Asfissia perinatale, verso nuove strategie terapeutiche, studio della Vanvitelli

Un test genetico per curare efficacemente i neonati colpiti dall’asfissia perinatale. Potrebbe essere questa la strada per migliorare le strategie terapeutiche per un evento che rappresenta ad oggi la principale causa di morte e neurodisabilità nel neonato a termine. Evento del tutto inatteso che si verifica al momento del parto a causa del mancato apporto a livello cerebrale di sangue e ossigeno.

Nuove prospettive le ha aperte lo studio di un team di ricercatori guidato da Paolo Montaldo, dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli, in collaborazione con il team dell’Imperial College London, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Jama Network (Whole-Blood Gene Expression Profile After Hypoxic-Ischemic Encephalopathy | Pediatrics | JAMA Network Open | JAMA Network).

La ricerca si è focalizzata sulle differenze nei profili di espressione genica nei neonati affetti da asfissia perinatale nati nei paesi sviluppati e neonati nati in India, Sri Lanka e Bangladesh così da comprendere perché una popolazione (la prima) beneficerebbe del trattamento ipotermico e l’altra (quella del Sud Asia) no. Dallo studio è emerso infatti che il profilo di espressione genica subito dopo la nascita, associato ad outcome avverso, è significativamente differente: nel caso dei nati nei paesi in via di sviluppo, si tratterebbe di un’asfissia non acuta ma bensì di un processo di sofferenza che inizierebbe già nel grembo materno, e quindi al di fuori della finestra di efficacia del trattamento ipotermico.

“Abbiamo evidenziato – spiega Montaldo – che nel caso dei neonati del Sud Asia si tratta di un processo che si instaura più lentamente, tanto da persistere nel tempo. Probabile, che altri fattori agiscano nei paesi in via di sviluppo come malnutrizione, basso peso alla nascita ed insufficienza placentare. Questo cambia l'efficacia delle strategie di neuroprotezione che noi usiamo. Ad esempio, l'ipotermia terapeutica che consiste nel ridurre la temperatura corporea a 33.5°C per 3 giorni, ha un'efficacia estrema solo se iniziata entro alcune ore dall'instaurarsi dell'ipossia acuta perché agisce rallentando il metabolismo cerebrale. Se tuttavia l'ipossia si instaura più lentamente ed in maniera non acuta, il danno cerebrale è mediato soprattutto da un processo di stress ossidativo e flogosi”.

Ecco perché avere un test genetico che possa un domani dare queste informazioni, potrebbe guidare i medici sulla migliore strategia terapeutica. “Attualmente – continua Montaldo - la terapia elettiva è rappresentata dall’ipotermia terapeutica, che consiste nel ridurre la temperatura corporea del neonato poco dopo la nascita, così da limitare i danni dell’insulto ipossico-ischemico. Tuttavia, nonostante questo trattamento, oggi oltre 2 milioni di neonati presenta danni cerebrali permanenti. Pertanto, l’ipotermia terapeutica da sola sembrerebbe essere solo parzialmente efficace e addirittura di nessuna efficacia per i bambini nati nei paesi in via di sviluppo, sui quali invece potrebbe essere più efficace l'eritropoietina “.

La sfida, dunque, è individuare quali sono i bambini che necessitano di un trattamento e come curarli al meglio. Questa ricerca, oltre a chiarire i meccanismi fisiopatologici alla base del danno ipossico ischemico, fornisce basi solide per future strategie terapeutiche con il potenziale di sviluppare un test nel sangue che guidi i neonatologi nel processo decisionale al fine di ottimizzare la strategia di neuroprotezione sia nei paesi in via di sviluppo come anche nei paesi sviluppati come il nostro.