di Simona Castaldi, docente al Dipartimento di Scienze e Tecnologie Ambientali Biologiche e Farmaceutiche, Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli.
Il 2015 ha visto, durante la conferenza sul clima di Parigi (COP21) il «primo accordo universale e giuridicamente vincolante sul clima», un accordo storico, ottenuto dopo due settimane di trattative serrate, nel corso del quale i migliaia di delegati delle 196 “parti” (195 Paesi e l'Unione europea) hanno riconosciuto, il ruolo negativo dell’azione antropica sui cambiamenti climatici, e la necessità di un piano d’azione globale, inteso ad evitare cambiamenti climatici pericolosi limitando il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2ºC. L'Accordo di Parigi è l'esito finale di una lunga road map di negoziati iniziati specificamente con questo obiettivo alla COP17 di Durban nel 2011 (fase 2 del protocollo di Kyoto). L’accordo di Parigi è entrato in vigore il 4 novembre 2016. Tra i paesi che hanno ratificato l’accordo per la prima volta Stati Uniti e Cina, i due più grandi inquinatori mondiali che rappresentano rispettivamente circa il 18% e il 20% delle emissioni globali.
Cosa propone l’accordo di Parigi? Tutte le parti hanno concordato nella necessità di avere un obiettivo di mitigazione di lungo periodo che contenga l'aumento della temperatura terrestre entro fine secolo ben al di sotto dei 2°C rispetto all'era preindustriale e poi vada oltre per mantenersi entro 1,5°C. Sebbene nessuna specifica indicazione venga data sui target di riduzione delle emissioni da raggiungere, sono previste due velocità diverse di azione che favoriscano i paesi in via di sviluppo, i quali, quindi avranno più tempo per adattarsi tecnologicamente. Sono previsti dei meccanismi di controlli e verifica che ogni paese ratificante adotterà e nel 2023 ci sarà la prima valutazione di quanto raggiunto da ogni Paese. Le verifiche saranno quinquennali, permettendo quindi di correggere in corso d’opera le politiche nazionali sul clima e di sviluppo. I Paesi più poveri saranno esentati da queste verifiche. Gli sforzi rimarranno comunque su base volontaria per venire incontro a molti paesi tra cui gli Stati Uniti. Tuttavia, vi sarà una differenziazione degli impegni, con il maggior contributo che dovrà venire dai paesi sviluppati, che nei passati decenni hanno contribuito maggiormente all’incremento di gas ad effetto serra (GHGs) in atmosfera, mentre si lascerà maggior autonomia di gestione nelle politiche di mitigazione ai paesi in via di sviluppo per non creare impedimenti alla loro crescita. L’accordo inoltre prevede che i paesi sviluppati destinino investimenti e supportino tecnologicamente i paesi in via di sviluppo per far si che la loro crescita possa avvenire su basi non solo economicamente ma anche ambientalmente sostenibili. Ad oggi le emissioni di GHG di 186 paesi dei 196 che hanno dato indicazioni di politiche di mitigazione, ammonterebbero già ad un emissione globale di CO2 (equivalenti) entro il 2030 di 55 miliardi di tonnellate laddove per ottenere il target di contenimento della temperatura globale sotto i 2°C, le emissioni globali non dovrebbero superare i 42 miliardi di tonnellate di CO2 (equivalenti). Un ulteriore sforzo è quindi richiesto su scala planetaria.
L’accordo di Parigi ha dato tuttavia, per la prima volta, un chiara sensazione di trovarsi in un momento di irreversibilità delle scelte, un momento in cui la comprensione dell’importanza dell’azione negativa dell’uomo sul pianeta ha portato una convergenza di intenti e opinioni di governi, scienza e anche obiettivi economici (green economy). L’entusiasmo e la portata di tale evento, hanno spinto, nel successivo incontro della COP22 di Marrakech, ben 43 Paesi ad impegnarsi nell’ammirevole obiettivo di raggiungere il 100% di energia da fonti rinnovabili. L'Italia ha ratificato l’accordo di Parigi il 4 novembre 2016 (LEGGE 4 novembre 2016, n. 204).
La nuova ventata di ottimismo portata dall’accordo di Parigi sembra però aver subito un duro colpo di arresto, trainata dalla posizione negazionista che la nuova amministrazione americana ha preso su chiara indicazione del presidente Trump. Non solo il presidente degli Stati Uniti ritiene che «il riscaldamento globale è una bufala inventata dai cinesi per colpire le nostre aziende» (citazione dal Sole 24ore, Sviluppo Sostenibile a Rischio, M. Bartoloni, 31 gennaio 2017) ma ha dato chiare indicazioni di non voler onorare l’accordo di Parigi firmato dal precedente presidente, ed ha posto tre negazionisti del clima a capo di tre dipartimenti chiave per lo sviluppo sostenibile, il Dipartimento dell’Energia, il Dipartimento dell’Agricoltura e l’agenzia di protezione nazionale dell’ambiente (EPA). La preoccupazione è quindi non solo che gli Stati uniti, uno dei primi paesi per emissioni antropiche di GHG, non rispettino gli impegni di mitigazione, ma che sull’esempio degli USA molti altri paesi si possano ricollocare, per convenienza economica, su posizioni negazioniste o quanto meno non collaborative.
Tuttavia qual è il vero punto dirimente nelle nostre scelte “se essere a favore o meno delle politiche di mitigazione del clima”? E’ veramente la nostra scelta unicamente condizionata dalla dimostrazione oltre ogni ragionevole dubbio che gli attuali cambiamenti climatici in atto sono realmente indotti dall’azione dell’uomo attraverso l’immissione massiccia di GHG in atmosfera legate alla produzione di energia ed alle attività produttive?
E se invece cambiassimo il punto di vista? Se la “vision” di un mondo “decarbonizzato” in realtà portasse con se molto di più del solo immenso vantaggio di evitare disastri ambientali presenti e futuri?
In questa simpatica e veritiera vignetta ambientata durante un Summit sui Cambiamenti Climatici, una persona dal pubblico, che qui rappresenta la voce di coloro che non credono nelle evidenze scientifiche del cambiamento climatico di forte impronta antropica, dice: “E che succede se invece tutta questa storia è solo una grande bufala e noi creiamo un mondo migliore per nulla?”
Come mostra infatti lo speaker nella sua presentazione al pubblico, in realtà le azioni che oggi vengono proposte dai paesi che hanno scelto di investire su uno sviluppo basato su scelte “low carbon” sono decisamente azioni che hanno un valore sociale, economico ed ambientale ben più ampio delle riduzioni di emissioni o mitigazione che propongono.
Le politiche di mitigazione infatti porterebbero comunque numerosi altri vantaggi (co-effects): il miglioramento della qualità dell’aria ed una riduzione dell’inquinamento atmosferico e dei sui impatti sulla salute umana e sugli ecosistemi, una maggiore sicurezza energetica che potrebbe anche arrivare nella visione più ottimistica all’indipendenza energetica (energy diversity), investimento sull’innovazione tecnologica e ricerca, una riduzione dei costi energetici, nuove opportunità lavorative ed un ulteriore sviluppo economico ed industriale, un netto miglioramento della salute umana associata a città meno inquinate ma anche a catene di produzione alimentare più sostenibili, valorizzazione del capitale naturale e protezione delle foreste, delle zone naturali e degli agroecosistemi, un futuro molto probabilmente migliore da consegnare nelle mani delle future generazioni (IPCC Fourth Assessment Report: Climate Change 2007, cap. 4.)
Siamo quindi sicuri che la vera domanda per decidere se seguire le politiche di sviluppo sostenibile diverse da quelle attuali sia: “cambiamento climatico si o cambiamento climatico no”? E’ veramente solo questo quello a cui siamo interessati a rispondere? E’ la risposta a questa domanda quello che farà la differenza nelle nostre scelte come cittadini e come paese?
Oggi, sabato 25 marzo alle 20.30 il WWF organizza la Earth Hour, un contributo alla lotta sui cambiamenti climatici, che ognuno può dare spegnendo la luce per un’ora. In fondo questo gesto, anche per il più convinto negazionista potrebbe anche significare indipendentemente dalle mie convinzioni sulle evidenze dei cambiamenti climatici io scelgo di prendere posizione, scelgo di credere che un futuro migliore è possibile, sicuramente migliore di quanto abbiamo oggi.