di Diego Lazzarich, docente di Storia delle dottrine politiche all'Università Vanvitelli

Nel corso degli ultimi dieci anni, i social network hanno trasformato significativamente il modo non solo di comunicare la politica, ma anche di farla.

Mentre, da una parte, la comunicazione è diventata sempre più personale, aprendo canali coi quali i politici possono entrare in contatto diretto con i loro ‘seguaci’; dall’altra, Internet consente a chiunque di sottoporre rapidamente un’istanza a un gran numero di persone, facilitando la possibilità di avviare processi mobilitanti e partecipativi dal basso. Questi due aspetti distinti si sono manifestati concretamente in Italia di recente attraverso due fenomeni politici antitetici eppure in stretto rapporto dialettico: il salvinismo e il movimento denominato ufficialmente delle “6000 sardine”.

Da quando Matteo Salvini è diventato segretario della Lega Nord, nel 2013, il partito è passato dal 6 al 34 percento. Il merito di tale successo sta nelle capacità comunicative del leader che, inserendosi in un più ampio discorso internazionale del populismo di destra, riesce a veicolare messaggi semplici e in grado di raccogliere efficacemente consenso attorno a temi fortemente divisivi. Tutti questi messaggi, però, ruotano attorno all’idea di un’italianità (materiale e immateriale) da difendere contro nemici ‘stranieri’ che minacciano la sovranità nazionale. Il consolidato schema retorico amico-nemico proposto da Salvini risulta ravvivato dal potere penetrativo dei social network che consentono al politico di amplificare esponenzialmente la portata della sua comunicazione, parlando direttamente ai suoi ‘seguaci’ e saltando ogni filtro e mediazione tipici del modello televisivo.

La natura populistica del messaggio salviniano è riuscita a trasformare in pochi anni la Lega Nord da partito fortemente radicato nel nord-Italia in partito nazionale, segnando un’ascesa progressiva che ha fatto affermare la formazione politica anche in aree geografiche storicamente governate dalla sinistra. È proprio la presa di coscienza dell’effettiva possibilità che la spinta trainante di Salvini riuscisse a fare breccia anche nelle elezioni regionali dell’Emilia-Romagna del 26 gennaio 2020 a segnare la gemmazione del Movimento delle sardine. Quest’ultimo nasce da un’intuizione del trentaduenne Mattia Santori, laureato in Scienze politiche, e da altri tre suoi coetanei. Gli amici decidono di promuovere via social network un flash-mob “anti-salviniano” in risposta all’evento organizzato il 14 novembre nel Palazzetto dello sport di Bologna dal leader della Lega Nord per dare inizio ufficialmente alla campagna elettorale della candidata del centro-destra per la Presidenza della Regione, Lucia Borgonzoni. Il contro-evento organizzato via Facebook dai quattro amici riesce a mobilitare ben più del doppio delle 6000 persone che sarebbero state necessarie per riempire Piazza Maggiore (gli organizzatori intendevano superare i 5570 partecipanti all’evento leghista). Così, in una sera di novembre, circa 14000 persone silenziose gremiscono pacificamente la piazza bolognese, e i dintorni, riempendola a tal punto da costringere i partecipanti a “stare stretti come sardine” (da qui il nome del movimento).

La portata del successo della manifestazione assume immediatamente un valore simbolico più grande rispetto all’evento stesso. La risposta popolare tanto massiccia all’appello dei quattro giovani sconosciuti rivela il desiderio di una parte significativa della società civile bolognese di manifestare pubblicamente l’opposizione non solo alla possibilità dell’affermazione del centro-destra salvinizzato alle elezioni regionali, ma anche al tipo di messaggio che Salvini veicola con grande forza ed efficacia. Mossi dalla paura della possibile affermazione della candidata sponsorizzata da Salvini, la piazza di Bologna lancia un segnale di resistenza e unità che punta a recuperare la storica tradizione di sinistra dell’Emilia-Romagna. Allo stesso tempo, però, il messaggio che emerge da Bologna appare essere di portata politico-culturale, ancor prima che politico-elettorale, come dimostra l’immediata diffusione del movimento delle sardine in centinaia di città italiane, unite dallo slogan “Bologna-Milano-Roma-Napoli-Palermo… non si lega”.

La capillare e immediata diffusione del Movimento delle sardine rivela almeno due aspetti su cui vale la pena riflettere.

Il primo riguarda il riemergere di un’istanza identitaria che coinvolge un certo popolo di sinistra. I mutamenti profondi che interessano l’universo politico di sinistra a partire dal collasso dell’Unione Sovietica non hanno cessato ancora di far sentire i loro effetti. In Italia e in Europa, i partiti socialisti si sono rivelati incapaci di proporre un’idea forte di che cosa significhi “sinistra” in un mondo dominato da un modello economico tardo-capitalistico.
Lo smarrimento del ruolo dei partiti di sinistra e il venir meno dei gruppi sociali di riferimento hanno contribuito a un più ampio disorientamento politico-culturale. Entrambi i fattori hanno contribuito all’affievolimento di idee adatte a promuovere solidi processi di identificazione, rendendo complesso, negli ultimi trent’anni, ridefinire che cosa significhi essere di sinistra nel tempo presente.

Il Movimento delle sardine s’inserisce in tale alveo identitario difettivo. È sintomatico, in questo, il modo in cui si sono svolte le prima manifestazioni del Movimento: in silenzio. Un silenzio che può essere interpretato in due modi: da una parte, come il tentativo di interrompere il flusso di parole del discorso salviniano; dall’altra, come la difficoltà a formulare positivamente le parole a cui ricorrere. Quest’ultimo aspetto oggettifica plasticamente un certo senso di smarrimento, perciò si presta ad assurgere a gesto politico paradigmatico di un popolo di sinistra che sembra voler dire: non saprei ben dire che cosa sono, ma so dire cosa non sono. Un’identità per difetto che riesce comunque a mobilitare un popolo di persone con un sentimento comune e che trova proprio nella partecipazione un suo tratto identitario. Una sardina è una persona che si riconosce nell’affermazione: “Io sono quello che si oppone all’universo politico-culturale espresso da Salvini e che è pronto a scendere in piazza con gli altri per affermarlo!”

La partecipazione si trasforma, quindi, in un tratto distintivo del Movimento, testimoniando la possibilità della traduzione dello ‘spontaneismo organizzativo’ offerto dai social network in partecipazione fisica concreta. Questo dato ci porta al secondo spunto di riflessione offerto dal Movimento delle sardine, ossia l’importanza della spinta propulsiva dal basso quale elemento qualificante per la formazione di un popolo di sinistra oggi.

Il fatto che quattro giovani riescano a mobilitare decine e decine di migliaia di persone grazie al passaparola via Facebook è rivelatore della mancanza di credibilità che i partiti di sinistra hanno per una certa parte dei loro potenziali elettori.

Le sardine sono sicuramente la parte più reattiva di un popolo che non riconosce più ai partiti di sinistra la fiducia di operare per conto loro, di rappresentarli in modo verace (tant’è che nessun simbolo di partito trova ospitalità nelle manifestazioni di piazza). Per questo, esse hanno cercato di destare le coscienze di coloro che nei recenti anni passati avevano scelto l’astensione per sfiducia, invitandoli a superare le perplessità pur di bloccare il nemico comune: Salvini e il salvinismo.

La spinta propulsiva delle sardine ha sicuramente contribuito ad aumentare la partecipazione dell’elettorato emiliano-romagnolo alle elezioni regionali del 26 gennaio, favorendo la vittoria del candidato del centro-sinistra, Bonaccini. Non è un caso che il Segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti, all’indomani della vittoria abbia espresso pubblicamente la propria gratitudine alle sardine per il risultato elettorale.

Cosa faranno ora le sardine? Torneranno a mare o continueranno a restare sulla terra ferma? Sebbene il Movimento sia certamente espressione di un contesto locale, è evidente che l’istanza partecipativa di cui si è fatto promotore continuerà ad animare il mondo della sinistra nei prossimi mesi. Credo, tuttavia, che la sua funzione sia complementare rispetto alle forze partitiche parlamentari, perché in grado di rappresentare un’istanza valoriale di base, piuttosto che programmatica, e proprio per questo capace di fungere da stimolo/guida/argine per l’universo politico-culturale della sinistra italiana.

Resta, tuttavia, ancora un dato interessante che vale menzionare. Dopo i Vaffanculo-day promossi da Beppe Grillo all’origine dell’ascesa del Movimento 5 Stelle e nel mentre del discorso salviniano, fortemente incentrato sulla promozione dei sentimenti di esclusione, le sardine rappresentano perfettamente quella parte della popolazione che rivendica il superamento di una fase politica fortemente segnata dalla violenza verbale.

Il fatto che decine di migliaia di persone abbiano affollato le piazze in nome della gentilezza sembra essere quasi una negazione della concezione primitivistica a cui spesso si associano le masse.

Foto di taleoma - https://www.flickr.com/photos/68119864@N04/49071085517/, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=84605085

 

di Armando Cartenì, docente di Pianificazione dei trasporti al Dipartimento di Ingegneria dell'Università Vanvitelli

Nemmeno una metropolitana che collegherà tutta la città di Napoli, con corse ogni quattro minuti basterà a salvare la città dal caos in cui sono immersi automobilisti, pedoni e pendolari, ogni giorno. A fare questa previsione è Armando Cartenì, professore di Pianificazione dei trasporti dell’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli.

La soluzione al problema traffico passa necessariamente per il miglioramento del trasporto pubblico locale e la chiusura dell’anello della linea 1 e il completamento della linea 6 della metropolitana, in questo senso, sono due tappe fondamentali. Ma non basteranno.
Manca una regia forte che affronti il tema con competenza e volontà politica. In una parola, una pianificazione integrata a medio e lungo termine, che restituisca una visione della città e che risolva i problemi quotidiani di chi si sposta in città.

Basterebbe utilizzare gli strumenti indicati dalla legge. A partire dal PUT, il Piano urbano del traffico, previsto dal Codice della Strada che obbliga i grandi comuni con a mettere nero su bianco gli interventi di miglioramento della circolazione stradale urbana per pedoni, mezzi pubblici e veicoli privati. Un piano complesso, con cui la giunta de Magistris, uno e due, non si è mai confrontato. A Palazzo San Giacomo l’ultimo contributo in materia è datato 2002 quando, sotto la prima giunta Iervolino, fu dato alle stampe l’aggiornamento fino al 2004 del precedente Piano Generale del Traffico Urbano approvato dal Consiglio Comunale nel 1997. E il sindaco, allora, era Antonio Bassolino.
Si dovrebbe pensare ad un piano pronto in sei mesi, che miri ad una migliore convivenza tra il trasporto pubblico locale e le auto private. Uno dei punti critici della città è il collegamento tra la parte est ed ovest. Si potrebbe puntare alla valorizzazione della rete tranviaria da Portici a Napoli, con la creazione a Piazza Municipio di un interscambio che sfrutti a pieno la stazione della metropolitana. Un altro snodo dovrebbe sorgere a Piazza Vittoria, con il ripristino del tram. Da lì dovrebbero partire altri assi su gomma, più leggeri, che attraverso la Riviera di Chiaia possano collegare Fuorigrotta e Posillipo e completare così il collegamento est-ovest integrando il trasporto di superficie con quello metropolitano.

Se l’obiettivo è poi disincentivare l’uso dell’auto, bisognerebbe offrire un servizio pubblico in grado di sostenere il confronto, in termini di tempo e comodità. D’altro canto, però, a Napoli esiste una cultura del mezzo privato molto più radicata che in altre città. Anche perché i cittadini non hanno piena fiducia del trasporto collettivo. È un circolo vizioso che dovrebbe essere invertito con interventi ad hoc. Scoraggiando ad esempio il parcheggio dell’auto, con l’aumento delle tariffe e la riduzione dei posti disponibili, dove esiste un’offerta di Tpl adeguata, come al Vomero. Del resto, è la strategia che hanno messo in campo tante città europee, da Parigi a Monaco. Dove invece manca si potrebbe pensare a un sistema tariffario che integri auto e trasporto collettivo: parcheggi, a ridosso delle stazioni periferiche, il cui biglietto valga sia per la sosta che per la metropolitana. E, magari, dei servizi di sharing mobility gestiti da privati. Un’auto privata resta ferma, in media, per il 93% della sua vita. Ma se una stessa auto è a disposizione di più utenti si riduce il numero di veicoli fermi.

Una visione del genere dovrebbe essere, prima di tutto, un dovere per un’amministrazione moderna. Anche in questo senso, del resto, esiste uno strumento ad hoc, il Pums, il Piano urbano per la mobilità sostenibile, che impegna le città a confrontarsi con la sua idea di futuro.

Oggi serve un Piano ambizioso, che coinvolga tutti gli stakeholders, investitori, operatori del trasporto, cittadini, per capire insieme quale città ci sarà da qui a 10 anni.

Oggi, forse, è arrivato il momento di fare sogni più ambiziosi: Piazza Garibaldi senza auto. Una porta d’ingresso green per entrare in città.

Tratto da Il Riformista del 15 gennaio 2020

A cura di Marianna Pignata, Delegata di Ateneo alle Pari opportunità

Il 25 novembre si celebra in tutto il mondo la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne. Come ogni anno, l’Università della Campania scende in campo per un confronto sui temi della violenza sulle donne dal titolo Parole del Genere, il Linguaggio che umilia e che uccide, argomento, purtroppo di estrema attualità e che, nonostante l’intervento delle forze dell’ordine, l’appassionato lavoro di tante associazioni che si impegnano sul fronte dell’aiuto e del sostegno alle donne maltrattate, nonostante l’approvazione delle norme sullo stalking, la violenza morale e fisica contro le donne è ancora un fenomeno in spaventosa crescita, una emergenza gravissima. 

A fare da cornice all’evento la partecipazione straordinaria di Marianna Fontana, giovane attrice conterranea, pluripremiata ed apprezzata dalla critica per la serietà e professionalità che, per l'occasione, attraverso le sue parole animerà uno spazio di condivisione culturale diffusa e partecipata.

L’iniziativa, promossa dalle Delegate di Ateneo alle Pari opportunità (prof.ssa Marianna Pignata) e per la Terza Missione e Promozione del territorio (prof.ssa Lucia Monaco), dal Comitato Unico di Garanzia dell’Ateneo, in collaborazione con il Comune di Santa Maria Capua Vetere e l’Osservatorio sul fenomeno della violenza sulle donne del Consiglio Regione Campania, vedrà la partecipazione delle Autorità istituzionali di Ateneo e del territorio e si svolgerà il 25 novembre 2019 presso l’Aulario dell’Ateneo in Santa Maria Capua Vetere. Ricco il palinsesto di attività che coinvolgerà non solo gli studenti dell’Ateneo, ma anche i numerosi alunni delle scuole medie e superiori del territorio attraverso un reading di letture che accompagneranno le testimonianze di Adriana Esposito (la madre di Stefania Formicola,vittima di femminicidio), di Fatimah Ehikhebolo (mediatrice culturale della Cooperativa Dedalus) e di una donna, che pur mantenendo l’anonimato, protetta in una casa rifugio, racconterà l’importanza della denuncia.

Si presenteranno i progetti di Spazio donna e delle Associazioni femminili del Territorio (Acli, Cif, Fidapa, Soroptimist) che partecipano attivamente a combattere questa piaga sociale.

La manifestazione rappresenterà una tappa fondamentale di un percorso educativo ambizioso che impegna l’Ateneo e la città in continue attività e riflessioni, soprattutto sull'importanza di un linguaggio appropriato. Ci sono infatti parole che possono aiutare le donne a liberarsi da una gabbia e denunciare violenze e sopraffazioni, ma ci sono anche espressioni che possono provocare danni gravissimi. C’è una responsabilità collettiva di fronte al problema culturale sotteso al fenomeno. Ed è soprattutto su questo fronte che l’Università può e deve giocare il ruolo centrale. Sul piano della ricerca scientifica, che indaga a fondo il fenomeno della violenza, le sue conseguenze, le strategie degli aggressori e quelle, volte alla resistenza, delle vittime; sul piano della formazione specifica dei futuri operatori; ma anche e forse soprattutto sul piano della diffusione della cultura della non violenza.

Locandina

 

A cura di Clelila Buccico, docente di diritto tributario al Dipartimento di Economia dell'Università Vanvitelli

Non è la prima volta che in Italia si parla di web tax, misura introdotta prima dalla Manovra del 2018 e poi da quella del 2019. Dopo i due tentativi non andati a buon fine, la web tax, ovvero la tassa sui servizi digitali, questa volta entrerà in vigore, e dovrebbe diventare operativa con il decreto fiscale collegato alla Legge di Bilancio 2020. 


Il decreto interviene sulla norma introdotta dalla Legge di Bilancio 2019 che aveva abrogato la precedente web tax “imposta sulle transazioni digitali” introducendo la nuova web tax “imposta sui servizi digitali”, ma Mef, Mise e le authority delle comunicazioni, privacy e Agid avrebbero dovuto varare le regole attuative entro 4 mesi dall’entrata in vigore della legge di bilancio. In realtà i decreti non sono stati mai varati in attesa di una decisione a livello Ue. Questa volta la web tax entrerà in vigore senza alcun decreto attuativo, ma solo con le modifiche operative apportate dal decreto fiscale alla disciplina dello scorso anno.

L’imposta, secondo quanto previsto dal testo, resterà in vigore fino all’attuazione delle disposizioni che deriveranno da accordi raggiunti nelle sedi internazionali in materia di tassazione dell’economia digitale.
Il prelievo è rivolto alle multinazionali che operano nei settori del digitale, e che spostano i loro profitti verso giurisdizioni fiscali maggiormente favorevoli. L’obiettivo è quello di contrastare l’erosione fiscale tipica delle transazioni “on line” internazionali poste in essere anche in assenza di una presenza materiale dell’impresa nello Stato.

Vediamo in dettaglio cos’è la web tax, chi colpirà e come funzionerà sulla base delle ultime novità varate con la Manovra 2020.
L’imposta sulle transazioni digitali, interessa dunque le multinazionali del settore digitale.

La web tax, con un’aliquota pari al 3% del fatturato, si applicherà alle aziende con oltre 750 milioni di ricavi, di cui almeno 5,5 milioni da servizi digitali in Italia. A pagare saranno sia le imprese residenti o con stabile organizzazione in Italia e le imprese non residenti. L’imposta si applica sui ricavi realizzati nell’anno solare, a decorrere dal 2020.

Saranno la pubblicità mirata agli utenti online, la fornitura di beni e servizi venduti su piattaforme digitali e la trasmissione di dati degli utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale i tre ambiti di applicazione della nuova tassa.
Esclusi, invece, servizi come Netflix e Spotify. Tra le aziende target potranno esserci Google, Facebook e Amazon sui business relativi alla pubblicità come pure i servizi offerti da Alibaba, Amazon o eBay. Si teme che il prelievo possa però ripercuotersi sulle piccole e medie imprese italiane che vendono, anche oltre confine, prodotti made in Italy.

Per la localizzazione dell’operazione imponibile, si considera l’indirizzo di protocollo internet IP del dispositivo o altro sistema di geolocalizzazione, nel rispetto delle regole relative al trattamento dei dati personali.

di Armando Cartenì, docente di Pianificazione dei trasporti al Dipartimento di Ingegneria dell'Università Vanvitelli

Studia da sempre i flussi del traffico della città di Napoli, così quando ha letto dell'ipotesi di riaprire il lungomare liberato per attenuare i disagi generati dal caos Tangenziale, ha scosso la testa, ha iniziato a fare il conto delle auto in circolazione e ha capito che non sarebbe utile.

Armando Cartenì docente di pianificazione dei trasporti all'università Vanvitelli parla della questione con puntualità e, soprattutto, lo fa dati alla mano.

«La chiusura di una corsia per ogni senso di marcia sul viadotto Capodichino della Tangenziale genera una riduzione di capacità di passaggio di circa duemila auto ogni ora. La questione è seria ma per adesso le due ipotesi più gettonate per superare l'impasse, e cioè l'eliminazione del pedaggio, che è già in atto, e la riapertura dell'area pedonale sul lungomare, non mi sembrano le migliori. Per la prima è sicuramente più semplice spiegare perché non genera i risultati attesi. L'idea che il percorso sia libero, senza pedaggio, non fa che attirare più persone su quella strada, persone che non la percorrerebbero se fosse a pagamento. Forse qualche beneficio si potrebbe avere se il pedaggio fosse cancellato nelle sole ore di punta, ma ovviamente sarebbe un progetto difficile da realizzare.

Poi c'è la questione del lungomare da riaprire: sarebbe un errore, lo ribadisco e ne spiego i motivi numeri alla mano. Abbiamo valutato che, delle duemila auto all'ora che la Tangenziale non riesce ad assorbire in questo momento, un po' meno della metà potrebbe scegliere di utilizzare il lungomare se fosse riaperto al traffico. Diciamo che potrebbero essere più o meno 800 auto ogni ora a percorrere quella strada. Ma non sarebbe una d'ossigeno perché quelle vetture, una volta percorso il lungomare andrebbero a immettersi su via Acton e andrebbero a impattare sul nodo Municipio cioè quel groviglio di percorsi obbligati, per via dei cantieri, che già attualmente è ai limiti del massimo di traffico sopportabile.

Nell’area di piazza Municipio, nelle ore di punta, si muovono in media cinquemila auto ogni ora e si generano code complessive che superano il chilometro. Attualmente la saturazione di quella zona è pari all'80-90% del massimo sopportabile. Se si aggiungessero le eventuali altre 800 auto all'ora provenienti dal lungomare accadrebbe che il nodo Municipio raggiungerebbe immediatamente il collasso. Si genererebbe una paralisi definitiva con blocchi del traffico e attese in coda non quantificabili.

Una soluzione del genere non è nemmeno ipotizzabile: per rendere meno disagevole il transito in Tangenziale si paralizzerebbe inesorabilmente un'altra zona della città. Quindi bisogna predisporre un piano traffico alternativo, ma i tempi per lo studio sarebbero talmente lunghi da superare quelli dei lavori sul viadotto della Tangenziale.

Una soluzione per limitare i disagi c'è. Bisognerebbe prevedere lavori 24 ore su 24, con turni di lavoro notturni.

Solo questa soluzione consentirebbe di limitare il tempo del disagio. Ma si tratta di una scelta difficile perché è molto costosa.

Tratto da Il Mattino del 31 ottobre 2019

Il Punto di Giuseppe Paolisso - Rettore dell'Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli

 

E’ stata diffusa recentemente dagli organi di stampa la notizia che gli Atenei meridionali hanno perduto 120 punti organico a favore di quelli del Centro-Nord con una evidente ulteriore penalizzazione in termini assunzionali e relativo impatto negativo sulla capacità formativa. In effetti dal punto di vista puramente numerico il dato è certamente corretto ma non è assolutamente vero che questo debba impattare sulla capacità formativa. 

Innanzitutto ci sono delle regole ben precise che coinvolgono la sostenibilità della capacità formativa di ciascun Ateneo che sono legate al numero totale di docenti e ricercatori in base ai quali vi è un rapporto fisso tra numero di docenti e ricercatori e numero di corsi di laurea che possono essere erogati. Sarebbe buona norma che ogni Ateneo facesse annualmente una valutazione di quali Corsi di Laurea sono produttivi in termini di frequenza e quali meno,  optando per scelte che siano congruenti non solo con quelli che possono essere gli obiettivi culturali dell’Ateneo ma con quelli che possono essere gli interessi del territorio in cui verte e insiste.

Assumere docenti e ricercatori solo per aumentare il potenziale formativo non ha oggi grande senso e anzi non fa altro che aumentare la spesa senza che vi sia un grande guadagno dal punto di vista formativo. E’ vera l’affermazione che questa distribuzione di punti organico, basata principalmente su fattori economici che riguardano la stabilità economica dei singoli Atenei, impatta sulle scelte strategiche assunzionali degli Atenei provocando ulteriore svantaggio degli Atenei del Sud verso quelli del Nord? Certamente una maggiore disponibilità di risorse facilità le scelte, ma come sono utilizzate queste risorse negli Atenei?  La legge prevede che fino ad un massimo dell’80% di queste risorse gli Atenei le possono dedicare alle progressione interne (cioè da Ricercatore ad Associato e da Associato ad Ordinario con meccanismi concorsuali o selezioni interne di candidati particolarmente meritevoli) o  finanziare concorsi di ricercatori di tipo B (di solo in misura ridotta perché ormai negli ultimi anni il MIUR in legge di stabilità assegna su proprio budget posti di Ricercatori tipo B agli Atenei) mentre almeno il 20% delle risorse deve essere dedicato ai concorsi riservati a candidati esterni agli Atenei (color che non hanno avuto alcun rapporto contrattuale, didattico o di ricerca negli ultimi 3 anni con l’Ateneo sede del bando concorsuale).

Nella stragrande maggioranza degli Atenei, anche per la notevole pressione interna del personale docente e ricercatore, questo rapporto di 80% vs 20% viene rispettato con questi rapporti o con piccole variazioni. Ne deriva che chi viene penalizzato da una ridotta disponibilità di punti organico non sono tanto i concorsi esterni che obbligatoriamente devono essere svolti (almeno per il 20% del totale) ma piuttosto i docenti interni che hanno più difficoltà nelle progressioni di carriera. Poiché il potenziale formativo degli Atenei è funzione del rapporto tra numero globale di docenti e ricercatori e corsi di laurea erogati, non essendoci differenza nel conteggio tra professori Ordinari ed Associati ma solo tra docenti e ricercatori, la riduzione del numero di punti organico può solo avere un minimo impatto per quanto riguarda il passaggio di ricercatori al ruolo di docenti anche a causa della differente valenza delle due categorie ai fini del conteggio del personale di ruolo afferente ai corsi di laurea. Quindi ne deriva che la riduzione dei punti organico va ad incidere negativamente e prevalentemente sul passaggio di ruolo da Ricercatore ad Associato e da Associato a Ordinario e non sull’offerta formativa.

Prova di queste affermazioni e il continuo divenire dell’offerta formativa degli Atenei Campani che, indipendentemente dal numero di studenti ad essi iscritti, dalla loro capacità formative, dalla loro dislocazione territoriale, specificità culturali e status giuridico, annualmente rinnovano ed arricchiscono la loro offerta formativa senza che via sia un significativo impatto delle variazioni nell’assegnazione dei punti organico da parte del MIUR. Si potrebbe argomentare che un maggior numero di punti organico potrebbe spingere gli Atenei ad aumentare la quota di concorsi esterni da bandire e quindi a passare con maggior facilità da un 20 ad un 30% per esempio. Questo è assolutamente corretto in via teorica un po’ meno in via pratica, essendo l’attuale sistema universitario arroccato essenzialmente su un sistema “protezionistico” dove si tende sempre a privilegiare, nella maggioranza dei casi, il personale che si ha la proprio interno piuttosto che quello esterno. Tale tipo di atteggiamento è prevalentemente favorito dall’attuale legislazione che prevede un costo fortemente ridotto dei passaggi di ruolo all’interno di ciascun di Ateneo nei confronti delle assunzioni dall’esterno. Infatti avendo come metro di misura l’utilizzo di 1 punto organico per un ipotetico ruolo di professore ordinario, nel caso di docenti esterni all’Ateneo sarebbe necessario impegnare l’intera risorsa per un solo professore mentre con lo stesso punto organico se ad esso accede personale dell’Ateneo titolare del bando di concorso si possono finanziare 3 ruoli di professore ordinario. Ne deriva che se si volesse per davvero incrementare (come giustamente dovrebbe essere fatto in un sistema universitario forte, libero e circolare) il flusso dei docenti tra le varie università,  andrebbe prima di tutto eliminata questa anomalia che già dal punto di vista legislativo sposta e spesso indirizza le scelte degli Atenei verso altri tipi di politiche assunzionali.  Da tutto ciò ne consegue che certamente la ridotta disponibilità di Punti Organico da parte degli Atenei meridionali può essere un ulteriore svantaggio nei confronti di quelli del Nord ma dire che questo parametro va ad impattare negativamente sull’offerta formativa è certamente un falso problema perché l’offerta formativa non può crescere a dismisura e deve invece essere calibrata su capacità dell’Ateneo e sulle necessità del territorio.

Non è quindi la quantità dei Corsi di laurea erogati che fa la differenza ma la qualità e per puntare sulla qualità non è assolutamente detto che i professori esterni all’Ateneo siano la panacea del problema, mentre sicuramente lo sono, anche in relazione ai servizi offerti agli studenti, le scelte strategiche culturali e di bilancio di ciascun Ateneo. 

Pubblicato su Corriere del Mezzogiorno del 16 ottobre 2019

I vulcani attivi sono per definizione pericolosi, ma attenzione va fatta anche a quelli che oramai hanno esaurito la loro propulsione eruttiva, in quanto possono diventarlo in determinate e talvolta eccezionali situazioni.

Mentre sui vulcani attivi, quando avviene un incidente, non c’è dubbio ci sia una forte componente di errore (e di colpa) da parte nostra, nel secondo caso la componente errore viene spesso a mancare e possiamo anche parlare di tragica fatalità.

Stranamente dopo l’evento esplosivo del 4 Luglio, i mezzi d’informazione, anche i social, non si sono interessati più di tanto alla morte dell’escursionista, colpito da malore mentre tentava, insieme ad un altro turista, di mettersi in salvo dalla furia del vulcano. E’ ancora più strano che nessuno si sia domandato cosa sia accaduto e come sia potuto accadere.

La domanda che avrei gradito che i media si ponessero è probabilmente se lo Stromboli sia o no un vulcano pericoloso e soprattutto se le tecnologie a disposizione siano in grado o meno di prevedere eventi eruttivi, di piccola energia, come quello del 4 Luglio, ma in grado di creare enormi disagi e nella peggiore ipotesi, uccidere.

Lo Stromboli è una delle pietre miliari della vulcanologia. E’ conosciuto sin dall’antichità come il faro del Mediterraneo e da quando l’uomo ha cominciato a solcare i mari, è attivo. Si potrebbe dire, che lo Stromboli a memoria d’uomo è il vulcano che ha accompagnato la civiltà mediterranea. Il faro naturale che accompagnava la navigazione notturna e grazie al suo fuoco eterno permetteva ai marinai di orientarsi la notte. L’isola di Stromboli è stata sede anche d’insediamenti preistorici, come quello di San Vincenzo e questo probabilmente ci permette di capire che il vulcano era spesso in fasi eruttive ”tranquille”. E l’attività stromboliana quasi certamente era legata a eventi esplosivi di bassissima energia con l’emissione di prodotti quali, scorie (brandelli di lava incandescente), bombe, ceneri e lapilli di piccole dimensioni che non superavano il perimetro dei crateri sommitali. Certamente quest’attività deve aver favorito gli insediamenti dell’epoca, dovrebbe comunque far riflettere che all’improvviso questi siano spariti e solo dopo diversi secoli l’uomo sia tornato a colonizzare l’isola.

Nel 1891 Stromboli contava 2700 abitanti ed era l’isola più abitata dell’arcipelago delle Eolie dopo quella di Lipari. A causa della fortissima esplosione del 1930 e dell’arrivo della peronospora che distrusse completamente le vigne locali (prima attività) dell’isola, nel 1951 l’isola contava solo 659 abitanti. Oggi non arrivano a 400.

In tempi più recenti, basta pensare agli ultimi anni (2002/2003 e 2007), il vulcano ha dato vita a diversi simili eventi parossistici (dove per parossismo s’intende un evento esplosivo di energia superiore, o molto superiore, alla media) che hanno eiettato prodotti vulcanici ad altezze molto basse, vicino agli insediamenti abitativi. Creando panico tra la popolazione (locali e turisti), incendi di arbusti e bassa quota e piccoli tsunami (onde anomale di piccola altezza).

Il fatto che ci sia “scappato il morto” sembra non interessare a nessuno. E a nessuno è venuto in mente di fare un minimo di chiarezza su quanto accaduto. Viviamo in un’era tecnologicamente avanzatissima, ma facciamo enorme fatica a comprendere come e soprattutto quando avvengono, alcuni eventi naturali. Dando per scontato che i terremoti non si prevedono, e non ci sono risorse affinché almeno ci si provi, gli eventi vulcanici sono più alla nostra portata. Nonostante ciò, é il caso di dirlo con chiarezza, questo tipo di attività non è al momento prevedibile e non ci sono i presupposti per farlo neanche nel breve periodo.

Lavorando su vulcani attivi da oltre 30 anni ho capito che anche con tecnologie avanzate è decisamente difficile prevederne l’attività, il come, il quando … indipendentemente dalla magnitudo dello stesso evento.

Visto questo gap conoscitivo, incolmabile al momento, sarebbe il caso invece che ci si apra alle popolazioni esposte al rischio (su tutti i disastri naturali), comunicando loro nel modo più semplice possibile quello che ci si aspetta da quel determinato vulcano. Indirizzandoli verso un utilizzo sostenibile e consapevole delle aree dove vivono. Un educazione di base sui rischi naturali manca nel nostro paese e sembrano esserci sempre meno risorse per programmi che aumentano il grado di conoscenza delle popolazioni sotto l’incubo dei vulcani.

Sarebbe anche il caso che i ricercatori, intesi come tutti coloro che lavorano sui rischi naturali, abbiano l’onestà culturale, davanti al paese e soprattutto alle popolazioni esposte ai rischi (90% del territorio Italiano lo è) di dire chiaramente che molti di questi piccoli, ma decisamente pericolosi, eventi non possono in alcun caso essere previsti. Un bagno di umiltà che farebbe bene a tutti e porrebbe gli addetti ai lavori in una situazione meno complessa e permetterebbe di lavorare in maniera più tranquilla.

L’Italia prima è in Europa e seconda al mondo (dopo il Messico) per consumo pro capite di acqua minerale in bottiglia (oltre 220 litri pro capite/anno, 9 persone su 10 la bevono e 8 su 10 ne bevono almeno mezzo litro al giorno). Quando ci si trova di fronte ad un successo così evidente di un prodotto, le ragioni sono sempre da ricercare sia nella domanda che nell’offerta;
Dal punto di vista dell’offerta è evidente che il nostro paese abbia una grande tradizione di acque minerali e termali; a questa si associa una notevole quantità di fonti distribuite su tutto il territorio nazionale (circa 700) e di produttori (sia locali sia facenti capo a gruppi nazionali sia a multinazionali). Siamo i maggiori produttori in Europa con 700 sorgenti e 250 marchi.
E’ un prodotto con cui gli italiani hanno grande familiarità e grande consuetudine.
Dal punto di vista della domanda noi italiani spesso non conosciamo mezze misure, soprattutto quando un prodotto (a qualsiasi cosa serva) diventa “di moda”, “di tendenza”; è il caso dei cellulari, anche in questo caso siamo primi in Europa per numero di cellulari ogni 100 abitanti.
Inoltre è innegabile che ci sia ancora una marcata diffidenza nei confronti dell’acqua di rubinetto; qui però i produttori di acqua minerale hanno avuto vita facile, perché si sono trovati a competere con soggetti (parlo delle aziende, municipalizzate o regionali che siano), che gestiscono l’acqua pubblica e che, pur avendo un prodotto spesso eccellente dal punto di vista qualitativo, non riescono a “venderlo” bene. Avrebbero le condizioni ideali per avere successo: alta qualità e basso prezzo, ma dovrebbero essere molto più efficaci nell’educazione dei consumatori e nel marketing. In altri casi, in alcune grandi città invece il prodotto è davvero scadente e quindi la scelta dell’acqua minerale è quasi obbligata.

Il grande successo delle acque minerali dipende anche dalle molteplici motivazioni di acquisto di questo prodotto. In primo luogo, sembra banale, ma le ricerche di mercato dicono che i consumatori affermano di bere acqua minerale “perché é buona, mi piace”. In realtà, se scendiamo un po’ più nello specifico le motivazioni di acquisto sono anche molto diverse. Qui occorre fare una distinzione tra benefici funzionali e simbolici. Nell’ambito dei benefici funzionali, ovvero quelli legati alle caratteristiche intrinseche e organolettiche del prodotto, ovviamente c’è innanzitutto la voglia di dissetarsi, ma a questa si aggiungono altre motivazioni: il gusto diverso, le valenze salutistiche, potere diuretico, riduzione sali; per non parlare della comodità di utilizzo: è un prodotto sempre a portata di mano.
Poi ci sono i benefici simbolici, ovvero legati a ciò che un prodotto rappresenta, E’ il caso di alcune acque che ormai sono divenute veri e propri “status symbol”: le modelle della settimana della moda a Milano girano tutte con la stessa bottiglia; i ristoranti di tendenza a New York servono sempre le stesse due marche (una italiana e una francese in vetro), perché l’acqua minerale all’estero è considerata un’espressione dell’Italian way of life e del made in Italy. Fino all’acqua con il marchio di Chiara Ferragni, per la quale, evidentemente, l’acquirente è interessato al contenitore con il logo, piuttosto che al contenuto.

Il fenomeno del momento è rappresentato dalle acque minerali funzionali o profumate. Il loro successo si spiega nella capacità di ampliare i benefici offerti dal prodotto; in pratica con lo stesso prodotto si soddisfano bisogni nuovi. Le acque funzionali vengono utilizzate per l’eliminazione delle tossine, ma anche per svolgere funzioni di tipo drenante, energizzante, brucia-grassi, digestiva, rinfrescante o antiossidante.
L’acqua aromatizzata aiuta a bere maggiormente grazie al suo gusto gradevole e non neutro e al contrario dei succhi di frutta contiene solo zuccheri sani.
Non è facile capire se il successo di queste varianti di prodotto sarà duraturo; la stessa cosa sta accadendo con il sale, dove assistiamo ad una continua proliferazione: “dell’Himalaya”, “del Mar Morto”, “rosa”, “azzurro”, ecc.
Come sempre, il loro successo in futuro dipenderà essenzialmente dalla capacità di soddisfare un reale bisogno del consumatore e di creare valore per l’acquirente.

 

Un incremento delle iscrizioni ai corsi di laurea triennali e a ciclo unico dell'oltre 6 per cento, e circa il 3 per cento di iscritti in più ai corsi magistrali rispetto all’anno accademico 2017-2018: sono numeri costantemente in crescita quelli dell'Università Vanvitelli, che guarda sempre di più al futuro con l’ampliamento della sua offerta formativa grazie al corso di laurea triennale professionalizzante in «Tecniche per l'edilizia, l'ambiente e il territorio, rivolta a geometri, inserito nel programma del dipartimento di ingegneria di Aversa, che partirà il prossimo anno. «Un percorso attraverso il quale si cerca di investire nel territorio per migliorare la qualità – ha spiegato il Rettore Giuseppe Paolisso - e la specificità professionale dei geometri».

Il corso non è l’unica novità nel ventaglio delle possibilità che la Luigi Vanvitelli offre a tanti giovani della Campania e non solo: al infatti a giugno le attività di Officina Vanvitelli, un future lab ospitato nel sito di San Leucio, destinato alla formazione post laurea del dipartimento di Architettura e Design industriale dell'Ateneo. Master, laboratori, seminari, convegni dedicati in particolar modo al Design per la Moda. «I laureati in Design e Moda di tutto il territorio nazionale saranno messi a contatto con le principali case di moda della regione Campania, per sviluppare le loro idee - ha evidenziato Paolisso - anche grazie al supporto, per la creazione di spin-off e startup, di partner come Unicredit e Banca Intesa San Paolo».

Dalla moda all’acquisizione di nuove tecnologie, soprattutto in campo medico. L’università ha investito 10 milioni di euro in strumentazioni d’avanguardia, alcune altamente specialistiche, come quelle adoperate nei laboratori di biologia molecolare e di genetica dell’Ateneo.

«Con questo impegno riteniamo di dare anche un ulteriore servizio al territorio – ha sottolineato il Rettore - queste macchine non solo saranno utilizzate dal punto di vista sperimentale, ma anche con una chiara applicazione clinica, che non è facilmente riscontrabile nel Nord Italia e in Europa».

Un Ateneo che punta sempre di più a offrire servizi di qualità ai suoi studenti anche per quanto riguarda i trasporti e la mobilità. Sarà infatti intensificato l’innovativo sistema di navetta, una delle novità introdotte del rettorato di Paolisso, che grazie ad una forte collaborazione con il Comune di Caserta consente ai ragazzi di raggiungere le sedi di studio con grande facilità e flessibilità di orari. Un servizio che si aggiunge a quello del parcheggio gratuito.

Una università a misura di studente, ancora più pronta ad attrarre giovani cervelli per farli sentire innanzitutto parte di una squadra anche grazie ai nuovi mezzi di comunicazione. «L’apertura di una radio di Ateneo servirà ai ragazzi per socializzare e stare insieme – ha raccontato Paolisso - per la nostra distribuzione territoriale non possiamo avere un campus, ma ci immaginiamo come un cloud, attraverso il quale noi possiamo mettere in connessione i ragazzi, e farli sentire partecipi di un sistema che sarà potenziato con il merchandising dell’Ateneo”. Come in un vero e proprio college americano, i ragazzi potranno avere dei gadget con il nuovo logo dell’università, che ha messo definitivamente in soffitta l’acronimo S.U.N (Seconda Università di Napoli).

«L'università Vanvitelli nasce dalla Seconda Università, ma oggi assume altre caratteristiche e si è riposizionata nell'ambito del sistema universitario italiano – ha puntualizzato il Rettore - Abbiamo rilanciato la nostra offerta formativa e migliorato molto anche la comunicazione della stessa. I dati degli iscritti testimoniano che il nostro lavoro sta dando i suoi frutti».

Parigi, tardo pomeriggio di lunedì 15 aprile 2019: un’enorme nuvola di fumo nero s’innalza su la île de la Cité e, sotto di essa, la Cattedrale di Notre Dame avvolta dalle fiamme. Il principale luogo di culto della capitale, gioiello architettonico del gotico francese che annovera tra i suoi principali modelli anche le cattedrali di Chartres e Reims, ridotta ad un braciere ardente. Un braciere architettonico che non riscalda bensì raffredda la mente e congela lo spirito di un continente e del mondo intero. L’incendio di Notre Dame de Paris è una ferita profonda inferta non solo al tessuto edilizio parigino ma anche e soprattutto alla cultura architettonica europea. Iniziata a costruire nel 1163, consacrata nel maggio del 1182 e completata nel 1344 sotto la direzione dei lavori di Jean Ravy, architetto della cattedrale sin dal 1318, mai prima di ora, la basilica di Notre Dame aveva subito un’offesa simile, tanto lacerante e distruttiva. Una magnifica costruzione a cinque navate caratterizzata al suo interno da snelli pilastri polilobati in grado di reggere le altissime volte a crociera costolonate e protette, a loro volta, dal sovrastante tetto a falde inclinate retto da capriate lignee chiamate, per la loro densità, “la forêt”. Una fitta struttura lignea andata distrutta interamente che, ad eccezione di quella sovrastante il transetto ricostruito ex-novo nel 1860 da Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc, era collocata in sito sin dal tredicesimo secolo ed era composta anche da parti lignee più antiche, risalenti al IX secolo, appartenute al precedente impianto della chiesa di Santo Stefano, poi demolita per costruire la nuova cattedrale parigina.

image2.jpegL’incendio de “la forêt” di Notre Dame non ha cancellato per sempre soltanto quei legni antichi di sostegno al tetto a falde inclinate ma ha ridotto in cenere anche il germoglio più giovane e maggiormente emblematico di quella foresta pensile ovvero “la flèche”, la guglia lignea realizzata dal falegname Bellu e dagli Ateliers Monduit su disegno di Viollet-le-Duc cosi come rappresentata, nel 1856, nel suo Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XI eau XVIe siécle. Alta quarantacinque metri e appoggiata direttamente sui quattro pilastri della crociera nel punto d’incontro tra il tetto del transetto, quello del coro e quello della navata centrale, il crollo della “la flèche”, in seguito all’incendio innescatosi nell’ennesimo cantiere di restauro della cattedrale, ha rappresentato, a livello simbolico e mediatico, l’evento maggiormente emblematico della tragedia parigina: una drammatica immagine, diffusa dai media di tutto il mondo in diretta, capace di richiamare alla mente un’altra recente tragedia avvenuta oltre oceano nel settembre del 2001 ovvero il collasso del pinnacolo di una delle due Twin Towers di New York che preannunciava la definitiva cancellazione, dallo skyline urbano, dei due altissimi simboli della modernità architettonica della città americana. Per fortuna, a differenza della tragedia newyorkese, non tutto, a Parigi, è andato perduto.

image1.jpegLa Cattedrale di Notre Dame, dopo l’incendio, è ancora una bellissima scatola muraria che ha perso il suo tetto, sinonimo di protezione, e il suo profilo superiore, quello che normalmente si stagliava nel cielo sopra Parigi. Una scatola muraria definita morfologicamente non solo dai due torrioni laterali al portale d’ingresso ma anche e soprattutto dagli slanciati contrafforti in pietra sovrastati dai meravigliosi archi rampanti che, consentendo lo sviluppo in altezza dei muri perimetrali, sottolineano i veri caratteri d’identità strutturali e formali della fabbrica gotica. Una struttura portante, quella degli archi rampanti, che Arthur Schopenhauer, nel suo libro Il mondo come volontà e rappresentazione, paragonava alle radici pensili degli alberi d’alto fusto delle foreste tropicali. Ebbene, la spoglia scatola muraria di Notre Dame che con i suoi archi rampanti, tramite i sottostanti contrafforti, tiene ancorata la struttura lapidea al terreno dell’ île de la Cité saprà recuperare nuova linfa vitale, così come le radici pensili degli alberi della foresta tropicale, non solo dal suo terreno di appartenenza, ovvero Parigi e la Francia, bensì da tutto il mondo occidentale. Una comunità storicamente e socialmente omogenea che non può perdere una testimonianza architettonica tanto importante per la sua stessa identità che si esprime nella memoria collettiva e nella capacità di proteggere il proprio patrimonio culturale ovvero quello ereditato dal passato, tutelato nel presente, e trasferito, possibilmente valorizzato al futuro ed alle nuove generazioni. Il restauro architettonico della cattedrale parigina saprà avvalersi delle competenze disciplinari che il mondo accademico europeo detiene all’interno delle sue università e dei suoi eccellenti centri di ricerca restituendo a Parigi, prima, ed al mondo, poi, Notre Dame nella sua interezza tipologica e morfologica ponendo rimedio ad un fatale incidente che, speriamo, sarà l’ultimo della sua lunga e gloriosa esistenza architettonica.

Paolo Giordano, Coordinatore del Dottorato di Ricerca in “Architettura, Disegno Industriale e Beni Culturali” dell’Università degli Studi della Campania_ Luigi Vanvitelli.



 

Il Punto di Vasco D'Agnese - docente di Pedagogia generale e sociale e e delegato di Ateneo alla Disabilità

 

A partire almeno dalla fine degli anni Novanta la visione che abbiamo della disabilità è decisamente cambiata. La nostra percezione, ed il lavoro che viene fatto con soggetti in condizione di disabilità, sono mutati profondamente, passando da un lavoro quasi esclusivamente compensativo ad una visione ed un lavoro di tipo inclusivo, che guarda alle potenzialità dei soggetti.

Da questo punto di vista l’intervento con studentesse e studenti in condizioni di disabilità parte non solo e non tanto dai bisogni e dai problemi che il soggetto incontra, ma dalle possibilità che il soggetto esprime, valorizzandole, ampliandole, dando a queste potenzialità il sostegno adeguato. Che è, in fondo, ciò che ogni educatore prova a fare, chiunque sia la persona con la quale lavora.

Oggi comprendiamo pienamente che ogni ‘saper fare’ è immerso in una condizione di contesto. Detto altrimenti, non esiste il ‘so fare’, puro e semplice; esiste il ‘so fare con’, ‘so fare se’ e, soprattutto, esiste il ‘so fare per’. Questa condizione relazionale della competenza accomuna donne e uomini, qualunque sia la loro provenienza e la loro condizione psico-fisica. L’educazione è ciò che mette ognuno di noi nelle migliori condizioni di fare ciò che sa fare, di esprimere il proprio talento. Educare è produrre strutture di sostegno, e tutti ne abbiamo bisogno. Comprendere la specificità delle strutture da produrre per ogni singolo caso, capire come, quanto e quando sostenere e come, quando e quanto lasciare andare è la vera difficoltà, che accomuna docenti, genitori, ed educatori che lavorano con soggetti in condizione di disabilità. Questo è anche il lavoro che il Centro di Ateneo per l’Inclusione degli Studenti con Disabilità e DSA (CID) prova a fare, offrendo servizi personalizzati volti al miglioramento delle qualità di vita universitaria per gli studenti che sperimentano una condizione di limitazione nella partecipazione alle attività accademiche.

Tutti gli studenti in procinto di iscriversi, o regolarmente iscritti alla Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, possono rivolgersi al CID. In particolare, i servizi sono dedicati a studenti con disabilità, studenti con DSA e studenti in condizione di disagio o difficoltà transitorie. Per accedere ai servizi, occorre richiedere un incontro con gli operatori del CID, telefonando dal lunedì, al giovedì dalle 09.30 alle 12.30 al num. 0823 274402 o inviando una email all’indirizzo: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..

Il personale del Centro e i diversi delegati di Dipartimento lavorano per offrire orientamento e sostegno a studentesse e studenti in tutte le fasi del loro percorso di formazione e studio, per valorizzare e ampliare le loro potenzialità.

Il Punto di Giuseppe Paolisso - Rettore dell'Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli

 

Il 23 gennaio, presso il Belvedere di San Leucio, è stata inaugurata “Officina Vanvitelli” e, per l’occasione, si è svolta la cerimonia di conferimento della Laurea Honoris Causa a Rosita Missoni Jelmini.

Ma quale è il progetto di Officina Vanvitelli e quale la relazione tra i due eventi? L’obiettivo della Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, ambizioso ma concreto e strutturato, è quello di creare un hub dedicato a ospitare percorsi di formazione post-laurea avanzata destinati a intercettare – e formare – giovani talenti in grado di portare sviluppo, innovazione, creatività, e quindi generare economie, nel nostro territorio. I dati Alma Laurea indicano che, a fronte di bassi numeri di occupazione post laurea triennale e di bassissima esperienza all’estero, di contro il tasso di occupazione post laurea magistrale aumenta in modo esponenziale – il 61% che diventa il 77% a cinque anni dalla laurea – a dimostrazione che vi è una richiesta molto importante di profili altamente specialistici e con un livello di competenze articolato e completo. Questo 77% di occupati confluisce prevalentemente – per il 75% - nel settore privato.

Ma quali sono le imprese private locali? E come mai una richiesta così importante di capitale umano? La Campania ha sofferto per anni i ritardi della modernizzazione lamentando un mancato sviluppo industriale che oggi, invece e per paradosso, dimostra di essere il suo vantaggio competitivo. Il tessuto imprenditoriale campano, infatti, è costituito per la maggior parte da imprese piccole e medie che hanno fondato la propria ragion d’essere sulla valorizzazione della cultura artigianale locale consentendo una saldatura tra artigianato di grande qualità e una organizzazione in parte industrializzata. Questa scommessa locale, gemmata in seno ad una esigenza strutturale, l’impossibilità cioè di competere con le culture industriali intensive delle altre regioni del nord Italia, ha alimentato un sapere locale che ha fatto del proprio ritardo un pionierismo illuminato e coraggioso, teso a trovare soluzioni spregiudicate e alternative alle produzioni intensive e standardizzate europee. Succede così che le imprese campane abbiano fatto della qualità una scelta di vita, orientandosi su un modello produttivo locale HandMade Industry; un modello cioè, in grado di coniugare il sapere artigianale all’interno di un ciclo produttivo di tipo industrializzato. Scelta che si sta dimostrando vincente comprovata anche dai dati provenienti dalla crisi economica del primo decennio del 2000 che ha dimostrato come i consumi si focalizzino ormai, su scelte di alta qualità, secondo il principio Less but Better.

In questo contesto così caratterizzato l’Università Vanvitelli ha intercettato un vuoto formativo, quello spazio di alta specializzazione - nel design della moda, della comunicazione e del prodotto - che deve poter creare un anello di connessione tra Imprese locali e corsi di alta formazione. Un percorso formativo teso a formare figure altamente specializzate – tailored profile – in grado di coniugare il sapere artigiano locale con le più avanzate ricerche e sperimentazioni tecnologiche, produttive, distributive, ma, soprattutto, un percorso formativo che possa “trattenere” i nostri cervelli più brillanti per contribuire allo sviluppo dei nostri territori.

In questo senso la politica dell’Università Vanvitelli è stata, attraverso la creazione di Officina Vanvitelli, quella di farsi promotrice della costruzione di partenariati tra Imprese locali, università banche e istituzioni , tese a lavorare insieme per creare quella futura classe dirigente in grado di traghettare la nostra economia in quel mercato di alta qualità che si profila essere – e già lo è – la vera opportunità del futuro sia in ambito nazionale che ancor di più, internazionale. La possibilità di promuovere un “Italy Made” partendo dal sud.

Questa è la sfida di Officina Vanvitelli e il modo migliore per presentare il progetto ci è sembrato essere il conferimento della laurea honoris causa a una figura prestigiosa, riconosciuta e stimata come Rosita Missoni Jelmini proprio per i caratteri di affinità presenti nel progetto Missoni: una azienda che ha fatto del coraggio della sperimentazione la propria forza, della volontà di restare nel proprio paesino di origine la propria missione, della volontà di andare nei mercati del mondo la propria visione. Ecco, questo è anche il progetto di Officina Vanvitelli.

Pubblicato su Corriere del Mezzogiorno del 29 gennaio 2019

Lo sviluppo delle biomasse, e la loro potenzialità in diversi ambienti produttivi ed energetici, è ormai radicato nella nostra economia, e parte solitamente dall'agricoltura. Ma esistono biomasse, sia marine che d'acqua dolce, utilizzate in vari ambiti: dalla farmaceutica alla cosmetica, fino alla produzione di mangimi per pesci. Oggi, un progetto H2020 denominato "Valuemag" si propone di realizzare soluzioni innovative per la produzione di biomasse microalgali: ci si basa su nanotecnologie magnetiche, facendo cioè crescere le microalghe all'interno di un foto-bioreattore magnetico costrutio ad hoc. "Un sistema che permetterà di minimizzare il volume d'acqua necessario e di ridurre il tempo di raccolta delle alghe" spiega il professore Dino Musmarra dell'Università Vanvitelli, che assieme all'ENEA rappresenta l'Italia nella nutrita partnership europea del progetto. Chiuso con successo il primo anno di lavoro, VALUEMAG ha ancora due anni per realizzare i propri obiettivi: fra i quali la produzione di molecole per i settori interessati (farmaceutico, alimentare, cosmetico) e la possibilità di far diventare il foto-bioreattore uno strumento appetibile per l'industria europea.

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