di Francesco Izzo | professore di Strategie e management dell’innovazione (Università della Campania "Luigi Vanvitelli")
Sergio Marchionne, morto ieri 25 luglio 2018, è stato senza dubbio il più grande manager di un’impresa “italiana” degli ultimi trent’anni. Uomo di straripante intelligenza, abilissimo negoziatore, leader naturale, ha agito come un “rivoluzionario” nel cortile angusto del capitalismo familiare italiano, rovesciando muri di ipocrisia e cancellando bizantinismi sterili nelle relazioni fra impresa e istituzioni. Il suo maglioncino nero è stato ben più di un simbolo o di una dichiarazione di intenti.
Certo, non è stato infallibile e ha commesso errori di valutazione e di previsione, ma il suo nome si legherà per lungo tempo a quella che nel 2004, quando assunse il ruolo di amministratore delegato della Fiat, la comunità degli analisti di mercato e degli studiosi di strategie giudicò una missione impossibile: il salvataggio della casa automobilistica torinese.
Quando prende in mano il timone del gruppo di Torino, la situazione appare disperata. Confessa a Gianluigi Gabetti, l’uomo della finanza Fiat, che la società è tecnicamente fallita. «Non stupirti. Noi perdiamo due milioni al giorno, non so se mi spiego. Se fallimento significa non avere i soldi in casa per pagare i debiti, bene, allora noi ci siamo…». L’ultimo triennio si è chiuso con 7,7 miliardi di perdite; 1,5 miliardi solo nel 2004. Le azioni Fiat sono quotate a 1,6 euro.
Dopo quattordici anni, il fatturato del gruppo Fiat Chrysler Automobiles è cresciuto a 111 miliardi di euro di ricavi netti, il debito si è azzerato, le azioni sono volate a oltre 16 euro, il valore di mercato è balzato da 5,9 a 62 miliardi di euro, i dipendenti sono quasi 24o mila distribuiti in 149 stabilimenti, i marchi sono diventati 14. Come è stato possibile?
A guidare l’opera di Sergio Marchionne sono stati due paradossi, l’essere un outsider al quadrato. In primo luogo, sentirsi straniero in patria. Nato in Italia, in Abruzzo, si è formato lontano (è emigrato con i genitori a tredici anni in Ontario, Canada), immerso in una cultura differente, riuscendo a sottrarsi al ritorno in Italia a quell’intreccio vischioso di relazioni perverse fra politica ed economia che ha ostacolato o rallentato per almeno cinquant’anni lo sviluppo naturale delle imprese italiane. Un sistema ingessato che ha protetto per quasi un secolo la Fiat, ma in realtà indebolendo fortemente la sua capacità di competere nei mercati internazionali. Da quell’intrigo, Marchionne si è tenuto fuori, non rischiando mai di restare intrappolato nei compromessi di potere, nei luoghi comuni, nei rituali consociativi. La seconda fortuna di outsider: non avere alcuna conoscenza del mondo automobilistico. Al college ha studiato filosofia (prima di laurearsi in giurisprudenza e conseguire un Mba); è un tassista e un gelataio mancato – almeno ad ascoltare le profezie del padre dopo gli studi in filosofia -; ha lavorato in Sgs, una società svizzera di certificazione, contribuendo a farla crescere rapidamente. E lì che Gabetti lo scopre, restando incantato dalla sua genialità, suggerendone il nome ad Umberto Agnelli come consigliere di amministrazione dell’azienda torinese. Essere fuori dal mondo dell’auto gli ha consentito di ragionare senza barriere ideologiche, di compiere scelte difficili senza pregiudizi, di riscrivere la strategia della Fiat come su un foglio bianco. Fino a plasmare l’organizzazione a sua immagine e somiglianza.
Il 1° giugno 2004, quando comincia la sua avventura in Fiat, rassicura i mercati e i suoi uomini con poche parole, provando a convincere anche se stesso: «Fiat ce la farà; il concetto di squadra è la base su cui creerò la nuova organizzazione; prometto che lavorerò duro, senza polemiche e interessi politici». E da lì comincia una nuova stagione per la casa automobilistica fondata dal senatore Agnelli nel 1899. L’inizio non sarà facile. Comincia a tagliare partendo dalla cima dell’albero, smontando pezzo dopo mezzo un’architettura gerarchica propria della fabbrica novecentesca inadeguata a giocare la partita della contemporaneità.
Racconterà anni dopo a Ezio Mauro in un’intervista a Repubblica: «Mi ricordo i primi 60 giorni dopo che ero arrivato qui, nel 2004: giravo tutti gli stabilimenti e poi, quando tornavo a Torino, il sabato e la domenica andavo a Mirafiori, senza nessuno, per vedere le docce, gli spogliatoi, la mensa, i cessi. Ho cambiato tutto: come faccio a chiedere un prodotto di qualità agli operai e farli vivere in uno stabilimento così degradato?».
Per capire che cosa è accaduto nell’universo Fiat in questi 14 anni ho scelto cinque date fondamentali per comprendere il disegno strategico di Marchionne, interpretarne le ragioni del successo, spiegarne gli elementi di criticità nel futuro prossimo.