riconoscevo le fragilità che la alimentavano, ma una volta tolto il sintomo, la patologia, il focus si sarebbe, inevitabilmente, spostato sul caos dal quale nasceva. La mia dottoressa mi rassicurò sul futuro, promettendomi che, una volta sistemato il mio fisico, e ristabilita una condizione di salute ottimale, avremmo lavorato insieme su quelle che erano le lacune che per anni avevo trascurato, che insieme avremmo costruito la mia persona, e mai mi sarei trovata sola ad affrontare quel percorso di rinascita.
-Perché “Come nuvole all’orizzonte”?
Perché mi rendo conto di come la malattia, così come le sofferenze ed i dolori, le paure e le angosce, altro non sono che come nuvole all’orizzonte: fugaci e passeggere incombenze della vita, la cui oscurità non elide la pienezza della gioia, ma la sovrasta per un tempo troppo breve per poterne cancellare la sontuosità.