di Aniello Riccio -  Dipartimento di Ingegneria Industriale e dell'Informazione della Seconda Università degli studi di Napoli

 

L’ultimo comunicato ANSA recita: “La sonda Shiaparelli si è schiantata – Il lander del missione Exomars Schiaparelli, ha probabilmente raggiunto la velocità di 300 Km orari mentre precipitava sul suolo di Marte da una altezza compresa tra 2 e 4 km. Sulla base delle immagini catturate dalla sonda MR0 (Mars Reconnaissance Orbiter) della NASA, L’Agenzia Spaziale Europea non esclude che Shiaparelli possa essere esploso in volo”.

Ma Per capire le reali implicazioni di quello che è recentemente accaduto sul programma di esplorazione marziana ExoMars, frutto di una cooperazione tra l’Agenzia Spaziale Europea (Esa) l’Agenzia Spaziale Russa (Roscosmos), e l’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) con il supporto tecnico in primis della Join venture Thales Alenia Space (Thales 67% e leoneardo-Finmeccanica 33% ), è necessario capire quali erano e sono i reali obiettivi della missione e in che misura questi obiettivi sono stati raggiunti o potranno essere raggiunti in futuro.

Il pool di tecnologie della missione Exomars 2016 è composto da un modulo orbitante, il Tgo (Trace Gas Orbiter), assemblato nel sito Thales Alenia Space di Cannes, con a bordo tre strumenti scientifici e una fotocamera ad alta risoluzione, e da un modulo di discesa Edm (Entry descent landing Demonstrator Module) detto anche lander Schiaparelli, che è stato assemblato nel sito di Torino, equipaggiato con strumenti scientifici per la caratterizzazione fisica e meteorologica dell’atmosfera di Marte, un riflettore per laser e una telecamera attiva nella discesa.

"Dopo un lungo viaggio interplanetario di circa 500 milioni di chilometri, il modulo di discesa si è separato dal modulo orbitante Trace Gas Orbiter (Tgo) il 16 Ottobre e dopo un avvicinamento di tre giorni ha raggiunto il limite dell’atmosfera marziana, il così detto punto di interfaccia d’ingresso posto a circa 122 chilometri dalla superficie del pianeta, per iniziare la sua discesa libera sul pianeta Marte ad una velocità di circa 21.000 chilometri orari" indica Thales Alenia Space e riferisce riguardo il lander Schiaparelli "ha completato con successo la maggior parte delle fasi previste nella tanto attesa e critica discesa di sei minuti nell’atmosfera marziana, come la decelerazione attraverso l’atmosfera, l’apertura del paracadute e dello scudo termico.

"I propulsori sono stati attivati brevemente, e si sono spenti prima del previsto, ad un'altitudine che deve ancora essere determinata" spiega la join venture, riferendo il computer di bordo, forse a causa di una lettura errata dei sensori che indicavano il raggiungimento del suolo, ha comandato lo spegnimento dei retrorazzi di discesa prima che fosse effettivamente raggiunta la superficie del pianeta rosso. Questo è il risultato delle analisi parziali, tutt'ora in corso, dei dati che Schiaparelli ha inviato alla sonda madre durante la fase di discesa, suscettibile di aggiornamenti più precisi nei prossimi giorni.

Prima di 'tacere', il lander Schiaperelli ha fatto bene il suo lavoro perchè ha "completato con successo la maggior parte delle fasi previste" della sua missione (95% circa), "con il corretto ingresso e discesa in atmosfera marziana" anche se il segnale della capsula è stato perso pochi secondi prima dell’atterraggio su Marte. E non solo. L'orbiter Tgo (Tras Gas Orbiter), altra tecnologia di punta della missione europea sul pianeta rosso, si è "correttamente posizionato in orbita marziana". Il modulo "manterrà questa posizione fino a gennaio 2017, quando l’inclinazione verrà aumentata fino a 74° e il periodo orbitale ridotto ad 1 giorno. Da marzo 2017, l’orbiter inizierà a circolarizzare gradualmente l’orbita con un meccanismo di frenata per attrito con l’atmosfera marziana (Aerobraking) utilizzando l’ampia superficie dei suoi pannelli solari". La missione scientifica del modulo orbitante di ExoMars, ricorda Thales Alenia Space, "è analizzare l’atmosfera del pianeta, in modo particolare ricercando tracce di metano determinandone la concentrazione e la distribuzione. Qualora verrà individuato, gli scienziati stabiliranno se tale metano è di origine biologica o geologica".

Quindi, altro che fallimento! Su Schiaparelli tutti i dispositivi di bordo sono entrati in funzione nella sequenza corretta, solo, non sono entrati in funzione nel modo corretto. A mano a mano che i dati cominciano ad essere letti ed interpretati nella maniera corretta, cominciano a definirsi meglio i contorni dell'avventura di Schiaparelli su Marte.

In generale, il programma ExoMars ha ancora molto da dire e fornirà in futuro occasioni per mostrare l’elevato livello della tecnologia made in Italy in campo aerospaziale nonostante gli scoop giornalistici e il susseguirsi delle notizie allarmistiche che ci hanno bersagliato nelle ultime ore. Il prossimo lancio, previsto nel 2020, permetterà di analizzare il suolo marziano fino ad una profondità di 2 metri alla ricerca di tracce di vita, grazie alla trivella in via di sviluppo da parte di Leonardo Finmeccanica. Un programma di esplorazione spaziale dovrebbe essere giudicato solo sulla base di tutte le informazioni e tutto il progresso di cui è artefice. In fondo l’esplorazione spaziale è sempre stata ricca di “incidenti” e di conseguenti “lesson learned” che hanno permesso all’uomo di raggiungere le mete più ambite "Per Aspera ad Astra".

 

di Eleonora Ruocco, docente di Dermatologia presso l’Unità Operativa Complessa della Clinica Dermatologica della Sun.


La caduta o la perdita di capelli è considerata anomala in molte società, essendo associata alla calvizie dell’età avanzata (alopecia androgenetica) o a uno stato patologico (chemioterapia). In condizioni fisiologiche il numero di capelli presenti  varia notevolmente da persona a persona, influenzato da numerosi fattori, quali genetica, età, sesso e stato di salute. Si stima che mediamente vi siano circa 100.000 capelli sulla testa di ogni individuo (circa 140.000 nei biondi, 100.000 nei bruni e 80.000 nei rossi), di cui il 90% circa si trova in una fase di crescita. Durante tale periodo il capello si allunga mediamente di 1-1,5 cm al mese. Si calcola che ogni anno vengono spesi miliardi di dollari nelle nazioni industrializzate per la cura  del capelli e per i problemi psicologici che le loro alterazioni determinano.

Ma perché la caduta di capelli si osserva principalmente nei periodi autunnali? La perdita di capelli nel periodo delle castagne (da settembre a novembre) è un fenomeno fisiologico molto semplice, non dipende dal cambio di temperatura, come si credeva fino a qualche anno fa, ma dalla variazione delle ore di luce nell'arco della giornata. Si ritiene che la melatonina ormone regolatore del ciclo luce- buio medi questo meccanismo e che il fenomeno coinvolga entrambi i sessi e tutte le età.
Per la caduta stagionale è opportuno curare innanzitutto l’alimentazione che deve essere basata sull’assunzione di frutta e verdure fresche ricche di vit. E, B, C, ferro, rame, zinco, magnesio. Non devono mancare inoltre carne, pesce e uova ricche di proteine. Fondamentale l’assunzione quotidiana del latte fresco fonte di cistina e aminoacidi solforati che rappresentano i mattoncini della cheratina dei capelli. Sicuramente vanno evitati i trattamenti “aggressivi” per i capelli quali: piastre, permanenti, stirature, trazioni e spazzolature prolungate e lavaggi frequenti con shampoo inadeguati.


E se la caduta “fisiologica” del periodo delle castagne dura oltre l’autunno? In questo caso, si parla di una vera e propria patologia del cuoio capelluto denominata telogen effluvium, che colpisce entrambi i sessi, con una leggera prevalenza del sesso femminile.
Il paziente riferisce un’eccessiva perdita di capelli sia durante la detersione dei capelli (shampoo), sia durante la giornata. La quantità dei capelli che cadono oscilla  da 100 a 500 capelli al giorno. Può associarsi  a bruciore e parestesie al cuoio capelluto. E’ fondamentale un’attenta anamnesi che spesso consente allo specialista dermatologo di risalire all’evento che ha innescato la patologia. Quest’ultimo va attentamente ricercato e collegato ad eventi accaduti circa tre mesi prima dell’inizio delle manifestazioni cliniche. Il telogen effluvium puo’ essere acuto, dunque dovuto ad un forte stress emotivo, un lutto familiare, una separazione, la perdita improvvisa del lavoro, o cronico, quando la caduta di capelli persiste da molto tempo. In quest’ultimo caso vanno considerati fattori legati a particolari momenti della vita di un paziente: diete drastiche e restrittive, ad esempio, anemie, il periodo post-partum. Una perdita di capelli, inoltre, può celare anche importanti malattie infettive (TBC, sifilide, brucellosi, tifo), malattie autoimmuni (LES, ipotiroidismo, ipertiroidismo, tiroiditi, dermatomiosite, diabete mellito). Inoltre neoplasie, interventi chirurgici, nutrizione parenterale possono scatenare un telogen effluvium. Un’ importante causa di caduta di capelli da non sottovalutare sembra essere dovuta all’assunzione per lunghi periodi di alcuni farmaci di uso comune: antifiammatori (ibuprofene), acido valproico (amnticonvulsivanti), ACE inbitori (antipertensivi) cumarinici (anticoagulanti) fenofibrato (ipocolesterolemizzanti) , anti-H² (cimetidina).

Dunque, che terapia scegliere? Per il telogen effluvium che deriva da una causa acuta e transitoria, si risolve spontaneamente senza alcun trattamento, il paziente va rassicurato sulla temporaneità della caduta e sul fatto che i capelli caduti, saranno sostituiti rapidamente da nuovi capelli in breve tempo. Il telogen effluvium cronico invece può persistere molti mesi pertanto va eseguita un’attenta anamnesi  fisiologica, patologica prossima e remota, personale, familiare,  e farmacologica. E’ opportuno prescrivere esami di laboratorio per la ricerca di eventuali patologie associate alla caduta e quando è possibile, individuare e sospendere il farmaco responsabile della patologia.

E gli integratori? In commercio ce ne sono di tutti i tipi. Vanno assunti sotto stretto controllo medico, evitando quelli con una grande quantità di vitamina A,  che potrebbe accentuare la perdita dei capelli. Non vanno prescritti tutto l’anno ma a cicli e solo in caso di reale carenza.

Per  consulenze specialistiche: Ambulatorio acne, capelli e unghie (E. Ruocco)  giovedì ore 9-12 previa prenotazione CUP : 800 177 780 (codice 520111) con prescrizione del medico di base con ricetta rossa (visita dermatologica).

 di Fortunato Ciardiello - Presidente ESMO e Direttore del Dipartimento Universitario di Internistica Sperimentale e Clinica alla SUN.

 

 Quello che chiamiamo un male incurabile è una galassia di tante malattie diverse, purtroppo non abbiamo ancora dei risultati soddisfacenti per alcune di queste, però per gran parte dei tumori la malattia è guaribile. Questo è il messaggio diffuso nel corso del congresso ESMO dal 7 al 10 ottobre 2016 a Copenaghen,  che ha visto più di ventimila specialisti partecipanti - e in cui si è fatto il punto sui tumori, l’immunoterapia ed il futuro delle terapie oncologiche. Oggi sono circa 3 milioni gli italiani cui è stato diagnosticato un tumore, il 5 per cento della popolazione, ma è anche cresciuta la sopravvivenza (57 per cento nelle donne, 63 per cento negli uomini, più 20 per cento dal 1990 ad oggi) e sono migliorate anche le condizioni del paziente durante il periodo di cura. Quelli che una volta erano i big killers non sono più malattie che uccidono, ma sono malattie dalle quali si guarisce, basti pensare che il 90% delle donne con cancro alla mammella oggi guariscono. Cosa ha permesso tutto questo? La ricerca. La ricerca è il vero motore che permette  di conoscere sempre meglio i meccanismi del cancro e di inidividuare sempre meglio le migliori terapie possibili.
Anche in Europa l’incidenza è simile a quella italiana. Nelle possibilità di cura e guarigione l’Italia è nella media “alta” dell’Europa, uno dei continenti in cui si riesce a curare meglio i pazienti con cancro, ovviamente considerando le differenze di prognosi e di curabilità. Mentre in tumori come quelli al pancreas o quelli cerebrali la prognosi è ancora molto negativa, in quelli del polmone – fino a ieri considerati tra i più difficili su cui intervenire – si sono fatti straordinari passi avanti. Vi sono anche altri tumori dove ormai da anni i pazienti arrivano a guarigione: pensiamo al tumore del seno nelle donne o quello della prostata negli uomini. Ma non solo. Il tumore del colon-retto, divenuto il primo tumore in Italia per incidenza (52 mila nuovi casi all’anno), oggi, se viene diagnosticato per tempo, grazie ad un intervento chirurgico o a una adeguata terapia, può essere curato e si può guarire.
La cura del cancro è un grande processo, complesso e costoso. Nei grandi Paesi, tra cui l’Italia, ci sono luoghi e Regioni in cui i pazienti possono avere le migliori risorse, in altri – soprattutto nell’Est Europa e in quelli di recente adesione all’UE – è più difficile ottenere le migliori cure possibile. Questo per motivi organizzativi ed economici di sistemi sanitari pubblici nuovi, che stanno avendo solo da alcuni anni un progressivo miglioramento. Il problema dei costi delle cure oncologiche e della sostenibilità è comunque un problema globale, che coinvolge l’Europa e gli Stati Uniti e tutto il mondo sviluppato. Ed è particolarmente sentito soprattutto dove esiste un sistema sanitario pubblico ‘vero’ come il nostro, e dove giustamente si deve fornire a tutti i cittadini la stessa possibilità di salute, quindi di diagnosi e di cura.

E questo è un problema che ESMO si sta ponendo da tempo. Stiamo infatti lavorando insieme con l’UE e con le società scientifiche dei vari paesi europei (in Italia con l’AIOM) e con le associazioni di pazienti, per costruire ‘modelli’ che siano possibili e che permettano di fornire al paziente diagnosi e terapie sempre appropriate. Non è solo un auspicio. Nonostante i problemi strutturali in Italia, noi riusciamo ad offrire uno standard terapeutico adeguato e molto alto.
L’oncologia italiana ha raggiunto standard elevatissimi anche a livello di ricerca preclinica e clinica, ed è oggi tra le migliori del mondo. In alcuni campi vi sono eccellenze internazionali straordinarie. Tutto questo avviene nonostante minori (quasi la percentuale più bassa d’Europa) investimenti pubblici dello Stato a favore della ricerca, rispetto a molti altri Paesi europei, agli Stati Uniti, al Giappone ed oggi anche rispetto ad altri paesi emergenti come la Cina o la Corea.
Investire in ricerca in oncologia significa muovere il motore che porta al miglioramento della diagnosi e delle terapie. Esmo ha un gruppo di lavoro, che si è costituito quest’anno, per costruire dei ‘modelli’ che – pur molto generali perché possano essere applicabili a tutti i paesi europei (non dimentichiamoci che noi dobbiamo lavorare a livello transnazionale) – siano utili per indirizzare tutti i Paesi verso percorsi omogenei di garanzia della sostenibilità all’accesso alla diagnosi e alle cure. È un problema prioritario per ESMO. Su questo abbiamo predisposto di recente anche uno studio sulla ‘grandezza’ del beneficio clinico delle nuove terapie, quello che in inglese si chiama ‘clinical benefit scale of cancer treatment’ in cui abbiamo sviluppato parametri precisi per definire quanto i nuovi trattamenti aggiungano beneficio clinico rispetto ai trattamenti precedenti. Questo è basato soltanto sui risultati terapeutici e non sui costi. Quello che noi cerchiamo di fare è di capire anche come rendere sostenibile l’innovazione nella diagnosi e nella terapia del cancro. Una grande sfida. La grande sfida dei prossimi anni.

di Marco Durante, Direttore del Trento Institute for Fundamental Physics and Applications (TIFPA) dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) di Trento

 

Le radiazioni ionizzanti hanno sempre due aspetti contrastanti. Da un lato, esse rappresentano un rischio: l’esposizione a radiazioni può provocare tumori, malattie cardiovascolari, ed effetti ereditari. Dall’altro lato, esse sono uno strumento fondamentale per la diagnosi e la cura di varie patologie, compreso il cancro. 

Le radiazioni che sperimentiamo sulla terra sono in genere i raggi X per usi medici, e i loro effetti dipendono dalla dose: nella radioterapia, infatti, si distruggono i tumori con dosi altissime di radiazione, che ucciderebbero chiunque se fossero rilasciate a tutto il corpo.

Esiste un altro tipo di radiazione ionizzante: le particelle cariche (protoni e ioni pesanti) di alta energia. Questi nuclei si trovano nei raggi cosmici, ma sono schermati dal campo geomagnetico terrestre e dall’atmosfera e possono essere prodotti in grandi acceleratori di particelle, come quelli del CERN.

Anche queste “strane” radiazioni hanno un duplice aspetto: da un lato esse rappresentano un rischio per gli astronauti, che operando al di fuori della protezione terrestre sono esposti ai protoni e ioni pesanti solari e galattici. Dall’altro, essi rappresentano dei proiettili molto efficaci contro il cancro.

In cosa sono diverse le particelle cariche dai raggi X? Le prime attraversano la materia, e quindi provocano danni lungo le tracce, mentre i raggi X ionizzano in modo sparso ed uniforme. Inoltre, essi perdono gran parte della loro energia alla fine del loro percorso, il cosiddetto picco di Bragg. Se, ad esempio, portiamo una bambina in un negozio di caramelle e la trasciniamo (lo ione) correndo (alta energia), la bambina non riuscirà a raccogliere molte caramelle (elettroni). Ma esaurendo l’energia iniziale, comincerà a rallentare, e quanto più è lenta tanto più facile sarà raccogliere caramelle: finchè, carica di caramelle e senza più energia, si fermerà.

Questo processo fisico d’interazione radiazione-materia è ideale per la radioterapia: i tumori solidi si trovano in profondità, anche a 20-25 cm dalla pelle. Con il picco di Bragg, gran parte dell’energia viene depositata nel tumore. Con i raggi X la dose maggiore è invece quella sulla pelle.

E’ chiaro dunque che potremo distruggere meglio il tumore con i protoni che con i raggi X. L’unico limite al costo di questa terapia è il costo elevato, e anche sui rischi le incertezze sono ancora molto elevate.

Quanto agli astronauti, le misure effettuate dal Curiosity Rover della NASA, ci hanno dimostrato che la dose di radiazione in una missione su Marte sarebbe molto più alta di quelle limiti per qualsiasi lavoratore terrestre, e potrebbe esporre gli astronauti a rischi inaccettabili.

Un’ipotesi affascinante è quella di usare l’ibernazione. Ibernare gli astronauti può sembrare un racconto di fantascienza, ma i neurologi sono recentemente riusciti ad indurre stati di torpore in animali che in genere non vanno in ibernazione, come i ratti. Nello stato d’ibernazione gli animali diventano più radioresistenti. Un astronauta ibernato non avrebbe quindi solo i vantaggi del ridotto consumo e la riduzione dei problemi psicologici, ma anche un’elevata resistenza alle radiazioni cosmiche. Questo processo potrebbe essere utilissimo anche in radioterapia. Oggi i pazienti metastatici non possono essere trattati, perchè irradiare molte lesioni porterebbe a dosi inaccettabili agli organi. Ma se la radioresistenza venisse aumentata, si potrebbe pensare di ibernare i pazienti metastatici, distruggere tutte le loro metastasi con i protoni, e poi svegliarli, guariti.

E’ una ricerca difficile ed affascinante, che cerca di mandare l’uomo su Marte e, allo stesso tempo, di curare il cancro sulla terra. Chi scrive ha diretto per 10 anni un grosso laboratorio Helmholtz in Germania, dedicato a questi studi. Oggi io ed il mio team abbiamo deciso di portare questa ricerca in Italia, al Nord, dove si trovano gli unici centri. Sarebbe certamente bellissimo offrire questa terapia anche ai pazienti del Meridione.

 

di Adriana Oliva, Dipartimento di Biochimica, Biofisica e Patologia generale - Seconda Università degli studi di Napoli

Caratteristica comune nella formazione attuale dei medici laureati in Italia e in gran parte di Europa è una preparazione di tipo strettamente biomedico, basata su tutta una serie di nozioni scientifiche, con una pressoché totale assenza degli aspetti relazionali. La concezione biomedica porta a una visione strettamente tecnologica di organi e sintomi, trascurando gli aspetti psicologici.
Nel rapporto medico-paziente, quest'ultimo è stato, soprattutto in passato, identificato come una "persona che ha pazienza" piuttosto che come "una persona che patisce e soffre". Ed è proprio uno stato di “sofferenza” a spingere un paziente a consultare un medico. Può trattarsi di un malessere fisico o psicologico più o meno lieve fino ad arrivare ad una situazione di dolore fisico insostenibile. Nel momento in cui le due persone s'incontrano, il paziente chiede al medico non solo di mettere in campo le proprie competenze e la propria professionalità, ma anche, e talvolta soprattutto, la piena disponibilità all'ascolto, un dialogo improntato al rispetto e alla solidarietà, in una parola empatia. Quando compare una malattia, questa non si manifesta solo a livello fisico ma anche a livello psicologico: "curare" deve significare "prendersi cura" dell’intera persona.
Tuttavia il fenomeno diffuso dell'Internet Medicine, cioè della ricerca in rete di una risposta ai propri sintomi, e una talvolta eccessiva specializzazione degli operatori sanitari, associata alla parcellizzazione delle competenze, stanno contribuendo a non favorire un adeguato e ottimale dialogo medico-paziente. Le conoscenze cliniche sono indispensabili, ma non di per sé sufficienti a costruire la fiducia e a far nascere la speranza, senza le quali il paziente si ritrova solo.
Comunicare bene con i pazienti, ascoltarli, prendere in esame non solo i loro sintomi ma anche le loro ansie, non è solo un adempimento etico ma anche uno strumento di fondamentale importanza ed utilità nella diagnosi, nella terapia e nella guarigione.

Inoltre, l’umanizzazione del rapporto medico-paziente, che mette la persona al centro del processo di cura, porta a una riduzione delle denunce per malpractice e a un aumento della compliance del paziente nei confronti della terapia, e ha in ultima analisi come risultato il miglioramento della qualità di vita sia dei pazienti che dei medici.
Per raggiungere quest'obiettivo è necessario che avvenga un cambiamento netto nella formazione professionale dei medici, introducendo nel curriculum accademico, fin dal primo anno, dei corsi che consentano di acquisire delle competenze relazionali in Medicina.
È mia convinta opinione che una Scuola di Medicina debba prevedere, tra i vari corsi e attività che costruiscono le basi nozionistiche per la futura professione, anche un corso dedicato istituzionalmente al rapporto/dialogo medico paziente, a cui moltissimi studenti di Medicina sono impreparati e che invece sarebbe assolutamente auspicabile, per loro stessa ammissione.
In quest'ottica da diversi anni, organizzo nell'ambito dell'ARFACID (Associazione di Solidarietà Sociale e di Promozione degli Studi sul Cancro, l'Invecchiamento e le Malattie Degenerative) turni di volontariato di nostri studenti del primo biennio presso alcune nostre strutture del centro storico: i riscontri a quest'attività sono entusiastici.
Un'altra iniziativa molto apprezzata dagli studenti è l'ADE "Il dialogo medico-paziente", a cui presta la sua costante e preziosa collaborazione la dott.ssa Rosa Ruggiero, dirigente medico dell'ASL Napoli 1 Centro e docente di “Comunicazione medico-paziente” in un Master dell’Università “Federico II”.
Al di là del CFU che viene assegnato ai partecipanti all'ADE, e che certamente fa comodo, ho visto un grande interesse da parte degli studenti che mi è stato testimoniato sia al momento dello svolgimento dell'ADE sia successivamente con numerose mail di apprezzamento per questa iniziativa.
In conclusione, mi sono convinta sempre più in questi ultimi anni che una Scuola di Medicina dovrebbe, a partire dal primo biennio, cominciare a formare degli operatori in grado di interagire in maniera corretta, rispettosa ed empatica con i pazienti, e su questa base poi costruire figure professionali tecnicamente valide.

di Giuseppe Paolisso, Rettore della Seconda Università degli studi di Napoli

Le recenti affermazioni del Presidente Cantone del legame tra «corruzione e fuga dei cervelli» all'Università impongono una serie di riflessioni su alcuni aspetti del sistema universitario italiano che possono essere alla base della fuga dei cervelli.

Il meccanismo di reclutamento con cui opera il sistema universitario è sicuramente un aspetto delicato su cui riflettere. Che l'affermazione del presidente Cantone ha una base concreta e reale e fuori discussione anche se va forse intrepretata in maniera meno giuridica ed un poco più procedurale il termine corruzione. In effetti, il sistema universitario parte dal convincimento che la cooptazione è il «primum movens» per la valutazione di un qualsiasi reclutamento. Cioè il conoscere prima le qualità e le attitudini di chi si va a reclutare, si considera possa produrre più vantaggi che svantaggi per l'università che ha deciso di avvalersi di una di determinata tipologia di figura professionale. Tutto questo non avrebbe nessun impatto giuridico se il sistema universitario utilizzasse un metodo trasparente come quello degli Usa o di altre sistemi europei ed extraeuropei in cui le università scelgono chiaramente tra un rosa di candidati pre-individuati, chi è il piu idoneo a ricoprire quel determinato ruolo utilizzando anche come referenze lettere di raccomandazioni che in effetti sono presentazioni con assunzione di responsabilità da parte di chi sottoscrive la presentazione.

Il sistema italiano invece prevede un concorso pubblico in cui spesso si scontrano la volontà di cooptazione dell'università, la qualità dei partecipanti, i ruoli di organismi extrauniversitari come i vari Collegi delle diversi discipline i cui i docenti universitari sono suddivisi. Il mix che ne deriva non è sempre privo di problemi e da ciò nasce quello che il presidente Cantone chiama con termine tecnico corruzione.

Non si tratta quindi di corruzione finalizzata ad un indebito arricchimento o ad altri reati ma di una cattiva gestione di un processo amministrativo stabilito per legge che è il concorso universitario. Questo ovviamente ed indubbiamente scoraggia il rientro e favorisce la fuga dei cervelli. Ma questo è il solo motivo?
Io non credo. Esistono, secondo me, altre due forti considerazioni che vanno fatte, altrimenti basterebbe modificare le leggi e tutto sarebbe risolto. Un punto forte alla base della fuga dei cervelli è sicuramente anche il sottofinanziamento salariale, soprattutto dei ruoli di Ricercatore.

Uno studente universitario che vuole intraprendere la carriera universitaria dopo la laurea spesso si iscrive ad un dottorato di ricerca della durata di 3 o 4 anni durante il quale non infrequentemente trascorre un periodo all'estero, poi torna in Italia ed attende la possibilità di partecipare ad un concorso di Ricercatore mantenendosi attraverso gli assegni di ricerca spesso sottopagati e estremante precari perché devono essere rinnovati annualmente su fondi non sempre disponibili. Quando infine dopo lunghe tribolazioni personali e lavorative riesce a occupare una posizione di Ricercatore (che oggi in Italia è a tempo determinato essendo il ruolo di professore Associato il primo nella scala gerarchica accademica a tempo indeterminato) guadagna tra i 1200 e 1700 euro al mese in relazione alla sua scelta di optare per il tempo pieno o definito. Ma i cervelli non sono un patrimonio dell'Italia ma del mondo ed la ricerca come tante altre cose ha un mercato globale. Quindi dobbiamo confrontarci con il resto del mondo. Gli Usa in assoluto sono la meta economicamente più vantaggiosa per un ricercatore: il potere d'acquisto di uno stipendio annuo lordo americano supera di qualcosa come 22 mila euro quello medio europeo (considerando sia il settore pubblico sia il privato). E il vantaggio per chi sceglie Australia e Giappone è di poco inferiore (e sempre maggiore di 20 mila euro). Non solo: pure l'India paga gli scienziati un buon 10% in più dell'Ue dei 25, in rapporto al costo della vita. Quindi se è vero che il sistema italiano non sembra selezionare sempre i migliori è pur vero che i migliori non sono incentivati a restare in Italia.

Un ultimo punto che mi sembra importante rilevare riguarda il sottofinanziamento della ricerca. Nel quadrienno 2011-2014 i fondi dedicati in Italia alla ricerca e sviluppo sono stati il 127% del Pil contro il 2.23% dei paesi Ocse ed il 1.92% della UE a 28. I privati hanno negli ultimi hanno leggermente incrementato il loro investimento attestandosi in circa lo miliardi di euro annui ma siamo bel al disotto della media UE a 28 ma soprattutto di Gran Bretagna, Francia e Germania le locomotive dell'economia europea, Brexit a parte. Come si vede siano ben al di sotto di quanto un paese che vuole svilupparsi dovrebbe investire. E' questa una situazione che favorisce la fuga dei cervelli o no? Io penso proprio di si. Se questa in estrema sintesi e in larga approssimazione la situazione ben vengano le affermazione del presidente Cantone che sono un monito al mondo universitario italiano e servono ad una presa di coscienza sullo stato dei fatti, ma la fuga dei cervelli, è un malattia italiana multifattoriale che come sempre accade in medicina ha bisogno di un approccio multidisciplinare.

 

di Dario Tedesco, Docente di Geochimica e Vulcanologia del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Ambientali, Biologiche e Farmaceutiche (DiSTABiF) della Seconda Univesità degli studi di Napoli

 

Sembrava un remake della scossa del 23 Novembre 1980, quando tutti i muri di casa all’improvviso cominciarono a vibrare e solo dopo numerosi lunghissimi, furono veramente tanti, secondi tutto si placò. Le crepe erano e sono ancora visibili, almeno in un paio di stanze di casa dei miei genitori a Napoli.

Il 24 Agosto 2016 in piena notte quando la stanza ha cominciato a tremare, nella mia casa di Roma, ho avuto la sensazione di essere tornato indietro di tanti anni e di rivivere un esperienza già fatta.

La prima impressione è stata quel senso di indecifrabile incomprensione su quanto stesse accadendo: è certamente stata una scossa … ma dove? Per un attimo ho pensato ai Colli Albani, poi ho deciso nonostante il sonno di saperne qualcosa in più e di conoscere l’amarissima verità. Alto Lazio, nel Reatino in particolare, tra Lazio, Marche e Abbruzzi. Paesi come Amatrice, Accumoli e Arquata, spazzati via dalle carte geografiche.

Le case crollate, le persone che mancano all’appello ed una desolazione sempre difficile da mettere in conto, questo è il solito bilancio di un evento naturale drammatico come un terremoto. Non c’è tempo per pensare, per prepararsi per mettersi se stessi ed i propri cari al riparo dall’evento.

Sempre dopo ogni evento naturale è prassi oramai consolidata cercare colpevoli, inadempienze strutturali ed azioni criminali, di chi avrebbe dovuto fare e non ha fatto, o peggio non ha fatto secondo le regole. Si parla subito di disastro colposo, di errori di costruzione, di tecniche non adeguate e certamente di materiali sbagliati non idonei a sopportare scosse di tale energia.

Ma siamo sicuri di tutto questo?

Uno sguardo al catalogo degli eventi sismici tanto per dire dal 1900 ad oggi, ci propone una sequenza ininterrotta di terremoti, che molto spesso si sono ripetuti, talvolta con M diverse nelle stesse aree. Quello che colpisce è che nessuna area italiana, anche quelle considerate a basso rischio, sono immuni dall’essere colpite da scuotimenti della crosta terrestre. Escludiamo da queste aree la sola Sardegna. Le alpi, soprattutto l’area Friulana-Slovena, tuttia l’area appenninica, da quella più a nord Tosco-Emiliana sino alle montagne Calabresi e Siciliane, passando per l’appennino campano-laziale, umbro marchigiano e abruzzese – molisano. Perfino la tranquilla Puglia non è stata risparmiata, anche in tempi recenti, da brutali scosse che hanno lasciato dietro di loro, vittime e i soliti immancabili strascichi di polemiche

Il grosso problema è che l’uomo, ancor più spesso il politico, ha memoria molto corta e dunque tende, sarebbe meglio dire tendiamo, a ricordare gli eventi più recenti, ma cerchiamo, forse inconsciamente ad allontanare da noi quelli avvenuti solo alcune decine di anni fa.

Quindi ritornando al catalogo sismico relativo all’ultimo secolo o poco più, risulta stupefacente che siano stati tantissimi gli episodi relativi a dannosissime scosse di terremoto. Ricordiamone alcuni, giusto perché ritorni a tutti la memoria di quanto accaduto. Su tutti gli eventi, i 100,000 morti del terremoto di Reggio e Messina nel 1908 con una M di 7,24 risulta l’evento più disastroso che il nostro paese ha vissuto. Questo terremoto ha ricevuto un “avvertimento” da 5.9 di M solo l’anno prima (1907) ed una precedente scossa, ma meno devastante del 7,24 M di 7.06, sempre nella stessa area nel 1905. Avezzano e la Marsica nel 1913, con una M di 6,99 hanno pianto ben 30.000 vittime. Invece io credi di aver memoria dei telegiornali dell’epoca che mostrano immagini della Valle del Belice nel 1968 con un sisma di M 6.12, che precede l’avvento dei media nelle catastrofi naturali. Gli eventi sismici devastanti diventano di pubblico dominio nel 1976 in Friuli con due principali e micidiali scosse di 6.43 e 5,91 di magnitudo, con la seconda avvenuta a distanza di 4 mesi dalla prima e circa 1000 vittime. La Valnerina nel 1979 con una magnitudo di 5,9 precede, quello decisamente più devastante dell’Irpinia 6.7 nel 1980, che lascio’ sul terreno circa 2914 vittime. In Irpinia però gli anziani ricordavano sia per averlo direttamente vissuto sia per averne sentito parlare, un evento sismico altrettanto forte, 6.72 di M nel 1930 ed un terzo di M 5.84 nel 1910. Sempre nelle stesse aree. Non sembrano esserci dubbi, non è un caso, che in alcune aree eventi sismici particolarmente forti, si ripetono con feroce ciclicità anche con scadenze ravvicinate. Altra scossa a nord della Sicilia, nel Golfo di Patti di M 6.06 avvenne nel 1978. Questo evento è stato ritenuto responsabile di aver ridestato l’apparato vulcanico dell’isola di Vulcano con un veloce aumento delle temperature e variazioni chimiche che fecero temere una nuova drammatica eruzione.
Gli ultimi eventi, nel 1997 l’evento che prenderà il nome da Col Fiorito e Assisi o quello nel 2002 a San Giuliano di Puglia quello all’Aquila nel 2009 ed infine nel 2012 un evento di M 5.9 colpisce le province di Modena e Ferrara.

Nei nostri, napoletani e ischitani, ricordi orali, nei modi di dire, si menziona anche un terremoto spesso dimenticato ma di inaudita violenza e che a dispetto della bassa magnitudo, ma piuttosto della sua superficialità nel 1883 a Casamicciola (comune di Ischia) causò la morte di oltre 2313 persone. Un evento straordinario e di una drammaticità unica per le condizioni nelle quali avvenne e per la lentezza dei soccorsi. Questo evento fu preceduto due anni prima da un'altra scossa di magnitudo simile che aveva causato la morte di 126 persone.

Quindi la ricorrenza di questi avvenimenti, meno potente negli anni precedenti e più violento in seguito, sembra essere una preoccupante consuetudine.

Alcuni specialisti hanno cercato, purtroppo con risultati non brillanti, di spiegare ad ascoltatori affamati di informazioni corrette e soprattutto affidabili, un problema di cui parlano spesso i sismologi ovvero l’effetto di sito … cosa sarebbe? Lo si spiega facilmente, indipendentemente dall’energia dell’evento, dal fatto che due case costruite in maniera analoga, una viene completamente distrutta, mentre l’altra non subisce danni maggiori. E’ il sito, ovvero il basamento geologico sul quale la casa è costruita che rispondendo alle sollecitazioni delle onde sismiche provoca o meno la distruzione della casa. In pratica in funzione del materiale su cui poggia la casa, a parità di energia del sisma, ci sono maggiori o minori possibilità che questa rimanga in piedi o venga completamente rasa al suolo.

In un paese all’avanguardia come il nostro, studi di questo tipo possono e devono essere messi in opera. Certamente permetteranno di risparmiare e salvare vite umane. Quindi qualunque sia l’area del nostro paese in esame, ogni amministrazione locale, certamente aiutata dal governo centrale, dovrebbe avere il coraggio e la forza di cominciare a comprendere la qualità degli edifici, la loro messa in sicurezza e soprattutto studi appropriati su dove sono costruiti. Si tratta di un progetto di lungo termine e certamente costoso, molto costoso. Ma, ripensando ai tanti lutti e ai costi di circa un ordine di grandezza superiori utilizzati per le tante ricostruzioni e la perdita di un patrimonio artistico ingentissimo, possiamo certamente dire che ne vale la pena.

Un’ultima cosa, i terremoti non si prevedono, questo dovrebbe essere detto prima di ogni altra discussione. Negli ultimi 50 anni, in diversi paesi sono stati elargiti fondi importantissimi, Giappone e Stati Uniti in primis, per cercare di trovare parametri, fisici e chimici, che spieghino e soprattutto anticipino un evento sismico di grande magnitudo. Malauguratamente questi studi, nonostante le capacità dei ricercatori coinvolti, non hanno dato i risultati sperati. La paucità degli stessi ha bloccato se non addirittura prosciugato il flusso di fondi stanziati in questo settore.

A mio avviso, nonostante il deficit di certezze su possibili eventi premonitori, dovrebbe esistere un programma nazionale (possibilmente internazionale) che tenga conto di alcuni piccoli passi avanti fatti in questo campo negli ultimi trenta anni, permettendo ad alcuni ricercatori di portare avanti nuove ricerche e nuove idee, anche in funzione delle tante delusioni sui precedenti progetti. Questi studi potrebbero dare comunque un contributo importante nel migliorare le nostre conoscenze in questo settore. Sarebbe criminale non farlo.

 

di Roberto Marcone, Dipartimento di Psicologia - Seconda Università degli studi di Napoli

Il rientro a scuola dopo le vacanze estive per alcuni bambini può essere motivo di ansia e preoccupazione. La lunga pausa estiva, il cambiamento di ritmi e abitudini e, talvolta, un ricordo non del tutto piacevole del passato anno scolastico, possono portare il bambino (e la sua famiglia) a vivere con preoccupazione e anticipazione ansiosa l’avvicinarsi del primo giorno di scuola.
Se per gli studenti di scuola secondaria queste sensazioni sono riconosciute e le strategie metacognitive per il superamento di tale ansia anticipatoria oramai rodate, ciò può non valere per i bambini della scuola primaria: essi hanno ancora bisogno di un supporto adulto che li guidi nei primi giorni di rientro. Ovviamente, la maggior parte dei bambini e dei ragazzi vive tali momenti con un livello d’ansia normale o, spesso, con crescente curiosità e voglia di rincontrare i compagni e gli insegnanti, gli spazi e i luoghi che quotidianamente hanno vissuto fino a un paio di mesi prima. Ciò non toglie che altri bambini non riescano a vivere il momento del rientro con tale tranquillità, e questo può diventare un disagio che coinvolge tutta la famiglia.
Prima di entrare nel merito, però, è necessario sottolineare due aspetti: 1) al pari degli adulti, anche i bambini risentono del termine di un periodo di vacanza ove le restrizioni, i compiti (non solo didattici), gli orari e gli impegni sono ridotti e dilazionati, lasciando il posto al divertimento puro, allo svago, a un minor auto ed etero controllo, a una riduzione delle richieste performative; 2) ogni situazione-sistema (bambino-famiglia-scuola) andrebbe trattata e discussa specificamente. In ultimo, la scuola dell’infanzia così come i passaggi di grado in prima elementare o in prima media (conservando la vecchia dicitura) risultano essere ancor più peculiari come situazioni che diverrebbe impossibile trattarle genericamente in questa sede.
Ciò posto, è possibile comunque proporre qualche suggerimento generale su come affrontare le ansie e le paure del rientro a scuola.

 

Il ruolo degli insegnanti

Mi preme innanzitutto sottolineare l’importanza fondamentale degli insegnanti nello straordinario percorso di crescita che i bambini affrontano negli anni della prima scolarizzazione. Gli insegnanti devono essere i primi alleati dei genitori: a loro vanno rivolti dubbi e domande; a loro vanno chiesti i primi consigli e le informazioni su come realmente è nostro figlio in classe. Spesso i genitori assumono un doppio legame con gli insegnanti: da un lato gli affidano il proprio bambino, dall’altro ritengono che, però, solo loro genitori possano realmente capirlo e comprenderlo. È necessario, invece, abbandonare l’idea che nostro figlio possa stare bene solo in nostra presenza e affidarsi a coloro i quali passano con nostro figlio dalle trenta alle quaranta ore a settimana. Spesso, il bambino descritto dagli insegnanti non assomiglia a nostro figlio così come lo conosciamo a casa. Questo perché nostro figlio sta (faticosamente, e diamogliene atto) cercando di costruirsi una propria identità all’interno di un sistema nuovo, extra familiare.
Inoltre, la metodologia didattica utilizzata dalla grande maggioranza delle scuole primarie riflette ancora un’antica concezione di scuola come luogo principale di apprendimenti didattici avulsi, pretendendo da subito atti performativi che, talvolta, risultano essere eccessivamente ansiogeni per i bambini. Tale metodologia potrebbe spingere alcuni bambini verso una cattiva competizione con relativo abbassamento della propria autoefficacia. Del resto, anche in questo caso, lo scambio di informazioni tra genitori e insegnanti è strettamente legato al «Come va a scuola?»; «Ha imparato le tabelline?»; «Commette ancora tanti errori di ortografia?». Ci si dimentica troppo spesso che i primi anni di scolarizzazione sono invece fondanti per lo sviluppo delle competenze sociali, ossia dell’apprendimento di usi, regole comuni e strategie di interazione sociale che solo un ambiente extra familiare può garantire. Solo uno scambio franco e basato sulla reciproca fiducia tra genitori e insegnanti può portare e supportare l’importante percorso di crescita che stanno affrontando i bambini.

 

Il ruolo del metodo didattico

Per alcuni bambini, il metodo prettamente didattico-performativo offerto dalla didattica tradizionale può risultare “antipatico” e frustrante, facendo nascere in questi la voglia di non andare a scuola o l’ansia anticipatoria dovuta alla preoccupazione di doversi recare in un luogo ove, da subito, è richiesto un atto performativo giudicante. Invero, esistono tante altre scuole pubbliche con metodologie didattiche non tradizionali (il “Metodo Naturale” di Freinet, per esempio, o anche il “Metodo Montessoriano”) che possono risultare maggiormente stimolanti e meno frustranti per determinati bambini, ottenendo così risultati straordinariamente interessanti dal punto di vista dello sviluppo di tutte le competenze, ivi comprese quelle didattiche, ovviamente. Diversamente da quando eravamo piccoli noi (la scuola non si sceglieva: si andava a quella più vicino casa), oggigiorno i genitori hanno la facoltà di scegliere la “giusta” scuola che risalti i talenti e le caratteristiche del proprio figlio. Farlo è abbastanza semplice: frequentare i diversi Open-Day organizzati dalle scuole; incuriosirsi e studiare le caratteristiche che vengono proposte nei diversi Piani Triennali dell’Offerta Formativa (PTOF) da ogni singola scuola.

 

Il ruolo dei genitori

Strettamente connesso col primo punto, il ruolo parentale nel supporto e nella moderazione dell’ansia e delle preoccupazioni è fondamentale. Gli anni della scuola primaria, e ancor più gli anni della scuola dell’infanzia, rappresentano un primo reale passaggio del bambino dal mondo familiare al mondo esterno. È in questi primi anni di scuola che il bambino è chiamato ad acquisire, sviluppare e mettere in pratica le proprie competenze sociali, le proprie strategie di interazione sociale, le proprie capacità di essere con gli altri, di rispettare l’autorevolezza di figure adulte diverse dai propri genitori e, contemporaneamente, di rispettare temperamenti e personalità diverse dalle proprie nell’interazione coi pari. Il bambino inizia a costruirsi i propri spazi e a salvaguardarli. Alcuni genitori mi riferiscono che il loro figlio non racconta loro nulla della scuola e che risponde a monosillabi o si arrabbia se essi insistono col chiedergli com’è andata la giornata. Ciò che spiego loro è che, probabilmente, il loro figlio sta cercando con tutte le proprie forze di costruirsi uno spazio privato, il primo, fatto di cose e di persone diverse da ciò che trova a casa; ovviamente questo comporta una prima iniziale difesa strenua del proprio spazio, una prima reale richiesta di indipendenza e di crescita.

I genitori devono imparare a rispettare tale implicita richiesta e indagare con molta discrezione, sfruttando la curiosità e gli aneddoti, senza insistere troppo con domande dirette. Qualora si nutrissero, invece, dubbi e preoccupazioni, come già detto, i primi interlocutori dovranno essere gli insegnanti (senza la presenza del bambino!).
Calmierare e moderare l’ansia da rientro non è cosa facile. Innanzitutto, si tende molto spesso a sminuire le ansie e le preoccupazioni espresse dal bambino. Il nobile intento genitoriale di sdrammatizzare l’importanza e il peso avvertito dal bambino si scontra con il risultato opposto: avere da parte del bambino la sensazione di non essere compresi dai propri genitori. Più che sminuire e sdrammatizzare, occorrerebbe allora fermarsi ad ascoltare più approfonditamente cosa preoccupa il bambino e farsene carico. Spesso il racconto sarà confuso, il bambino non sa bene cosa lo spaventi; spesso è ambivalente tra le emozioni positive di ritrovare un gruppo di amici e quelle meno positive di ritornare in un luogo talvolta stressante e ansiogeno. Accogliamo e supportiamo questa preoccupazione, suggerendo piccole strategie, chiedendo a nostro figlio di raccontarci qualche episodio buffo capitato l’anno prima, qualche aneddoto che lo ha visto protagonista in positivo. Soprattutto, arricchiamo il suo racconto con nostri aneddoti personali, i nostri ricordi di infanzia, ivi comprese le nostre paure e le nostre ansie (è del tutto evidente che non ne abbiamo un ricordo così vivido, ma possiamo facilmente immedesimarci in quelle di nostro figlio, o no?). Il bambino può sentirsi immediatamente rassicurato se sa di condividere la stessa sensazione coi propri genitori, anziché sentirsi dire «Ma dài! Vedrai che poi ti passa!»; «Ma su, non è nulla!». Ricordate che non tutti i bambini sono disposti a parlare apertamente, un po’ per volontà (cfr. supra), un po’ per “confusione”. Accompagnate i loro racconti senza mai essere invasivi, senza mai pretendere maggiori spiegazioni.
Un secondo importante aspetto, a mio parere, è quello di non far vivere la scuola sulla base di premi e punizioni. Il bambino non va premiato estrinsecamente per i successi (beni materiali), né punito per gli insuccessi. Ogni nuovo apprendimento, ogni nuova conoscenza, ogni aneddoto che vostro figlio riporterà a casa dovrà essere vissuto emotivamente come importante, ascoltando qual è stata la sua esperienza e le sue sensazioni. Una cosa è mettere delle regole: «Prima si fanno i compiti e poi si gioca i videogiochi», altro è premiare estrinsecamente il comportamento adeguato «Se fai bene i compiti potrai giocare ai videogiochi». Ancor peggio sarebbe infierire su un insuccesso scolastico: niente punizioni o castighi, il bambino deve sapere immediatamente che a casa può trovare persone pronte ad accoglierlo nel successo come nell’insuccesso. Come sopra, anche in questo caso il miglior modo per stemperare è ascoltare cosa ha da raccontarci il bambino (se ne ha voglia) o, in caso di preoccupazione o dubbi, rivolgersi direttamente agli insegnanti senza coinvolgere direttamente il proprio figlio.

Tra le pratiche parentali che spesso ascolto nei colloqui con i genitori, v’è il “premio” di non andare a scuola il giorno del compleanno. Ma come? Privare il proprio figlio della possibilità di festeggiare con i propri compagni? E, contemporaneamente, insinuare a nostro figlio che il non andare a scuola è un regalo, un premio? Piuttosto, proprio con i bambini che maggiormente soffrono la quotidianità della vita scolastica, il giorno del compleanno dovrebbe essere ben organizzato in anticipo in accordo con gli insegnanti sì da farlo diventare un giorno speciale da vivere (anche) a scuola.
Legato a questo secondo punto, è bene sottolineare come il compito primario degli adulti (genitori e insegnanti) in questa situazione specifica sia quello di far vivere la scuola come un piacere e non come un obbligo. Il bambino deve quotidianamente riconoscere nell’esperienza scolastica il suo mondo: amici, adulti autorevoli, esperienze e continue nuove conoscenze. Molti genitori mi raccontano come per i propri figli «L’ha detto la maestra» diventa cassazione: inappellabile, indiscutibile. I genitori devono supportare tale convinzione, devono alimentare l’idea che gli insegnanti siano i portatori del sapere e mai insinuare nel bambino che essi siano “cattivi” e “non preparati”. Se un genitore ha un fondato sospetto sull’inadeguatezza dell’insegnante, cambi scuola, ma non insinui tale dubbio nel proprio figlio.

La scuola va vissuta in pieno, sempre: i nostri bambini devono essere presenti il più possibile, andare fino all’ultimo giorno di scuola, non uscire mai in anticipo. L’obiettivo dovrà essere questo. Solo così sarà possibile far vivere loro questa esperienza come la migliore possibile. Non sto affermando che il compito sia facile, ma non è impossibile: ho visto e conosciuto molti più bambini contenti di andare a scuola di quanti ne ho incontrati demotivati e demoralizzati. Questi ultimi avevano vissuto esperienze negative e non avevano ricevuto l’adeguato sostegno dalle figure adulte (non solo genitoriali); una volta presi in carico, nel giro di un anno la grande maggioranza di loro ha mostrato grande interesse per la scuola, vivendone appieno tutti gli aspetti positivi e imparando a gestire le frustrazioni e gli aspetti per loro meno accattivanti.

 

In sintesi:

  • Gli insegnanti devono essere i nostri primi interlocutori: parliamo con loro delle ansie e delle preoccupazioni e facciamoci consigliare ovvero stipuliamo in accordo con loro un progetto per favorire la migliore partecipazione possibile alla vita scolastica di nostro figlio.
  • Laddove possibile, scegliamo i metodi didattici che più confanno ai talenti e alle caratteristiche temperamentali e di personalità di nostro figlio.
  • Non sminuiamo mai le loro ansie: accogliamole e supportiamoli ascoltando le loro parole, dando importanza alle loro preoccupazioni. Coloriamo i loro aneddoti con la nostra esperienza di quando eravamo piccoli. Non diciamo mai «Non è nulla, non ti preoccupare», perché loro sono già preoccupati e ci stanno chiedendo aiuto.
  • Rispettiamo i loro “non detti”. Indaghiamo con cautela, senza mai essere troppo invasivi. Lasciamo che siano loro a scegliere cosa raccontarci e cosa no. Se abbiamo sospetti importanti, rivolgiamoci agli insegnanti.
  • Non educhiamoli attraverso modalità estrinseche: niente premi e punizioni. Rinforziamo le loro nuove esperienze e conoscenze facendocele raccontare nei dettagli, facendo sentir loro che hanno fatto una cosa importantissima e che noi siamo molto fieri di loro. Non puniamoli per gli insuccessi, ma supportiamo le loro difficoltà con la nostra presenza e la nostra comprensione, raccontando loro qualche episodio di insuccesso capitato a noi e di come poi sia stato risolto.
  • Inculchiamo ai bambini l’idea che la scuola è la loro esperienza di vita più bella: il premio dev’essere andare a scuola non saltarla il giorno del compleanno o perché il nonno vuole stare con il nipote.

 

 
 

di Marcellino Monda, docente di Fisiologia della Seconda Università degli studi di Napoli

Dopo gli sforzi fatti per superare la famosa “prova costume” si è soliti lasciarsi un po’ andare durante le vacanze: hotel, bar e ristoranti, infatti, ci forniscono innumerevoli tentazioni, fresche e golose, alle quali è difficile resistere. Nessun problema, ecco alcuni pratici consigli per rimettersi in forma dopo l’estate.
1)    Bere almeno 1,5 litri di acqua al giorno: bere molto infatti aiuta a depurarsi e a mantenere in efficienza le funzioni fisiologiche.
2)    Mettersi in moto: l’esercizio fisico è necessario per rimettersi in forma. Basta anche una semplice camminata. I 10.000 passi al giorno di cui sentiamo tanto parlare, infatti, sono un toccasana, soprattutto se effettuati a passo sostenuto. Per i più atletici 30min di corsa o di bici a una buona velocità, permettono di bruciare anche 200/250kcal.
3)    Diminuire i grassi: se per qualche settimana ci siamo fatti tentare da gelati o semifreddi, è il momento di ridurre l’apporto calorico proveniente da grassi. Per i golosi che non riescono a farne a meno, due quadratini di cioccolato fondente una volta al giorno andranno benissimo.
4)    Preferire i cereali integrali ed i legumi: apportano fibre utili all’organismo. Vanno, comunque, utilizzati in modo moderato per ridurre l’apporto calorico.
5)    Pesce almeno 3 volte a settimana: soprattutto quello azzurro, è ricco di proteine e di acidi grassi essenziali. E’ leggero e più digeribile rispetto alla carne.
6)    Carne: per quanto riguarda la carne, è meglio consumarne di bianca, più magra di quella rossa che può essere tuttavia utilizzata una volta a settimana.
7)    Latte e derivati: utilizzare i prodotti magri, ricchi di calcio ma poveri di grassi.
8)    Verdure: non potevano mancare. Il “must” di tutte le diete, in quanto forniscono senso di sazietà e rispettano un basso rapporto calorie/quantità. 100 gr di insalata verde, infatti, apportano solo 20kcal. Vuol dire che 500 gr di insalata equivalgono ad una comune barretta che troviamo in commercio.
9)    Frutta: 4-5 porzioni al giorno; a pranzo, a cena e come spuntino rappresentano un notevole contributo al raggiungimento del nostro obiettivo. Fresca e dolce, è molto buona e fornisce un buon senso di sazietà. Comunque, attenzione a non superare le porzioni consigliate.
10)    Diminuire il condimento: l’olio extravergine d’oliva è sicuramente un ottimo condimento, da preferire sicuramente ad altri tipi di grassi. Tuttavia, bisogna essere parsimoniosi: tre-quattro cucchiaini al giorno andranno benissimo.
11)    Sale: meglio tenerne sotto controllo il consumo. Un suo elevato utilizzo può favorire la ritenzione idrica e far aumentare la pressione arteriosa. Prediligere le spezie per rendere gustose le pietanze.
12)    Zucchero: una bustina di zucchero apporta circa 30kcal. Per gli amanti del caffè, ad esempio, che ne consumano minimo 3 tazzine al giorno, vi è un aggiunta, senza accorgersene, di  circa 90kcal.
13)    Un ultimo importante consiglio: se c'è da perdere più di 3-4 kg, è conveniente affidarsi a "mani esperte".
La SUN annovera tra le sue strutture sanitarie l'Unità Operativa Complessa di Dietetica e Medicina dello Sport , che è unica nel suo genere. In tale struttura sono coniugate competenze professionali di Scienze Nutrizionali con quelle di Medicina dello Sport, tali da poter perseguire il raggiungimento del Benessere mediante una sana alimentazione e una controllata attività motoria.

di Elisabetta Fulgione Specialista in Dermatologia e Venereologia presso l'Unità Operativa Complessa della Clinica Dermatologica Seconda Università degli Studi di Napoli - Coordinatrice Campania SIME

Il sole e la salsedine  possono mettere a dura prova la salute e la bellezza della nostra pelle anche osservando tutte le precauzioni consigliate per una corretta esposizione. Per questo motivo al rientro dalle vacanze è necessario “coccolare “ la nostra cute che può apparire particolarmente disidratata e segnata.

Che fare, dunque ? Ne abbiamo parlato con la dott.ssa Elisabetta Fulgione dermatologa e Coordinatrice Campania SIME

Gli agenti atmosferici quali il sole, il vento, la sabbia, la salsedine possono disidratare la pelle rendendola più secca e desquamata. VERO
“Assolutamente vero - afferma la dottoressa Fulgione, in realtà oltre agli agenti atmosferici che agiscono sulla cute tutto l’anno ( sole, vento, umidità, inquinamento atmosferico etc ) l’ esposizione prolungata ai raggi UV in estate, al mare come in montagna o in piscina,  provoca una maggiore perdita di idratazione accelerando la comparsa dei danni da photoaging”. “Basti pensare - precisa la specialista - che approssimativamente il contenuto d’acqua della pelle in condizioni normali  passa da un 70%  del derma (strato più profondo) al 20-35% dello strato corneo (lo strato più superficiale della cute). Una riduzione , causata da agenti atmosferici di questa percentuale  può provocare  uno stato di “sofferenza”  della pelle facendole perdere le caratteristiche di morbidezza, elasticità e rendendola secca e desquamata.

La disidratazione e le prolungate esposizioni solari sono fattori di rischio per l’invecchiamento cutaneo e la comparsa delle rughe. VERO
"I raggi UV possono raggiungere il derma e alterare il Dna  delle cellule: questi danni possono essere riparati oppure determinare la morte cellulare. La prolungata esposizione al sole provoca, inoltre, un accelerazione dei processi d'invecchiamento cutaneo determinando un aumento della produzione di radicali liberi, degenerazione dell’ elastina e del collagene (proteine che danno sostegno alla pelle) favorendo  la comparsa di rughe , di pieghe d’espressione, di solchi più visibili  e profondi e di una pelle meno " luminosa".  Infine tra gli effetti tardivi del sole si possono osservare anche alterazioni dei meccanismi di difesa della barriera cutanea e la comparsa di iperpigmentazioni ( macchie scure ). In parole semplici - aggiunge l'esperta - troppo sole fa invecchiare".

L’applicazione di una buona crema  consente di idratare tutti gli strati della pelle in maniera adeguata. FALSO
“In realtà non è proprio così - spiega la dottoressa - dal punto di vista cosmetologico è difficile interferire con il contenuto d’acqua degli strati più profondi della pelle ed infatti la maggior parte dei trattamenti idratanti che applichiamo sulla nostra pelle riescono ad  agire solo sull’idratazione dello strato più superficiale ovvero lo strato corneo. Il compito principale delle creme idratanti rimane quello di evitare l'evaporazione e la dispersione dell'idratazione cutanea - ricorda la dermatologa - per questo è necessario imparare a coccolarsi in maniera corretta con piccoli gesti quotidiani per ristabilire la salute della cute dopo il tour de force a cui la sottoponiamo nella stagione estiva.

Una corretta detersione ed una giusta idratazione sono due gesti essenziali  per il ripristino di una pelle disidratata. VERO
"La detersione corretta rappresenta il primo momento fondamentale per evitare di peggiorare lo stato di disidratazione che si presenta al rientro dalle vacanze. La pelle va infatti nello stesso tempo coccolata e stimolata a rinnovarsi . La detersione ideale - spiega la dott.ssa Fulgione - prevede l' utilizzo di creme  oppure oli detergenti che rispettino la fisiologia della pelle mentre il rinnovamento cellulare può essere stimolato con uno scrub, preferibilmente meccanico, che andrà ad agire sullo stato più superficiale della pelle. La scelta della crema idratante non potrà prescindere dalle caratteristiche specifiche dei diversi tipi di cute - spiega la dermatologa - ma tra i dermocosmetici più utili per ripristinare le caratteristiche di normalità di una pelle stressata dal sole certamente vanno preferiti quelli che contengono molecole capaci di attirare nl’acqua come, ad esempio, acido ialuronico, urea, allantoina, acido lattico o con azione elasticizzante e nutriente quali la vitamina E e gli oli vegetali.

L'integrazione alimentare di acido ialuronico ed antiossidanti può essere un supporto utile per la nostra pelle. VERO
"L'assunzione orale di acido jaluronico e vitamina E o di alcune molecole antiossidanti come il resveratrolo  può essere utile al rientro dalle vacanze così come oggi, rispetto al passato,  esistono diversi trattamenti medici, tra cui la biostimolazione, i peeling, la radiofrequenza,  che possono aiutare la pelle ad acquistare luminosità e turgore dopo lo stress della stagione estiva.  In questi casi e' sempre consigliabile affidarsi alla professionalità ed ai consigli di dermatologi e medici estetici con una formazione specifica " raccomanda la dott.ssa Fulgione "in grado di valutare lo stato di salute della nostra pelle e consigliarci i rimedi adeguati”.

di Giuseppe Paolisso, Rettore della Seconda Università degli studi di Napoli

 

Quali criteri per iscriversi all'università? O se preferite, come scegliere il corso di laurea più appropriato? Sono questi i dilemmi a cui molti studenti devono dare una risposta che è obiettivamente difficile; quindi, proviamo a mettere in ordine dei ragionamenti che uno studente dovrebbe fare.

Il primo punto è certamente la conoscenza dello stato dell'arte. Conoscere la differenza curriculare ma anche di prospettive di lavoro che esiste tra una laurea in giurisprudenza e in studi politici, tra medicina e professioni sanitarie, tra economia aziendale e green economy è fondamentale. Quanti studenti studiano i percorsi didattici che sono presenti nell'offerta formativa delle università prima di prendere una decisione? Credo pochi, mentre molti si lasciano ancora  influenzare solo dal titolo del Corso di laurea. Nascono così gli abbandoni (che sono economicamente svantaggiose per le famiglie e le università) o le scelte fatte tanto per essere iscritti all'università o ancora peggio le scelte fatte per cambiare città in cui vivere. Come si corregge questo problema? Da molti anni le università dedicano le giornate di "orientamento" all'incontro con i futuri studenti universitatri, che però dovrebbero arrivare all'appuntamento con qualche informazione in più facilmente reperibile sui vari siti delle università, sfruttando questo momento per un approfondimento con i docenti universitari. Se queste giornate sono vissute solo come un momento di svago il risultato è difficile da cogliere.

Il secondo punto è l'analisi puntuale del proprio curriculum. Ogni scuola secondaria superiore svolge un proprio ruolo formativo ma non svolge tutti i ruoli formativi. Il liceo scientifico prepara prevalentemente per un seguito di studi in campo scientifico tecnologico, il liceo classico per quelli in campo umanistico-giuridico, l'istituto tecnico professionale per studi che possono concretizzarsi anche con un accesso al mondo del lavoro senza la necessaria prosecuzione a livello universitario. È bene che queste peculiarità siano tenute presenti, anche se nessuno potrà mai proibire ad un diplomato al liceo scientifico di iscriversi a giurisprudenza, uno del classico ad ingegneria ed un ragioniere a lingue. Certo che in questi ultimi casi le difficoltà nel seguire il percorso didattico saranno maggiori, perché si dovranno colmare lacune curriculari che non sono dello studente ma insite nel percorso didattico che si è scelto.

Ma tutto ciò non basta, perché per fare una buona scelta, si deve ascoltare il cuore, al tecnicismo e al ragionamento bisogna aggiungere il sentimento, in un equilibrio tra ragione e sentimento molto difficile da raggiungere ma che è fondamentale per una buona scelta.

La voglia di sentirsi realizzato dentro come persona e non solo professionalmete è il fertilizzante che permette il crescere e germogliare di un seme in un terreno difficile, di superare ogni ostacolo che sembra insormontabile. La mancanza di una scelta di cuore è una causa molto importante del fallimento di fronte ai primi ostacoli, perché non esistono corsi di laurea semplici o difficili, ma solo corsi di laurea che con volontà, applicazione, serietà, disciplina e metodo (caratteristiche tipiche di chi vuole riuscire) permettono di realizzarsi.

Iscriversi all'università significa prepararsi al domani, al lavoro ma soprattutto alla competizione e alla selezione che la vita ci pone davanti. Per tale motivo la scelta del corso di laurea va ponderata, ma anche calibrata sulla propria persona e sulle proprie aspirazioni, e sicuramente non va mai fatta tenendo presente quanto si potrà guadagnare in futuro (elemento assolutamente imponderabile a distanza dei 5-8 anni necessari per entrare nel mondo del lavoro). Il guadagno è quasi sempre connesso alla propria professionalità ed è elemento secondario e non prioritario su cui ragionare.

Iscriversi all'università e avere una laurea è un diritto di tutti ma per avere successo e realizzarsi c'è bisogno di un perfetto equilibrio tra ragione e sentimento, in cui la volontà è un ago della bilancia fondamentale.

 

I venti freddi della Brexit 

 

di Francesco Izzo Docente di Strategie per i Mercati Internazionali presso il Dipartimento di Economia della Seconda Università degli studi di Napoli

Theresa May, pochi giorni fa, il 13 luglio, si è insediata a Downing Street come nuovo primo ministro del Regno Unito. Benché fosse stata una tiepida sostenitrice delle posizioni di David Cameron nella campagna referendaria a favore del Remain, ha ricordato ai cittadini britannici e ai governi europei che non si torna indietro: «Brexit means Brexit». Uno slogan ad effetto che però non svela quale sarà la strategia della nuova leadership (http://www.ft.com/cms/s/0/6da146f2-485f-11e6-b387-64ab0a67014c.html#axzz4EgVINOja).
Ocse e Fondo Monetario concordano nel prevedere anni difficili per Londra. La crescita del Pil, da qui al 2020, dovrebbe perdere dai 3 ai 5,5 punti come conseguenza della decisione presa dai sudditi della regina Elisabetta. Una sterlina più debole potrebbe restituire slancio alle posizioni britanniche nel commercio internazionale, ma non riuscirà a compensare il salto all’indietro.
In realtà, ciò che spaventa tutti, e non solo i mercati azionari – che pure sono precipitati all’indomani dell’esito del referendum con il peggior tonfo che si ricordi – è l’incertezza. Lo scenario dei prossimi anni – il governo di Londra dovrà chiedere formalmente l’applicazione dell’articolo 50 del Trattato e da quel momento comincerà a scorrere la sabbia nella clessidra per almeno due anni – è una terra incognita, mai sperimentata nella storia dell’integrazione europea.
La maggior parte degli osservatori teme che per i cittadini britannici non vi sarà alcuna Terra promessa dopo una lunga e faticosa traversata nel deserto (http://marconiada.blog.ilsole24ore.com/2016/07/15/e-iniziata-la-traversata-nel-deserto-del-brexit/).
Tuttavia, quale che sia lo status che il Regno Unito riuscirà a ottenere dall’Europa a 27, certamente i contraccolpi per le economie europee non saranno irrilevanti. Intanto, non solo gli organismi comunitari che hanno sede a Londra o nel resto del paese traslocheranno, ma anche molte grandi imprese e i big player della finanza cercheranno nuovi approdi per non perdere il “passaporto” europeo. Il governo britannico potrebbe provare a bloccare la fuga da Londra offrendo condizioni particolarmente favorevoli – già ora il Regno Unito gode di non pochi privilegi rispetto ad altri paesi europei – ma se dovesse incamminarsi verso la strada che conduce verso il paradiso (fiscale), il rischio immediato è un indurimento delle posizioni dell’Unione europea non appena i negoziati cominceranno sul serio.
Ma al di là degli scenari futuri, ancora difficili da disegnare, quali saranno le conseguenze più dirette per l’economia del Mezzogiorno e, in particolare, della Campania? Consideriamo, nella nostra breve analisi, tre aree di impatto: (a) le esportazioni verso il Regno Unito; (b) il turismo inglese; (c) la posizione dei cittadini italiani che studiano o lavorano Oltremanica.

Le esportazioni. I contraccolpi della Brexit saranno inevitabili. Se, come stimano gli analisti, il Regno Unito diventerà un paese più povero, i consumi e gli investimenti rallenteranno e la sterlina si indebolirà, i flussi di importazione come è ovvio andranno a diminuire. In secondo luogo, soprattutto se le trattative con Bruxelles dovessero irrigidirsi, vi è il rischio concreto di un’adozione di misure protezionistiche, con l’imposizione di barriere tariffarie (un aumento dei dazi) e non tariffarie (controlli doganali, certificazioni, standard) per determinate categorie di beni. Queste misure avranno l’effetto di rendere più difficile, e in ogni caso più costoso, esportare prodotti made in EU a Londra e dintorni. L’Italia nel 2015 ha esportato beni verso il Regno Unito per 22,4 miliardi di euro, in crescita del 7,4% sul 2014. Negli anni della crisi, il paese è stato uno dei primi a risollevarsi, dando fiato alla domanda di beni italiani. Secondo la Sace, la Brexit sgonfierà l’export del Bel Paese nel 2017 dal 3 al 7%, con un impatto più profondo soprattutto sui settori della meccanica strumentale e dei mezzi di trasporto (http://www.corriere.it/economia/16_giugno_22/export-dietro-si-brexit-c-conto-salato-8afcd090-3856-11e6-9b03-1ff54c0a662d_print.html).
Le imprese meridionali, come è noto, non vantano brillanti performance nei mercati internazionali. Tuttavia, il Regno Unito è una delle destinazioni privilegiate per i prodotti made in Sud: nel 2015, le esportazioni dal Mezzogiorno continentale sono state pari a 2,4 miliardi di euro, in crescita costante negli ultimi anni, merito soprattutto della passione inglese per le auto, il cibo e il vino italiano.
Ma che cosa esportano allora le imprese meridionali verso la terra d’Albione? Soprattutto automobili, componenti di aereo, costruzioni ferroviarie: oltre il 38% dell’export meridionale (escluse le isole) è riconducibile all’industria dei mezzi di trasporto, che ha presenze significative in Abruzzo (Val di Sangro), Campania (Pomigliano d’Arco e Nola), Basilicata (Melfi), Molise (Termoli) e Puglia (Bari, Brindisi). Un quarto dell’export del Mezzogiorno che sbarca sulle coste di Dover è invece associato all’industria alimentare e delle bevande: la pasta, la mozzarella, i vini, i liquori, l’aceto, le conserve di pomodoro, il tonno in scatola, la frutta secca non mancano nelle case britanniche e nell’alta ristorazione italiana di Londra e dintorni. Anche l’industria meccanica (7,1%) e il settore dei prodotti in gomma e in plastica (5,8%) hanno quote significative nel Regno Unito, mentre è scivolata verso il basso l’industria tessile e dell’abbigliamento (3,2%), che però conserva una presenza significativa nella nicchia high-end della sartoria maschile.
Un’analisi d’impatto più approfondita, però, dovrebbe considerare non soltanto il valore dei flussi di esportazione, ma anche il grado di esposizione all’export verso il Regno Unito delle regioni meridionali, misurato considerando la quota delle esportazioni Oltremanica sul totale delle esportazioni regionali. E qui si scoprono elementi di non poco interesse. Sul podio del “rischio” fra le regioni più esposte agli effetti della Brexit vi sono tre regioni del Mezzogiorno: Basilicata, Abruzzo e Campania. In particolare, la Basilicata destina al Regno Unito quasi il 15% del suo export – alimentato soprattutto dalle Jeep Renegade e dalle Fiat 500x realizzate nello stabilimento di Melfi di Fiat Chrysler –, l’Abruzzo il 10,5%, la Campania il 9,4%.

Il turismo. Per gli inglesi, fra i viaggiatori in Italia più appassionati fin dall’epoca del Grand Tour, le città d’arte e il mare del Sud sono una delle mete preferite. Nel 2014, l’ultimo anno per cui si dispone di dati di dettaglio, gli arrivi in Italia dal Regno Unito sono stati 3,1 milioni per un volume di presenze pari a 11,9 milioni, segnando una permanenza media di 3,8 giorni in terra italiana. Con il 6,0% degli arrivi e il 6,4% delle presenze, l’UK occupa la quarta posizione tra i mercati di provenienza, dietro solo a Germania, Stati Uniti e Francia. Ma, soprattutto negli ultimi anni, segnati da una contrazione nella domanda, è stato uno dei paesi cresciuto di più, con un +5,2% per arrivi e +4,2% per presenze. E ancora, come indicano le stime dell’Enit, la spesa giornaliera pro capite per i viaggiatori britannici in Italia per motivi di vacanza pari a 123 €, pur non raggiungendo le cifre di giapponesi (194 € al giorno), di cinesi (184 €), americani (169 €) e russi (164 €), si posiziona ben al di sopra dei più parsimoniosi turisti francesi (100 €) e tedeschi (86 €).
Se è vero che il turismo internazionale premia poco le regioni meridionali in valore assoluto (la quota delle regioni meridionali copre incredibilmente solo il 12% degli arrivi internazionali ), ancora una volta è più utile ragionare in termini di vulnerabilità alla Brexit, misurando il tasso di esposizione al turismo britannico nelle regioni italiane. Anche stavolta non mancano le sorprese.
Al di là della piccola Val d’Aosta, premiata per le sue piste di sci, sono le regioni del Mezzogiorno a soffrire maggiormente per un calo delle presenze britanniche: la Campania ha un’esposizione pari al 18,2% (in altre parole, su 100 turisti che giungono dall’estero 18 hanno passaporto britannico), la Sicilia dell’8,7%, appena più su della Basilicata (8,6%) e della Sardegna (7,1%). Più serene, almeno in apparenza, le estati di Puglia e Molise, attorno al 6%; quasi insignificante, invece, la presenza di inglesi in Calabria.
Che cosa potrebbe accadere nei prossimi anni? Difficile una previsione. È probabile che, almeno nei prossimi anni e senza eventi apocalittici, l’impatto sull’industria turistica del Mezzogiorno sarà lieve. Il turismo inglese – incantato da Capri, Positano e la costiera amalfitana, con radici secolari a Sorrento, affascinato da Lecce e delle masserie pugliesi, invaghito dai Sassi di Matera, amante di Palermo e della Sicilia, con l’Etna e le Eolie nel cuore, che adora veleggiare o prendere il sole lungo le coste della Sardegna – è posizionato nella fascia alta del mercato: né le oscillazioni della sterlina né l’haircut del Pil dovrebbero modificare le abitudini di consumo e gli stili di vacanza per i viaggiatori ad alto reddito. Ma che cosa potrebbe accadere invece se la Brexit provocasse uno shock finanziario nella City, con conseguente rovinosa caduta degli stipendi di broker, operatori di borsa, private banker, avvocati d’affari, i quali mai vorrebbero rinunciare a un tuffo sotto i Faraglioni, a un concerto a Ravello, a una cena a Sant’Agata o a Nerano in un ristorante stellato? Uno scenario improbabile, eppure proprio la finanza degli ultimi anni ci ha insegnato a credere nell’esistenza dei cigni neri.

I flussi migratori. È l’area di impatto di più difficile analisi. Soprattutto per l’indeterminatezza dei dati. Secondo le cifre dell’Aire, l’anagrafe degli italiani residenti all’estero, nel Regno Unito risiedono 210 mila italiani; per l’anagrafe consolare, invece, gli iscritti sono 277 mila. Ma a vivere o a studiare sono molti di più, perché non vi sono tenuti a registrarsi per esempio tutti coloro che si recano all’estero per un periodo di tempo inferiore a 12 mesi. Il reperimento di informazioni aggiornate e attendibili è pressoché impossibile. Un’analisi di Nomisma ha recuperato i dati relativi agli iscritti all’Aire in alcuni dei principali comuni italiani al 31 dicembre 2015. Fra le prime città figura Napoli, con quasi 5.000 cittadini iscritti residenti nel Regno Unito, terzo paese per scelta di destinazione, con una quota del 10% sul totale di napoletani registrati (47.743),. Napoli è dietro Roma e Milano in valore assoluto, mentre è Bologna la città italiana che ha l’UK come scelta preferita.
Per il Mezzogiorno, che negli ultimi 10 anni ha perso mezzo milione di giovani under 35, quasi tutti diplomati o laureati, Londra rimane una delle mete di elezione. Se il flusso verso il Centro-Nord non si è mai arrestato negli anni della crisi – tra il 2001 e il 2014 sono emigrati dal Sud verso il Centro-Nord 1,7 milioni di meridionali – decidere di volgere lo sguardo verso l’estero è diventato sempre più frequente. Come emerge dal Rapporto Toniolo, «con l’entrata nel XXI secolo e l’inasprirsi delle difficoltà anche nelle regioni settentrionali, si è osservato un flusso crescente di uscita dal Nord verso l’estero. Molti meridionali, dopo essersi spostati nelle grandi città settentrionali sono poi ulteriormente rimbalzati verso l’estero. Negli anni più recenti, complice anche la crisi che ha visto aumentare il numero di Neet in tutto il paese, nei giovani del Sud si è consolidata sempre più l’idea che se ci si deve spostare tanto vale partire direttamente per l’estero».
Fra il 2006 e il 2015, sono stati oltre 800 mila gli italiani espatriati. Il numero complessivo di residenti all’estero si avvicina ad ampie falcate verso la soglia dei 5 milioni. Nel solo 2015 sono stati 107.529 gli italiani che si sono trasferiti all’estero, in aumento di oltre seimila unità in un anno. Ad espatriare, sempre secondo i dati dell’Aire, sono soprattutto uomini (56%) e chi ha un’età compresa fra i 20 e i 40 anni. Il Paese prediletto resta la Germania (16.569 emigrati), ormai raggiunta proprio dal Regno Unito (16.500). Ma se si restringe il focus al segmento più giovane – e qui capiamo bene quale effetto potrà esercitare la Brexit da qui ai prossimi anni – si osserva come sia il Regno Unito la vera “terra promessa”: sorpassa la Germania sia nella fascia 20-30 anni (5.421 emigrati contro 5.025), sia nella fascia 30-40 anni (4.892 contro 4.111). Guardando alle provenienze regionali, non distinte però per paese di destinazione, la Campania si colloca al settimo posto (6.827 emigrati nel 2015), nona la Puglia, decima la Calabria. Nel segmento fra i 20 e i 30 anni, è la Sicilia la seconda regione di emigrazione italiana in assoluto, alle spalle della Lombardia.
In questo scenario da tsunami demografico, come è stato definito dalla Svimez, Londra è diventata la tredicesima città italiana per dimensioni, con 250 mila connazionali che l’hanno scelta per viverci (http://www.corriere.it/cronache/15_luglio_07/nel-2014-italia-la-prima-volta-piu-emigrati-che-immigrati-londra-diventa-tredicesima-citta-italiana-f37cccc6-2478-11e5-8714-c38f22f7c1da.shtml).
Senza dubbio la Brexit renderà impervia la strada degli scambi universitari nei progetti comunitari, sia per gli studenti sia per i docenti, e avrà effetti anche sull’economia britannica movimentata dai flussi di talenti in entrata. In base alle rilevazioni di Universities UK nel 2012-2013 il 5,5% degli studenti nel Regno Unito era di provenienza comunitaria, generando maggior ricavi per l’economia del paese per una cifra pari a 3,7 miliardi di sterline e offrendo 34 mila posti di lavoro alle comunità locali. Non si dovrebbe dimenticare che un professore su sei fra quelli che insegnano a Oxford, a Cambridge, nelle università inglesi o scozzesi, ha un passaporto comunitario. Che succederà quando dovrà chiedere un visto? (http://www.telegraph.co.uk/education/2016/05/24/what-would-brexit-mean-for-universities-and-eu-students/)
Così come va ricordato, rovesciando la prospettiva di analisi, che negli ultimi anni oltre 200 mila studenti britannici hanno beneficiato del programma Erasmus. Ed è proprio alla generazione Erasmus che la Brexit infliggerà un duro colpo: da sempre le università di Oltremanica sono state fra le destinazioni più gettonate degli studenti europei. Per esempio, sono stati 2.695 gli studenti italiani che nel 2015 hanno scelto il Regno Unito per l’Erasmus. Dal 2007 al 2015, la mobilità degli studenti italiani è cresciuta dell’80%. Dall’Agenzia nazionale Erasmus+ giungono rassicurazioni, ricordando che è un programma non circoscritto ai soli paesi Ue (vi partecipano a pieno diritto anche i Paesi dello spazio economico europeo (Norvegia, Islanda, Liechtenstein), ma è inevitabile che la questione della libertà di movimento di studenti e docenti, così come il futuro della cooperazione transnazionale per la ricerca finiranno sul tavolo delle negoziazioni.
Per i ricercatori, le collaborazioni con i colleghi e i centri di ricerca britannici potrebbero diventare inevitabilmente più complicate e molti network consolidati che avevano come nodi in posizione-chiave università o imprese del Regno Unito vedranno indebolirsi la propria forza competitiva in occasione dei bandi comunitari.
Per la quinta maggiore economia del mondo, per il campione europeo degli investimenti diretti dall’estero, per la più importante piazza finanziaria europea, per il più attrattivo sistema universitario del Vecchio Continente, la Brexit non potrà passare inosservata, senza provocare danni, lasciando immutato il paesaggio culturale europeo. Come ha scritto Timothy Garton Ash, professore di Studi europei ad Oxford (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/07/04/che-ne-sara-della-gran-bretagna-e-dellue27.html), «la Brexit è un incubo da cui stiamo cercando di svegliarci». E neppure per l’Italia, e in particolare per le sue regioni in ritardo di sviluppo, per le imprese e i ricercatori, per i suoi studenti, sarà una notte tranquilla.

 

Brexit: Much Ado About Nothing?

 

di Olivier Butzbach Docente di Economia Politica internazionale Dipartimento di Studi Politici "Jean Monnet"

Nella famosa commedia di Shakespeare, l’inganno, la duplicità, e il misunderstanding tra i vari personaggi non ostacolano il trionfo finale dell’amore, pur avendo fatto credere, in un primo momento, al naufragio delle aspirazioni sentimentali dei singoli individui. Così potrebbero rivelarsi le conseguenze del Brexit per il Regno Unito (e per l’Unione europea). Di fronte alla promessa di cataclismi da ambedue le parti durante la campagna referendaria (conclusa, come sappiamo, dalla vittoria del “Leave” nel referendum del 23 giugno scorso), i primi effetti economici e sociali del Brexit sembrano ancora molto lievi. Ma, dicono le Cassandre, il peggio sta per arrivare.

Per accertare la probabilità del peggio, a meno di un mese dall’esito del referendum, dobbiamo iniziare dai fatti.

Al momento della stesura finale di questo breve testo (il 16 luglio), gli effetti economici diretti attribuibili senza ambiguità al Brexit sono tre: (i) un brusco deprezzamento della sterlina rispetto alle altre monete; (ii) problemi finanziari consistenti per fondi di investimento specializzati nel mercato immobiliare; (iii) una caduta del valore azionariale di alcune società quotate, tra cui le banche britanniche (meno 20% da fine giugno ad oggi).

Tutti e tre questi effetti devono essere correttamente contestualizzati.

Il deprezzamento della sterlina si iscrive in una lenta svalutazione iniziata anni fa: dal 15 giugno al 15 luglio, la sterlina ha perso “solo” il 6,7% rispetto al dollaro statunitense – e poco più di 5% rispetto all’euro. I titoli dei giornali che sottolineano come la sterline abbia raggiunto il suo livello più basso da trent’anni con la moneta statunitense sono corretti, ma dimenticano che il Brexit spiega solo una parte di questa caduta. Più inquietante è l’aumento della volatilità della sterlina sui mercati valutari. 

Per quanto riguarda i fondi immobiliari, sette tra i più grandi di questi fondi hanno già, dalla fine di giugno, adottato misure per evitare problemi di liquidità – come la sospensione del trading sulle quote di investimenti in questi fondi. Il mercato immobiliare, sia residenziale (nella fascia alta), sia commerciale, è infatti direttamente minacciato dal disimpegno di imprese e grande fortune europee. Però questo porrebbe fine a una bolla finanziaria e immobiliare formatasi anni fa. In realtà, le conseguenze più dannose le potrebbero subire le grandi banche europee che da anni hanno insediato a Londra le loro divisioni che si occupano di operazioni su mercati di capitale: con la possibilità perdita del “passaporto” europeo, quelle divisioni potrebbero dover ricapitalizzarsi in fretta – per costi che un recente studio del Boston Consulting Group stima a varie decine di miliardi di euro.

Non stupisce la natura finanziaria dei primi effetti del Brexit, e ciò per due ordini di motivi: (i) i mercati finanziari sono notevolmente reattivi agli shock di questo tipo, sia perché è l’informazione la merce primaria scambiata su questi mercati, sia perché le transazioni finanziarie sono velocissime, grazie alle potenti tecnologie impiegate; (ii) sugli altri mercati (nell’economia “reale”), gli aggiustamenti nel comportamento degli agenti economici sono molto più lenti.
Il danno principale del Brexit, a questo punto, sembra essere proprio l’incertezza che ha generato, che pesa sull’insieme delle transazioni del Regno Unito con l’estero. L’impatto di questa incertezza non può essere sottovalutato. Ma non deve neanche essere esagerato, dato il carattere non univoco degli effetti netti del Bexit sull’economia britannica e su quella dell’UE. Infatti, per alcuni settori dell’economia britannica, l’effetto del deprezzamento della sterline sarà sicuramente positivo. E’ il caso, ad esempio, dei famosi studi cinematografici di Pinewood (la Cinecittà inglese, dove sono stati girati gli ultimi James Bond o vari Star Wars), che si sono pubblicamente vantati di essere diventati ancora più attraenti, come location, dopo il Brexit.

Sarà interessante osservare, in particolare (e soprattutto per la nostra piccola comunità accademica), le conseguenze del Brexit sui rapporti tra il mondo universitario britannico e quello continentale. I segni più negativi provengono dal campo dei finanziamenti alla ricerca scientifica. I giornali britannici hanno riportato casi (aneddotici, ma forse significativi) di studiosi britannici ai quali si è chiesto di ritirarsi da progetti di ricerca finanziati dall’UE, o da consorzi di ricerca che fanno attualmente domanda di fondi UE. Questo rischio, legato all’incertezza menzionata sopra, è stata in particolare paventato da Lord Patten, il rettore dell’Università di Oxford, in un recente discorso. In gioco è l’avversione al rischio da parte di partner europei impegnati nel processo molto concorrenziale, che molti di noi conosciamo, per ottenere finanziamenti europei per le nostre ricerche.

Nel campo della mobilità degli studenti, l’incertezza è ancora maggiore. Certo, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea potrebbe portare, a termine, alla chiusura dei programmi di mobilità intra-UE (come quello Erasmus) che consentono a studenti europei di studiare nei vari atenei britannici senza dover sborsare le ingenti somme pagate dai loro compagni britannici per l’iscrizione all’Università. Dall’altro campo, il deprezzamento della sterlina rende questi costi meno esorbitanti. Non è chiaro, quindi, se e quanto la destinazione del Regno Unito diventerà meno attraente per gli studenti europei. Le conseguenze di un eventuale deflusso di studenti europei nel Regno Unito sono ancora meno evidenti. Nell’anno accademico 2014-15, secondo i dati ufficiali pubblicati dalla Higher Education Statistics Agency, erano 436.585 gli studenti stranieri presenti negli atenei britannici. Di questi 124.525, cioè un po’ più del quarto, erano studenti UE. Distinguendo i singoli paesi d’origine degli studenti stranieri nel Regno Uniti, vediamo quanto i paesi dell’UE (la Germania, con 13.675 studenti; la Francia, con 11.955 studenti; l’Italia, con 10.525 studenti) contano poco rispetto a paesi extra UE come la Cina (89.540 studenti!), l’India, la Nigeria, la Malaysia, gli Stati Uniti… Staremo a vedere. O, parafrasando le parole di Benedick, le ultime della commedia di Shakespeare, “Think not on [that] till tomorrow”.