Perché tante donne e ragazze sono ancora vittime di violenza. Ce lo chiediamo tutti, al di là di chi se ne occupa per lavoro.

Se poi la violenza colpisce giovani ragazze, dell’età anche di molte studentesse delle superiori o dell’università, questo impressiona ancora di più. E quello che spaventa e indigna è anche che gli artefici di quelle violenza sono anche loro spesso molto giovani, di buona famiglia, persone qualsiasi.

C’è qualcosa che può preservarci dal rischio della violenza? Rispondere NO, è inquietante. Anche perché la violenza è una scelta, non è un ‘virus’ che viene da un altro paese e ci sta invadendo e per contrastarlo e difenderlo dobbiamo combattere contro qualcosa o qualcuno che è lontano, è distante. La violenza contro le donne non è un problema di ‘sicurezza pubblica’. Non è una questione che va affrontata con gli stessi strumenti o politiche con cui si cerca di prevenire e contrastare il terrorismo. Tutte le forme di terrorismo, o di criminalità organizzata.

La violenza contro le donne che ha origine nei secoli ha radici culturali, sociali, storiche, relazionali profonde. Forse anche per questo che è così difficile da debellare.

Molti non la riconoscono, perché molte forme di violenza non si ritengono nemmeno tali. E non importa quello che dice la nostra legge e il codice penale. Pensiamo al delitto di onore (ex art. 587 c.p.) che prevedeva una pena che andava solo dai 3 ai 7 anni in caso di omicidio commesso dal marito che scopriva la moglie averlo tradito e per preservare il suo onore (misogino) la uccideva.

Oggi nel nostro paese così come in molti paesi occidentali ci sono leggi severe, che riconoscono la violenza contro le donne come un reato grave, in tutte le sue espressioni. Dal 1 agosto 2014 è entrata in vigore la così detta Convenzione di Istanbul ratificata anche dall’Italia che prescrive ai Paesi che ad essa hanno aderito tutta una serie di strategie di prevenzione, di protezione e di intervento volte alla eradicazione della violenza di genere.

 

Ma le cronache ci ricordano altro. E allora se andiamo anche a valutare le ricerche fatte in questo ambito capiamo anche come la legge da sola non basta. Emerge infatti da studi fatti anche presso il nostro Ateneo (Dipartimento di Psicologia, www.sara-cesvis.org) che quando si parla di violenza contro le donne, non si guarda a questi reati con la stessa ‘obiettività con cui si guarda e quindi si gestiscono altri reati contro la persona. Si cercano e si utilizzano spesso fattori così detti ‘extra legali’ che non hanno niente a che vedere con quello che realmente accaduto ma che vengono utilizzati per colpevolizzare la vittima, per ridurne la credibilità e per giustificare in parte quello che accade. Stereotipi, preconcetti spesso di matrice misogina ma che anche dalla ricerca scientifica si vede che interferiscono con le decisioni che devono prendere professionisti nel prestare aiuto alle donne vittime ma anche con le azioni che tutti, amici, vicini di casa, passanti potrebbero e dovrebbero mettere in atto quando vengono a conoscenza di un caso di violenza. E invece spesso si rimane in silenzio. E il silenzio e l’isolamento per una donna che subisce violenza è terreno fertile per chi la perpetra.

Se poi una giovane ragazza scambia il controllo, la gelosia, la sopraffazione come indice di qualcuno che ti ha a cuore, comprendiamo come sia ancora più complesso uscire dalla violenza perché sono le stesse donne che subiscono violenza, anche le giovanissime, a trovarsi in un circolo vizioso dal quale il loro aguzzino, da abile regista, muove le scene. Ma una donna, una giovane ragazza in queste condizioni si indebolisce, ha paura, è confusa, teme, ma ha anche paura del giudizio. Alcune ragazze, ma anche donne adulte, hanno un tale bisogno di attenzione e amore e protezione, e spesso hanno anche bassa autostima, che credono alle promesse, all’affetto simulato a volte travolgente e struggente che alcuni di questioni maltrattanti abilmente mettono in scena. E la trappola è scattata, e la donna, la giovane ragazza non si rende conto del perfido meccanismo in cui è stata intrappolata.

Ma un’alternativa c’è.

Parlarne. Con la collega, con l’amica, con un familiare o con uno dei centri antiviolenza sul territorio (i numeri si trovano al 1522). La Cooperativa EVA con i suoi numerosi sportelli su territorio Casertano e Campano può con discrezione ma professionalità ascoltare a aiutare la donna a capire cosa le accade e se si tratta di violenza, qualsiasi forma di violenza, trovare il modo di uscirne fuori indenne.

Anche al Dipartimento di Psicologia da anni ci occupiamo di queste tematiche al Centro Cesvis e attraverso sia studi, sia corsi di formazione (http://www.psicologia.unina2.it/it/alta-formazione/corso-di-alta-formazione-per-esperte-i-nella-gestione-dei-casi-di-violenza-di-genere-maltrattamenti-e-stalking-e-nella-valutazione-del-rischio-di-recidiva) sia grazie alla valutazione del rischio (www.sara-scesvis.org) e con lo sportello di ascolto, possiamo con discrezione e nel rispetto della privacy aiutare a capire meglio cosa accade e cosa si può fare.

A breve stiamo anche per lanciare, primo in assoluto a livello nazionale, un insegnamento ad hoc sulle relazione pericolose da vari punti di vista e approcci (psicologici, giuridici e medici) disponibile per tutti gli studenti della triennale che avranno così le basi, a prescindere delle loro professioni future una conoscenza di cosa è la violenza contro le donne e come poter riconoscerla e prevenirla o ridurla.

di Anna Costanza Baldry, Dipartimento di Psicologia

 


Per maggiori informazioni:

http://www.sara-cesvis.org/

http://www.sara-cesvis.org/index.php?option=com_content&task=section&id=23&Itemid=148

Comunicare l’Università: le ragioni di una scelta.
Comunicare una istituzione pubblica come quella di una università non è mai operazione semplice nel suo posizionarsi – il processo progettuale e gli obiettivi della comunicazione – in quella linea sfumata nella quale le teorie del branding si intrecciano con la comunicazione di pubblica utilità o, ancora più specificatamente, con la comunicazione degli istituti di cultura.

Lungi dal voler stilare una ricognizione storica su quella stagione della Grafica di Pubblica Utilità1 che tanto ha animato il dibattito degli anni ’80 e ‘90, ci preme sottolineare, in questa sede, come la necessità di costruire una propria identità, per gli istituti universitari, sia diventato, oggi più che mai, un imperativo. Ma non perché un Ateneo sia assimilabile a un prodotto da commercializzare - tutt’altro – ma quanto invece perché il suo sistema identitario diventa strumento di connessione e dialogo attraverso la declinazione di artefatti, cartacei e digitali, che non a caso, proprio nel catalogo della mostra parigina del 1988 al Centre Pompidou- Images d’utilité publique – furono definiti “oggetti pubblici”2 .

Questa definizione è più che mai attuale e chiarisce l’aspetto centrale del ruolo prima di tutto sociale che un sistema identitario per una istituzione pubblica deve avere che non è solo strumento per diffondere il proprio brand quanto, invece, per comunicare la propria policy e affermare il proprio ruolo politico, di governo, culturale, e anche strategico in relazione al territorio nel quale si inserisce, al network nazionale e internazionale nel quale vuole vivere e per quell’utenza, interna ed esterna, che è il vero attore della vita di un Ateneo. Un vero strumento di dialogo, quindi, che non può essere demandato solo al disegno di un “logo”, magari esteticamente anche gradevole, ma privo di quei contenuti valoriali che un falso sistema botton up non sarebbe in grado di fare evolvere, bensì una vera e propria architettura di brand, capace di veicolare valori condivisi e documentati, costruiti attraverso una visione strategica e di sistema.

Queste, tra le altre, le ragioni che hanno accompagnato la giuria interazionale dalle prime fasi di apertura dei plichi e analisi dei progetti, fino alle valutazioni conclusive, per un concorso internazionale – aperto a tutti i progettisti e vincolato dall’anonimato - che si presentava come una sfida non facile, sia per i suoi aspetti tecnici che di contenuto. Il bando infatti, e il brief allegato, richiedevano la progettazione di un sistema identitario in grado di poter essere declinato su un doppio registro – uno istituzionale di rappresentanza degli organi di governo dell’Ateneo e delle sue strutture – e uno più divulgativo e friendly – in grado di aprire ad un pubblico più ampio non necessariamente interno all’istituzione. Operazione non facile laddove i due registri, seppur differenziati, avrebbero dovuto comunque convergere su un sistema di identificazione unico, forte e a chiara riconoscibilità.

Altro aspetto di non facile gestione, la necessità di staccarsi da un segno, il precedente emblema, che seppur nel suo tentativo di rievocare origini storiche, attraverso la forma a medaglia, di fatto lasciava intravedere nella declinazione debole degli elementi iconici coinvolti, la sua reale giovane età. L’inversione narrativa che quindi si è voluta dare, con il cambio di naming prima e con il concorso di rebranding poi, ha voluto significare diverse cose: da un lato la necessità di fare chiarezza sulle proprie origini rivendicando la propria natura contemporanea come vantaggio competitivo laddove la connotazione storica la si è ricercata nella relazione con le radici del territorio, italico, nel quale l’Ateneo vive; dall’altro lato, la natura reticolare dell’Ateneo, lontano dai “palazzi” di matrice ottocentesca, si presenta con una sua natura pulviscolare e diffusa in grado di costruire una vera e propria relazione con il territorio. Una tessitura acentrata attraverso la quale veicolare la natura dinamica dell’Ateneo come valore strategico.

Il concorso come forma di partecipazione.
Questi i presupposti alla base del concorso internazionale bandito dall’Ateneo con la supervisione di Aiap - Associazione italiana design della comunicazione visiva, e che ha contato 140 plichi dei quali 13 arrivati fuori termine (e, quindi, non valutabili) da diversi paesi di provenienza tra cui Spagna, Grecia, Croazia, Portogallo, Germania e molti altri ancora a riprova dell’interesse suscitato nella comunità internazionale dei designer e a riprova della serietà del processo adottato. Un processo in linea con le direttive internazionali di Ico_D International Council of Design3, in merito a concorsi di questo tipo e che prevede, tra le altre, l’obbligo dell’anonimato per i partecipanti, tempi di realizzazione adeguati al lavoro richiesto, trasparenza delle norme di valutazione, definizione precisa del tema e dei materiali richiesti, predisposizione di una adeguata documentazione, congruità dei premi, giuria qualificata che comprenda esperti di comunicazione e/o progettazione grafica4. Elementi questi, tutti presenti nel bando così come la presenza, in giuria, di due esponenti di spicco nel panorama internazionale del progetto.
Parliamo di Ruedi Baur, designer di fama internazionale, già membro Agi Alliance Graphique International5, fondatore della rete interdisciplinare Intégral Concept per la quale dirige i laboratori di Parigi, Zurigo e Berlino; docente dal 1987, coordinatore del dipartimento di design della École des Beaux-arts di Lione, professore presso la Hochschule für Grafik und Buchkunst di Lipsia, di cui è stato rettore dal 1997 al 2000. Nel 2004, ha fondato l'istituto di ricerca Design2context presso la Zürcher Hochschule der Künste (ZHdK) e dal 2011 insegna presso l'Università di Arte e Design di Ginevra, alla École des Arts décoratifs di Parigi e regolarmente in Cina alla Luxun Academy di Shenyang, al CAFA di Pechino e alla École internationale de Percé di Percé, legata a Université Laval à Québec che gli ha conferito un dottorato honoris causa nel 2007. Tra i tantissimi progetti da lui ideati ci limitiamo a segnalare: l'identità visiva per il Centro Pompidou, quella per Chambord Parco, e la Cité internationale universitaire de Paris. Attualmente sta lavorando al sistema di identità visiva del La Sorbonne di Parigi.
Ma parliamo anche di Astrid Stavro, designer italo-spagnola, anch’essa membro AGI del quale attualmente è segretario generale. Designer pluripremiata, fonda la Atlas a Palma de Mallorca e New York lavorando, tra gli altri per: Phaidon, Camper, IBM, BMW, Random Houdìse Mondadori, Laurence King, Museo National Centro de Arte Reina Sofia, Mirò Foundation, Lars Müller Publishers e il Design Museum di Barcellona. Astrid Stavro ha accumulato oltre 300 premi in importanti concorsi internazionali di design, tra i quali la Graphite Pencil alla D&AD quale migliore agenzia internazionale del 2015, scrive per numerose riviste internazionali di design e attualmente è direttore creativo e redattore della rivista Elephant. Designer leader dell’AIGA di New York, Graphic designer Master, membro della Società Internazionale di progettisti grafici (ISTD) e membro del Consiglio ADG (Associazione Spagnola dei Progettisti Grafici).

Due presenze di indiscussa autorevolezza, quindi che, nei tre giorni fitti di valutazione, ha impresso un metodo di lavoro severo e attento attraverso il quale ogni progetto pervenuto è stato discusso, analizzato e valutato non solo per la sua forza comunicativa ma anche per la sua capacità di aderire alle istanze dell’Ateneo e alle indicazioni evidenziate nel brief.
Il progetto premiato si è rivelato essere, a chiusura della graduatoria, e ad apertura delle buste, a firma di Dario Curatolo, architetto e designer che vive e lavora a Roma, già membro del comitato scientifico della Triennale di Milano e membro del direttivo ADI.

Un sistema aperto
Entrambi i giurati, insieme agli altri membri della giuria –Patrizia Ranzo, decano di design, Cinzia Ferrara Presidente Aiap e Giuseppe Paolisso quale rappresentante istituzionale dell’Ateneo, hanno valutato il progetto premiato per la capacità di essere un sistema aperto, gestibile sul doppio registro – istituzionale e colloquiale – richiesto dal bando e anche, per il suo carattere da un lato assertivo - la base solida costituita dal simbolo “V” sintesi della “U” ripresa dalla scrittura epigrafica latina e dalla “V” di Vanvitelli, compenetrate in un unico segno distintivo espressione del passato e del futuro dell’istituzione, e dall’altro lato, incredibilmente aperto, in grado non solo di accogliere le differenti anime dei saperi scientifici presenti nei vari dipartimenti, ma anche rappresentare un tessuto, connesso e variabile, in grado di costruire elementi narrativi a carattere dinamico, riaffermati e ricreati continuamente.
Il sistema infatti, prevede tre differenti registri comunicativi:
un primo livello, istituzionale, dove il naming dell’Ateneo si accompagna al segno/simbolo che riassume in sé il senso della “V” capitale messi in raccordo grazie alla coppia dei due punti, segno di punteggiatura dell’alfabeto, che si antepone alla seconda parte testuale del marchio in cui è riportata la denominazione dell'Ateneo. Espediente questo che ha consentito di riassumere, in un unico sistema, descriptor e valori; la radice culturale – il riferimento storico a Vanvitelli e alla sede casertana - e allo stile istituzionale proprio di un Ateneo trasferito attraverso l’elegante scelta del Baskerville quale font per la denominazione; ma allo stesso tempo, attraverso la forma sintetica e asciutta della capitale “V” un senso di profondo radicamento nella contemporaneità.
Un secondo livello, solido nella sua matrice principale –la “V” capitale con i due punti, e variabile nella seconda area del campo nella quale la denominazione dell’Ateneo cede il posto ai vari significati specifici dei singoli dipartimenti o delle singole aree disciplinari. Come a dire: la Vanvitelli è. E ogni volta è un aspetto specifico della didattica, della ricerca, del sapere contestualizzato in un simbolo, in una immagine, in una firma. Un sistema aperto pronto ad accogliere e ad assimilare le differenti anime dell’Ateneo.
Il terzo registro, invece, si pone come matrice generativa laddove il modulo quadrato puntinato diventa base costruttiva in grado di generare infiniti campi visivi. “Forme senza confini”, così le ha definite il designer autore del progetto, che creano pattern modulabili su qualsiasi superficie e che da un lato rafforzano il sistema identitario principale sistema dall’altro lato consentono declinazioni variabili e dinamiche. Una interpretazione sobria delle indicazioni poste del brief, che non scivola nell’eleborazione di immagini meramente decorative, bensì diventa amplificatore evocativo, rimandando sempre alla matrice principale del segno istituzionale.

Un progetto molto contemporaneo, quindi, che si pone come un sistema narrativo composto da diversi elementi intercambiabili ma riconducibili ad una unità comune e riconoscibile. Un sistema forte nella sua essenzialità e che ci riporta a paradigmi di lontana memoria, quel less is more, che in tempi di overproduzione di immagini stabilisce un principio di rigore nella gestione di un sistema identitario come quello del nostro Ateneo, per sua stessa natura complesso, policentrico, dinamico e aperto.

Guarda la gallery

di Daniela Piscitelli, docente del Dipartimento di Ingegneria Civile, Design, Edilizia e Ambiente dell'Università degli studi della Campania luigi Vanvitelli

 


1Nel suo saggio “Cultura del design e design per la cultura” Dario Scodeller traccia con grande attenzione gli episodi storici che intrecciano la stagione della Comunicazione di Pubblica Utilità con la nascita della Università Europea. Pag 6 Scodeller, etc etc…..
2Una interessante ricognizione sulla comunicazione pubblica e per le università la si trova in Dario Scodeller, “Culture del design e Design per la cultura” in Veronica dal Buono, Comunicare l’Università, collana Media MD, 2016
3A questo link è possibile visionare le norme complete: http://www.aiap.it/documenti/8051
4Al seguente link è possibile scaricare tutta la documentazione del bando: http://www.aiap.it/notizie/14928/
5l’AGI è un “club” internazionale i cui parametri di ingresso sono severissimi e molto restrittivi. Farne parte significa aver superato una serie di valutazioni internazionali e giurie di selezione. Per ulteriori informazioni: http://a-g-i.org

 

“Notizie false e tendenziose”, “propaganda politica”, “menzogne create ad arte da mestatori”. Un tempo, quando la politica di massa, sino agli anni Settanta del Novecento, era condotta da partiti a base ideologica, non raramente capitava di sentire rivolgere simili frasi all’avversario politico di turno.
Vi era oltretutto piena consapevolezza degli effetti deleteri che tutto ciò poteva creare. “Diffondete una notizia falsa e ripetetela in continuazione: alla fine la gente crederà che sia vera”, diceva Vladimir Ilič Uljanov, in arte Lenin, in ciò confortato, forse a sua insaputa, anche dalle teorie di un grande sociologo italiano, Vilfredo Pareto. E infine: “Un’idea falsa, ma semplice, ha molte più possibilità di esser creduta vera rispetto ad una vera, ma complessa” (Alexis de Tocqueville).
Fin qui, tutto ampiamente risaputo. Che dire però del recente affermarsi della tendenza a diffondere cosiddette “bufale” o, nell’espressione inglese, “fake news” attraverso i nuovi canali mediali?
Innanzitutto, cos’hanno di diverso le odierne fake news con le tradizionali “notizie false e tendenziose”? E c’è davvero qualcosa di diverso o si tratta in realtà dello stesso fenomeno, magari con modalità e vesti diverse?

Un po' di storia.
Nel passato, per lo meno nel Novecento, il fenomeno riguardava, come si è visto, soprattutto la sfera della polemica e della lotta politica. Erano i vari partiti politici, con i loro uffici stampa e propaganda, con i loro giornali, a ricorrere in certi casi all’arma della disinformazione per ottenere consensi a proprio favore.
Con l’avvento della Tv e dei canali nazionali, la propaganda politica dei partiti vide progressivamente prosciugarsi l’acqua nella vasca in cui aveva nuotato sino ad allora, cioè l’ideologia politica. I telegiornali nazionali tolsero ai partiti la tradizionale funzione di comunicazione politica. Le masse impararono a dare alle notizie politiche della Tv molto più credito rispetto a quelle di certa stampa schierata politicamente, sebbene non tutti i quotidiani, ovviamente, fossero da considerare poco attendibili: ve ne erano, e ve ne sono per fortuna ancora oggi, molti che facevano e fanno ottima informazione.
“Lo ha detto la TV”; “L’ho sentito in TV”, costituiva un sigillo di credibilità della notizia, e in effetti così era: un canale nazionale con decine di milioni di telespettatori non poteva certo permettersi di diffondere notizie che non fossero strettamente verificate e assolutamente certe. Tutto il periodo che va dall’avvento della Tv (anni Cinquanta) sino a quello del Web (fine anni Novanta), conobbe quindi un progressivo declino della disinformazione e della propaganda politica.

Oggi purtroppo quel problema, uscito dalla porta della Tv, è rientrato dalla finestra del Web. Non è in fondo difficile comprenderne i motivi. Con la moltiplicazione di miriadi di siti, di blog, di gruppi sui social network, a chiunque è stato dato il “potere” di diffondere informazione, senza, al contempo, dover rispondere a forme stringenti di controllo e di verifica. Inoltre, se in passato il fenomeno riguardava essenzialmente la polemica e la lotta politica, oggi esso, oltre ad essere ritornato (via internet) ad occupare di nuovo quella sfera (le ideologie di ieri vengono sostituite dal populismo di oggi, di destra o di sinistra),  si è però esteso in generale anche a tutti gli altri campi e settori di interesse pubblico: dall’economia alla cronaca (l’attacco alle Torri gemelle sarebbe stato ordinato da Bush), allo spettacolo, dalla salute (la vergogna delle notizie false sui vaccini), allo sport, dal tempo libero a tutto il resto.

Ma perché vengono diffuse false notizie? Le cause sono molte, e non ci sarebbe qui possibile passarle tutte in rassegna. Cercheremo di indicarne le principali.
Vi è innanzitutto un motivo di puro guadagno economico da parte dei siti che le diffondono. La cosa è molto semplice. Poiché un sito ottiene guadagni pubblicitari tanto più elevati quanti più sono i “click” che vengono effettuati all’interno di esso, il gioco è facile: si suscita la curiosità dei navigatori attirandoli su schermate che, alla notizia falsa, affiancano banner e “cookies” pubblicitari.
C’è, in secondo luogo, un motivo di ordine più squisitamente sociologico. Vivendo nell’”età dell’incertezza”, assistiamo oggi alla nascita di “nuove religioni” in grado di offrire nuove certezze. Essendo in forte calo, per lo meno in occidente, le religioni antiche, emergono i nuovi “sacerdoti”, e i nuovi “fedeli”, di credenze e fedi molto più terrene. Sia chiaro: tutte rispettabilissime e degne del massimo rispetto per i valori di cui sono portatrici. Sennonché, capita che a volte la devozione dei fedeli superi quel sano scetticismo che dovrebbe portare a dubitare di notizie o informazioni di cui non si è accertata la provenienza. Ecco quindi spuntare siti, gestiti da questi nuovi, spesso improvvisati sacerdoti, che propongono i rimedi più diversi per ogni tipo di problema. Fino a quando non si legge la notizia, stavolta vera (su un serio quotidiano nazionale), della tragedia di una coppia di genitori che ha perso il bambino per denutrizione.

Ci sono ancora, più prosaicamente, cause del fenomeno legate al narcisismo, alla vanità, alla civetteria di coloro che cercano di attirare l’attenzione su di sé inventando, deformando, distorcendo notizie.
Infine, va citato un fenomeno in forte ascesa, che provoca anch’esso conseguenze per la quantità di notizie false che vengono così diffuse. Stiamo parlando delle teorie del complotto. Teorie, appunto, non certo scientifiche, ma solo teorie. La teoria per cui l’uomo non sarebbe mai sbarcato sulla luna, oppure la teoria, già citata, sull’attacco alle torri gemelle o, nuovamente, quelle sui vaccini. Questo fenomeno, in aumento, è probabilmente dovuto alla crisi di fiducia nelle istituzioni tradizionali che serpeggia da tempo nelle società occidentali. Esso corrode lentamente le basi della “costruzione di senso” che tutti noi contribuiamo a dare al nostro vivere associato, e mina alle fondamenta quella risorsa fondamentale per il buon funzionamento di una società, che è appunto la fiducia reciproca.

Ad intervalli più o meno regolari l’accadimento di eventi sismici, più o meno forti, ci riporta alla mente i rischi naturali della nostra regione e più in particolare quelli relativi al Vesuvio ed ai Campi Flegrei.

Dalla fine dello scorso anno è iniziato il tam-tam mediatico di allarmi su un possibile risveglio del bradisismo nella regione Flegrea, mentre è di pochi giorni fa una scossa di magnitudo 2.5, avvertita nell’area vesuviana e centrata proprio all’interno del cratere del Vesuvio.

Cosa sta realmente accadendo?

Per quanto riguarda il Vesuvio e le paure che ne conseguono, è il caso di gettare acqua sul fuoco. La scossa registrata qualche giorno fa dalla rete sismica dell’Osservatorio Vesuviano, per quanto avvertita, era estremamente superficiale, profonda solo poche centinaia di metri e dunque non legata al sistema profondo dello stesso vulcano, che sembra, è il caso di dirlo, in un sonno profondo e non pronto a svegliarsi all’improvviso. E’ altrettanto vero che come altri vulcani sul nostro pianeta, non è necessario che il Vesuvio si svegli da solo, è possibile invece, che eventi esterni, forti scosse nell’Appennino per esempio, possano scuoterlo sino alle sue “radici” ed innescare un processo a catena che potrebbe rimetterlo in funzione. Insomma la chiave d’accensione del nostro Vesuvio vista la sua attuale attività, sembra al momento legata più ad un evento esterno che allo stesso vulcano, visto il suo forte momento di torpore.

Altro discorso sono i Campi Flegrei, che con alti e bassi, tipici di “montagne russe”, riportano alla mente sempre più spesso i recenti periodi del bradisismo. Ne abbiamo vissuti due, dal 1970 al 1972 e di nuovo dal 1982 al 1984. Il bradisismo come spiega l’etimologia “greca” della parola, è un movimento lento del suolo. Lento ma inesorabile e soprattutto generatore di terremoti. Non é il sollevamento del suolo ad essere provocato dai terremoti, ma esattamente il contrario. Il suolo comincia a sollevarsi e la sua reazione è generalmente, almeno all’inizio, plastica. Si adegua con molta lentezza al movimento stesso. L’elasticità della crosta ha però un limite, superato quello, il suo comportamento non sarà più duttile ma rigido e le scosse cominceranno a fioccare. La storia dei Campi Flegrei ci indica anche che i processi eruttivi sono preceduti da fasi di bradisismo e che questo fenomeno accentua la sua intensità, la velocità di sollevamento e le scosse sismiche, tanto più il momento dell’eruzione si avvicina. Non solo, una volta che il fenomeno del bradisismo comincia, è probabile che tra “alti e bassi” che possono durare decine o centinaia di anni, il processo terminerà solo quando l’eruzione sarà avvenuta.

Al momento siamo vicini o lontani da un possibile evento eruttivo ?

L’attività attuale registrata nell’area flegrea testimonia che il grande vulcano respira, ma che certamente non farà eruzione nel breve tempo. Dove per breve intendo mesi o anni.

Per maggiore chiarezza va spiegato che i Campi Flegrei sono una caldera. La caldera è una conca che ha subito un collasso strutturale in seguito ad una fortissima eruzione. Un volume gigantesco di magma (dell’ordine di Km3) viene eruttato in tempi brevi ed il tetto del vulcano finisce per poggiare su un volume, prima occupato dal magma e che orami risulta vuoto. Il risultato finale sarà un crollo (o collasso) sotto il suo stesso peso non essendo più sostenuto. Nel caso dei Campi Flegrei sono avvenute due eruzioni gigantesche, una 42.000 anni fa, conosciuta col nome di Ignimbrite Campana (o Tufo grigio campano), la seconda 12.000 anni fa che prende il nome di Tufo Giallo Napoletano. Questo secondo evento è il basamento dell’intera città di Napoli ed ha spessori di decine fino ad un centinaio e più di metri. Entrambi questi eventi hanno modellato l’area dei Campi Flegrei.

I Campi Flegrei sono anche caratterizzati da un attività vulcanica molto particolare. I tantissimi crateri presenti nell’area sono stati formati durante un singolo evento eruttivo. Per questo motivo vengono chiamati monogenici. Quando un cratere ha finito la sua prima eruzione ha anche terminato per sempre la sua attività. Paradossalmente potremmo dire che se ipoteticamente un eruzione dovesse avvenire nell’area Flegrea, essere all’interno della famosa Solfatara (di Pozzuoli) dovrebbe tenerci al sicuro.

Comunque meglio non fare questa esperienza.

L’Osservatorio Vesuviano tiene sotto controllo “gli umori” dei vulcani napoletani con molta professionalità.

La Protezione Civile si occupa dei piani di emergenza e della loro messa a punto.

Siamo pronti sotto quest’aspetto? E’ difficile dare una risposta sintetica, anche se la risposta è probabilmente negativa. I piani per il Vesuvio esistono ma è difficile che siano stati aggiornati, mentre quelli sui Campi Flegrei probabilmente solo abbozzati. Siamo decisamente in ritardo, ancor più in ritardo se alcuni ricercatori vedono “movimenti e variazioni” ai Campi Flegrei.

Oltre alla messa a punto definitiva dei piani di Protezione Civile manca anche la loro volgarizzazione. Un piano ha un impatto forte se viene fortemente pubblicizzato, se le popolazioni che vivono nelle aree a rischio lo conoscono e lo hanno fatto proprio, soprattutto se lo hanno sperimentato attraverso esercizi e simulazioni. Tutto questo manca e siamo decisamente in ritardo, un folle e colpevole ritardo.

Inoltre è necessaria una chiara informazione alla popolazione con programmi di educazione scientifica e sull’ambiente che ci circonda. Informazioni necessarie per meglio vivere in una regione con questi rischi, e per aumentare il livello di resilienza, e la paura di un ipotetica eruzione. Le scuole dovrebbero essere il veicolo di programmi per la riduzione del rischio, vulcanico o sismico. Le municipalità dovrebbero attrezzarsi per far conoscere ai propri amministrati cosa accade sotto i propri piedi, ed i ricercatori infine raccontare i propri studi con linguaggio semplice ed accessibile, senza omettere quali siano i margini di successo e soprattutto quelli dove è possibile sbagliare. E’ necessario creare un sistema di mutua fiducia tra ricercatori e la popolazione esposta al rischio. Sappiamo bene che i terremoti non si prevedono : quando, dove e con quale energia; al contrario i movimenti dei vulcani e le loro possibili eruzioni hanno molte più probabilità di essere comprese in tempo. Questo non significa che abbiamo il 100% di certezze. Ed è proprio questo che va raccontato alle popolazioni che vivono sotto la spada di Damocle di un possibile evento vulcanico. Non solo la propria bravura, i propri successi, ma soprattutto le incertezze, i dubbi che esistono in ognuno di noi, e nelle incertezze che questi generano su argomenti tanto delicati come il prevedere una possibile futura eruzione di uno dei vulcani Napoletani. Essere più vicini alle popolazioni, quelli che in inglese vengono chiamati “end-users utilizzatori finali”, vuol dire anche riuscire ad avere un linguaggio comprensibile su tematiche problematiche e a non nascondere le nostre stesse vulnerabilità.

di Dario Tedesco, Docente di Geochimica e Vulcanologia del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Ambientali, Biologiche e Farmaceutiche (DiSTABiF) dell'Università degli studi della Campania Luigig Vanvitellii

Lo scorso 21 febbraio l'Agenzia per la Valutazione dell'Università e della Ricerca (Anvur) ha comunicato i dati ufficiali relativi alla Vqr (valutazione della qualità della ricerca) 2011-2014 che peraltro erano stati già utilizzati dal Miur per la distribuzione del fondo premiale del Fondo di Finanziamento Ordinario il 3o dicembre del 2016. Hanno partecipato alla valutazione 96 Università (tra statali, private e telematiche), 18 tra enti di ricerca vigilati dal Miur o assimilati che si sono sottoposti volontariamente alla valutazione e 21 tra consorzi di ricerca ed altri enti di ricerca. Sono stati presi in considerazione 118.000 prodotti tra bibliometrici e non bibliometrici suddivisi in 14 aree di ricerca. Il quadro che ne è emerso è ancora una Italia a due velocità in cui il Nord ha sostanzialmente mantenuto le sue posizioni di leader mentre il Sud, sebbene si sia significativamente rafforzato e avvicinato alle performance del Nord, non ha ancora colmato questa differenza. Tutto ciò ha permesso a tutti di dichiararsi vincitori, stimolando ulteriormente il passaggio dall'offerta formativa più accattivante al libero mercato delle iscrizioni, in cui le Università non sono valutate dall'opinione pubblica per la loro capacità formativa ma per il numero di iscrizioni. 

Al di là di questi risultati di facciata, gli esiti e il sistema valutativo della Vqr 2011-2014 hanno mostrato alcuni punti di riflessione del presente e dell'evoluzione del sistema universitario nazionale. L'attuale concetto di Università va inquadrato con la necessità di una trasformazione della formazione e del modo di concepire l'Accademia. L'evoluzione accademica, sempre più volta a modelli internazionali, prevede una integrazione della formazione universitaria con la velocità del cambiamento societario e tecnologico. Le Università devono avere la capacità di porsi da ora verso le richieste di «knowledge» future garantendo laureati in grado di affrontare il mondo del lavoro e le sue richieste in modo attuale.
La necessaria sfida accademica è: a) avere un assetto previsionale del cambiamento; b) integrare la formazione e la ricerca in un approccio multidisciplinare che crei attrattività di risorse umane e finanziarie; c) affrontare il cambiamento anche da un punto di vista gestionale; d) mantenere sempre lo studente al centro del sistema. L'analisi dei dati dell'ultima valutazione della qualità della ricerca mostra come alcuni Politecnici, anche grazie a strategie di tecnologie mirate e all'offerta post-laurea, ricevono lo score migliore con attrattività di risorse (bandi competitivi e studenti). Questo mostra in vero la necessità di un rinnovamento del modello universitario generale con cambiamento delle modalità di insegnamento e loro utilizzazione: modelli formativi più flessibili. La valutazione delle Università anche in base al risultato (in termini di bandi competitivi nazionali ed internazionali, brevetti, Spin-Off, public engagement), dimostra come l'integrazione della formazione col risultato sia già un dato di fatto. Se da un lato, la distanza Nord-Sud in termini valutativi (VQR 2011-14) si è ridotta, resta ancora il divario geografico in termini di attrattività di studenti fuori regione e di finanziamenti, specie se internazionali. La vera sfida è dunque nel colmare questi punti ed anche, non per ultimo, verificare non solo il valore assoluto di risultato, ma anche i mezzi con cui è stato raggiunto in base al livello da cui si partiva. Forse una chiave di lettura potrà essere nella valorizzazione della territorialità delle idee: facilitare già a livello accademico lo sviluppo d'idee e accompagnarle verso la realizzazione. Non a caso in quest'ultima VQR una specifica attenzione è stata dedicata al concetto di «Terza Missione» con un'apposita commissione che ha analizzato e categorizzato i dati presentati da ciascuna università. Infine è da notare che nonostante che negli ultimi 10 anni vi sia stata una contrazione delle risorse di cui le Università Statali hanno potuto disporre, tra le spese che sono state addebitate ai bilanci universitarie, si è passato nello stesso intervallo di tempo dal 7.0% a circa 11% di spese per servizi agli studenti, ciò significando una sempre maggiore centralità - come è giusto che sia - dello studente nel sistema universitario nazionale. Quindi al di là delle personali interpretazione dei dati, la recente VQR dimostra che le Università italiane, seppure nella loro diversità hanno intrapreso, ed in molti casi rafforzato, il loro cammino verso la formazione di laureati che, partendo da una connessione sempre più stretta tra Università e territorio, abbiamo sempre più presente il nesso tra formazione e ricerca e sono votati e pronti ad un confronto internazionale.

Tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 14 marzo 2017.

 

Le festività pasquali durano poco, ma possono far lievitare clamorosamente il nostro peso corporeo. I cibi della tradizione campana possono apportare circa diecimila chilocalorie (kcal) nei giorni di Pasqua e Pasquetta, senza contare le calorie del Sabato Santo. Non volendo demonizzare nessun piatto pasquale della tradizione nostrana, bisogna pur considerare l’apporto calorico medio per porzioni piccole (appena 100 gr) dei vari prodotti pasquali della Campania Felix.
Ecco alcuni esempi, considerando che l’apporto calorico può variare a seconda delle zone di produzione:

  1. casatiello salato: 380 kcal;
  2. casatiello dolce: 410 kcal;
  3. pastiera dolce: 390 kcal;
  4. pastiera salata – frittata di maccheroni: 450 kcal;
  5. salame paesano: 400 kcal;
  6. capretto al forno: 250 kcal.

Che fare per non rinunziare ai piaceri della tavola pasquale? Il Venerdì Santo ed il Martedì dopo Pasqua si può adottare un regime dietetico strategico, costituito da: latte 250ml ed 1 fetta biscottata a colazione; verdura 300 gr con 30 gr di pane più frutta 200 gr sia a pranzo sia a cena. Questo regime ipocalorico di un giorno fa bene non solo al corpo, ma anche all’anima, in ottemperanza ai dettami della tradizione cristiana.
Per un discorso più generale riguardante la nostra salute, atteggiamenti salutari vanno adottati per tutto l’anno e non solo per mettersi in forma per qualche periodo particolare come quello estivo (prova costume). Comunque, ecco alcuni pratici consigli per mettersi in forma prima dell’estate, seguendo i dettami de “Le Colonne del Benessere: Sana Alimentazione ed Attività Motoria”.
1) Bere almeno 1,5 litri di acqua al giorno: bere molto infatti aiuta a depurarsi e a mantenere in efficienza le funzioni fisiologiche.
2) Mettersi in moto: l’esercizio fisico è necessario per rimettersi in forma. Basta anche una semplice camminata. I diecimila passi al giorno di cui sentiamo tanto parlare, infatti, sono un toccasana, soprattutto se effettuati a passo sostenuto. Per i più atletici, 30min di corsa o di bici a una buona velocità permettono di bruciare anche 200-250 kcal.
3) Diminuire i grassi: se per qualche giorno ci siamo fatti tentare da casatielli e salami, è il momento di ridurre l’apporto calorico proveniente da grassi. Per i golosi che non riescono a farne a meno, due quadratini di cioccolato fondente una volta al giorno andranno benissimo.
4) Preferire i cereali integrali ed i legumi: apportano fibre utili all’organismo. Vanno, comunque, utilizzati in modo moderato per ridurre l’apporto calorico.
5) Pesce almeno 3 volte a settimana: soprattutto quello azzurro, è ricco di proteine e di acidi grassi essenziali. E’ leggero e più digeribile rispetto alla carne.
6) Carne: per quanto riguarda la carne, è meglio consumarne di bianca, più magra di quella rossa che può essere tuttavia utilizzata due-tre volte al mese.
7) Latte e derivati: utilizzare i prodotti magri, ricchi di calcio ma poveri di grassi.
8) Verdure: non potevano mancare. Il “must” di tutte le diete, in quanto forniscono senso di sazietà e rispettano un basso rapporto calorie/quantità. 100 gr di insalata verde, infatti, apportano solo 20 kcal. Vuol dire che 500 gr di insalata equivalgono ad una comune barretta che troviamo in commercio.
9) Frutta: 4-5 porzioni al giorno: a pranzo, a cena e come spuntino rappresentano un notevole contributo al raggiungimento del nostro obiettivo. Fresca e dolce, è saporita e fornisce un buon senso di sazietà. Ad ogni modo, attenzione a non superare le porzioni consigliate.
10) Diminuire il condimento: l’olio extravergine d’oliva è sicuramente un ottimo condimento, da preferire sicuramente ad altri tipi di grassi. Tuttavia, bisogna essere parsimoniosi: tre-quattro cucchiaini al giorno andranno benissimo.
11) Sale: meglio tenerne sotto controllo il consumo. Un suo elevato utilizzo può favorire la ritenzione idrica e far aumentare la pressione arteriosa. Prediligere le spezie per rendere gustose le pietanze.
12) Zucchero: una bustina di zucchero apporta circa 30 kcal. Per gli amanti del caffè, ad esempio, che ne consumano minimo 3 tazzine al giorno, vi è un aggiunta, senza accorgersene, di circa 90 kcal.

Un ultimo importante consiglio: se c'è da perdere più di 3-4 kg, è conveniente affidarsi a "mani esperte". L’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” annovera tra le sue strutture sanitarie l'Unità Operativa Complessa di Dietetica e Medicina dello Sport (diretta dal prof. Marcellino Monda), che è unica nel suo genere. In tale struttura sono coniugate competenze professionali di Scienze Nutrizionali con quelle di Medicina dello Sport, tali da poter perseguire il raggiungimento del Benessere mediante una sana alimentazione e una controllata attività motoria.

di Marcellino Monda, docente di Fisiologia dell'Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli

Negli ultimi mesi si è assistito ad un vero e proprio “bombardamento” mediatico su quello che possiamo definire il “caso meningite”. In realtà, non esiste nessun “caso”, in quanto dai dati resi pubblici dal Ministero della Salute è ormai chiaro che non c’è nessuna epidemia di meningite in Italia, fatta eccezione di una piccola area della Toscana, la cosiddetta “Valle dell’Arno”. Il numero dei casi registrati per anno risulta, infatti, stabile se non addirittura in leggerissimo calo, passando da 1.479 casi globali nel 2014 a 1.376 nel 2016 e da 196 casi da meningococco nel 2015 ai 189 del 2016. Per tale motivo, recentemente, anche quattro grandi Società Scientifiche Nazionali, la Società Italiana di Igiene e Medicina Preventiva (SItI), la Società Italiana di Pediatria (SIP), la Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale (FIMMG) e la Federazione Italiana dei Medici Pediatri (FIMP), sono scese in campo insieme e al fianco del Ministero della Salute per sedare l'ingiustificato allarmismo degli ultimi tempi.
Chiarita la reale dimensione del problema, cerchiamo ora di capire cosa è la malattia e quali sono le misure preventive e terapeutiche necessarie per combatterla.
La meningite è un processo infiammatorio a carico delle meningi, legato, nella maggior parte dei casi, ad un agente infettivo. Le infezioni che causano la meningite possono essere sostenute da virus, batteri o, più raramente, da funghi. Le meningiti virali di solito non causano quadri clinici gravi e si risolvono nell’arco di 7-10 giorni; al contrario, le forme batteriche sono più rare ma estremamente più severe, essendo associate a rischio di sequele a lungo termine e, nella forma fulminante, anche a rischio di rapido decesso.
Un precoce riconoscimento dei sintomi e dei segni clinici, l’esecuzione tempestiva delle procedure diagnostiche e della terapia antibiotica sono fondamentali per ridurre la mortalità e il rischio di sequele a lungo termine di questa patologia.
Nei bambini, in particolare nei più piccoli, al di sotto dei due anni di età, però, i sintomi e i segni clinici della meningite sono in genere sfumati e quindi difficili da riconoscere soprattutto nelle fasi precoci della malattia. Per questo motivo, ancora oggi l’arma più importante contro la meningite batterica in età pediatrica è rappresentata dalla prevenzione.
Prevenire la meningite significa vaccinare, senza inutili ed ingiustificati allarmismi ma comunque vaccinare. Esistono oggi diversi vaccini che agiscono verso i diversi batteri che possono causare la meningite.
I batteri più frequentemente chiamati in causa in corso di meningiti sono cambiati nel corso del tempo. Fino a circa 10 anni fa, infatti, la causa più frequente di meningite nei bambini al di sotto dei 5 anni di età era l’Haemophilus influenzae tipo b (Hib). Oggi le meningiti da Hib sono quasi del tutto scomparse in Italia grazie all’inclusione della vaccinazione anti-Hib nella vaccinazione esavalente (Difterite-Tetano-Pertosse, Poliomielite, Epatite B e, appunto, Hib) eseguita da oltre il 95% dei bambini nel primo anno di vita. La diffusione dello screening con tampone vaginorettale delle gestanti tra la 35° e 37° settimana di gestazione e la conseguente attuazione della profilassi antibiotica intrapartum ha permesso una importante riduzione dei casi d’infezioni neonatali precoci da Streptococcus agalactiae (SBEGB), comune patogeno causa di meningite nel neonato. Ancora, il miglioramento delle condizioni igieniche e la riduzione della contaminazione degli alimenti ha poi determinato la riduzione di infezioni causate da Lysteria monocytogenes, responsabile negli USA di circa il 2% dei casi di meningite batterica.
Attualmente, i batteri che più frequentemente causano meningite in Italia sono rappresentati dallo Streptococcus pneumoniae (pneumococco) e dalla Neisseria meningitidis (meningococco).
In Italia sono disponibili diversi vaccini anti-pneumococco: il vaccino coniugato 13 valente (PCV13) e il vaccino polisaccaridico 23 valente (PPSV23). I sierotipi contenuti nei vaccini sono quelli che causano le forme di malattia più severe nei bambini e almeno la metà di quelli che causano malattia grave nell’adulto. Il PCV13, a differenza del PPSV23, essendo un vaccino
coniugato, conferisce memoria immunologica e protezione prolungata sia nei soggetti sani che con
condizioni di rischio, inoltre, il vaccino PPSV23 non coniugato è sconsigliato al di sotto dei 2 anni di età per la scarsa capacità immunizzante di questo vaccino in tale fascia d’età.
Attualmente sono, invece, disponibili tre differenti vaccinazioni anti-meningococco: anti-meningococco B, anti-meningococco C e tetravalente contro i sierotipi A, C, W135, Y. Il vaccino contro il meningococco C (MenC) è disponibile già da parecchi anni ed è inserito tra le vaccinazioni raccomandate ed è gratuito. Va somministrato ai bambini di età compresa tra 13 e 15 mesi, in concomitanza con il vaccino MPR (Morbillo, Parotite, Rosolia) e agli adolescenti non precedentemente immunizzati.
Il vaccino contro il meningococco B (MenB) è stato autorizzato solo nel 2013. In alcune regioni è ancora a pagamento, mentre in altre è offerto gratuitamente.  Il vaccino protegge contro quasi il 90 % dei ceppi di meningococco B e si può fare a partire dai 2 mesi, anche in concomitanza con gli altri vaccini previsti nei primi anni di età. Il vaccino tetravalente AC W135 Y (Mcv4), infine ,  è disponibile da pochi mesi ed è raccomandato a chi viaggia.E' somministrabile nel secondo anno di vita ai bambini che non hanno ancora effettuato il MenC o agli adolescenti di 12-16 anni già vaccinati con MenC, a completamento della copertura ed è a pagamento.
L’ultimo Piano Nazionale Prevenzione Vaccinale ( PNPV) 2016-2018 prevede la vaccinazione anti meningococco C nei bambini che abbiano compiuto un anno di età, consiglia il vaccino tetravalente per gli adolescenti non vaccinati da piccoli (il richiamo per quelli già vaccinati) e raccomanda il vaccino contro il meningococco B per i bambini sotto l’anno di età. Inoltre, simultaneamente alla vaccinazione esavalente, ma in sede anatomica diversa (quadricipite
femorale della coscia contro-laterale), raccomanda la somministrazione del vaccino anti-pneumococcico coniugato.
La Regione Campania ha recentemente promosso una importante campagna vaccinale contro il meningococco.
Prossimamente, infatti, presso gli uffici vaccinali distrettuali delle ASL campane, sarà possibile vaccinare gratuitamente tutti i soggetti al compimento del 13° mese di vita e  tutti gli adolescenti nella fascia di età compresa tra i 12 e i 18 anni, con il vaccino tetravalente adiuvato efficace contro quattro sierotipi di meningococco (09/01/2017 - Comunicato n.8).

di Francesca Rossi, docente di Pediatria Generale e Specialistica all'Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli

 

Negli ultimi anni la dieta sta assumendo un ruolo sempre più centrale nella vita delle persone affette da Sclerosi Multipla. In un recente studio, attraverso le risposte ad una web-survey, si è dimostrato l'incremento dell’interesse nei confronti della dieta in seguito alla diagnosi di Sclerosi Multipla (Kari-na Riemann-Lorenza et al., PLOS 2016).
Questo interesse, però, non è soddisfatto dalle evidenze scientifiche, tutt'ora insufficienti a dare ri-sposte incontrovertibili e definitive sull'importanza della dieta nella etiopatogenesi e nel management della Sclerosi Multipla.
La Sclerosi Multipla è una patologia complessa ed i fattori genetici e immunologici non sono sufficienti a spiegare la sua eziologia. Attualmente è chiara una condizione di multifattorialità ed un ruolo importante, nel suo sviluppo, potrebbero averlo fattori ambientali e/o metabolici, infezioni virali, o ancora, uno stile di vita non corretto e quindi, abitudini dietetiche errate.
Nessuno di queste condizioni può, da sola, spiegare la patologia, ma le seguenti evidenze rendono molto attraente il coinvolgimento della dieta nella patogenesi della malattia, più che le infezioni e/o i fattori ambientali:
•    distribuzione geografica: la Sclerosi Multipla è più frequente nel mondo occidentale dove è diffuso uno stile di vita sedentario ed una dieta ipercalorica (Alonso et al., Neurology 2008).
•    effetti migratori: la migrazione da una zona ad alta incidenza di Sclerosi Multipla ad un'altra con un bassa incidenza, prima dei 15 anni, comporta la modifica del rischio di sviluppare la malattia. Ciò non accade qualora la migrazione si realizzasse dopo i 15 anni. Tale aspetto potrebbe esse-re correlato all'esposizione a fattori nutrizionali piuttosto che infettivi o tossicologici (McLeod et al., J Neurol 2011)
•    vitamina D: bassi livelli di vitamina D si associano ad un maggior rischio di Sclerosi Multipla. (Munger KL et al., JAMA 2006)
•    indice di massa corporea: un alto indice di massa corporea prima dei 20 anni si associa ad un raddoppio del rischio di Sclerosi Multipla (Hedström et al., Mult Scler 2012)
•    la Sclerosi Multipla ha caratteristiche comuni ad altre malattie infiammatorie croniche intestinali: entrambe si associano a bassi livelli di vitamina D (Reich et al., World J Gastroenterol 2014) e ci sono anche evidenze sull’efficacia del glatiramer acetato sia nella Sclerosi multipla che nel Chron (Aharoni et al., Autoimmun Rev 2013).
Un recente studio (Riccio et al., ASN Neuro, 2015) mostra che fattori dietetici e modifiche dello stile di vita potrebbero esacerbare o attenuare i sintomi della Sclerosi Multipla attraverso la modulazione dello stato infiammatorio sistemico. Tale regolazione si realizzerebbe mediante il controllo dell’attività metabolica ed infiammatoria e della composizione della flora batterica intestinale.
Lo stile di vita occidentale, caratterizzato da diete ipercaloriche, ricche di cibi salati e grassi animali, associato a scarso esercizio fisico, incrementa lo stato infiammatorio dell’organismo. Questo si realizzerebbe attraverso:
1. il potenziamento di tutte le vie biosintetiche cellulari
2. l'incremento dei meccanismi mediati dalle molecole pro-infiammatorie
3. la realizzazione di una condizione disbiotica intestinale.
Nello stesso studio viene chiarito quanto un esercizio fisico costante e moderato, e una dieta ipo-calorica basata sull’assunzione di verdura, frutta, legumi e pesce, favoriscano un’attenuazione del-lo stato infiammatorio sistemico ed un riequilibrio della flora batterica intestinale.
Negli ultimi anni, infatti, si sta rivolgendo sempre maggior attenzione al ruolo della flora batterica in-testinale nella patogenesi delle malattie autoimmuni. Se questo ruolo è più facilmente intuibile per le patologie infiammatorie croniche intestinali, lo è meno per quelle che hanno come bersaglio uno o più organi distanti dalla flora batterica commensale.
Nonostante ciò, per quanto riguarda la Sclerosi Multipla, sono diverse le evidenze di una relazione con le condizioni disbiotiche intestinali che, a loro volta, sono strettamente correlate ad errati regimi dietetici.
In particolare, recenti studi (Treiner et al, Front Immunol, 2015), avrebbero individuato un legame tra i linfociti T, impegnati nel controllo della popolazione batterica e dello stato infiammatorio intesti-nale, ed in grado di raggiungere il Sistema Nervoso Centrale, con la Sclerosi Multipla.
Traducendo le evidenze scientifiche in scelte quotidiane, il paziente con Sclerosi Multipla deve preferire una dieta non eccessivamente calorica, abbinata a un moderato esercizio fisico e basata su pesce, verdure, legumi, frutta, piccole porzioni di carboidrati integrali, fibre, olio extra vergine di oliva, acqua, succhi di frutta non zuccherati, soia e tè nero. (Hadgkiss et al., Nutr Journal 2014)
La nutrizione riesce a limitare gli effetti della stanchezza (Totaro et al., Neurol 2015) di cui soffrono molte persone con SM e può aumentare l’efficacia di alcune terapie (Riccio et al., ASN Neuro 2015), ma non può certo agire come un farmaco. Mangiare in maniera appropriata può migliorare lo stato di benessere del paziente e rendere più efficace la terapia.
Infine non bisogna dimenticare che nel decorso della Sclerosi Multipla alcuni sintomi possono influire sulla scelta degli alimenti, come ad esempio i disturbi intestinali o la difficoltà a deglutire. A questi sintomi si può affiancare anche una perdita di appetito spesso legata agli effetti collaterali di alcuni farmaci.
Per questo è necessario considerare sempre individualmente quali siano i fabbisogni energetici che dipendono dall’età, dallo stato della malattia, dall’attività fisica, dal metabolismo e dalle varia-zioni di peso e, sempre, valutare la compatibilità di diete o di integratori con la gestione della Scle-rosi Multipla.

Luigi Lavorgna, PhD Dirigente Medico I Clinica Neurologica AOU Università - Ha collaborato alla stesura dell'articolo il Dott. Gianmarco Abbadessa

di Giuseppe Paolisso

Uno degli obiettivi strategici del mio mandato è stato quello di testimoniare la vicinanza della Università al territorio ed in particolar modo a quello casertano che da sempre ha percepito l'Università come un soggetto, se non estraneo, sicuramente poco partecipe alle necessità di crescita del territorio stesso. È ciò che oggi viene chiamata «terza missione» dell'università che tutti i rettori si prefiggono di portare a termine. Ma nel territorio casertano vi è sempre stato un problema in più: il nome dell'università.

La Seconda Università di Napoli (Sun) nasce ufficialmente nel 1992 con l'idea di decongestionare l'Università di Napoli al fine di fornire un servizio più efficiente agli studenti specialmente nell'area giuridico-umanistica e in quella scientifico-tecnologica. La composizione iniziale si base sullo scorporo della ex Facoltà di Medicina e Chirurgia dalla Università di Napoli e dalla successiva nascita di tutte le altre Facoltà (oggi Dipartimenti) che vanno a collocarsi prevalentemente nel territorio casertano con un'ottica di decentralizzazione delle attività dall'area metropolitana. Si arriva ai giorni d'oggi con una distribuzione delle attività didattiche della «Sun» su un vasta area della Regione comprendente Caserta (Psicologia, Studi Politici, Medicina e Professioni Sanitarie, Matematica e Fisica, Scienze Ambientali e Farmacia), Napoli (Medicina e Professioni Sanitarie), Santa Maria Capua Vetere (Giurisprudenza e Lettere), Capua (Economia), Aversa (Architettura e Ingegneria), Avellino (Professioni Sanitarie). In verità l'esigenza di una diversa denominazione della «Sun» era stata già percepita negli anni addietro, anche se il tentativo di arrivare a una nuova denominazione è sempre fallito sul nascere per ostacoli prevalentemente interni e per la paura di ripercussioni elettorali. Ma se l'obiettivo era di aumentare il radicarsi dell'università sul territorio, oltre alle numerose attività culturali sul territorio casertano (le conferenze di Oltre le Due Culture, i Maestri del Cinema alla Reggia, la Maratona Dantesca e il ciclo di conferenze su Carlo III di Borbone) era necessario trovare un legame tra denominazione dell'università e territorio. Abbiamo pensato quindi di iniziare un processo che, ben consci delle difficoltà e dei costi (circa 400.000 euro senza che questo abbia alcun effetto negativo né sulle casse né sull'operatività della Sun), portasse con decisione a un cambio ragionato e ragionevole della denominazione, in un'ottica inclusiva e partecipativa, democratica e di rappresentanza di tutte le componenti e territori interessati, che avesse i giusti tempi, senza fretta né ansia.

A norma di legge il cambio di denominazione di un'università è equivalente a una variazione di statuto per cui basta avere il parere del Cda e la delibera a maggioranza qualificata del Senato Accademico per proporre la modifica al Miur. Si iniziava invece processo più ampio nel Febbraio del 2015 ponendo all'attenzione del Senato Accademico la necessità del cambio del nome ed individuando 3 possibili soluzioni: Università degli Studi della Campania «Luigi Vanvitelli», Università degli Studi Di Caserta, Università «Luigi Vanvitelli». Tralasciando le ultime due soluzioni che sono quelle più ovvie, è necessario fare qualche precisazione sulla individuazione della prima.

La denominazione Università degli Studi della Campania «Luigi Vanvitelli» era espressione della comune volontà della Comunità Accademica di continuare a contribuire, attraverso la presenza dell'istituzione universitaria, alla riqualificazione del territorio della «Campania Felix» e alla crescita culturale delle future generazioni. La Reggia di Caserta è infatti riconosciuta a livello internazionale come massima espressione dal punto di vista stilistico del pensiero vanvitelliano e il richiamo all'architetto Vanvitelli equivale a ben collegare l'istituzione universitaria alla città di Caserta. Inoltre, l'appellativo «Campania» è stato inteso a forte valenza storica, poiché rievoca quella «Campania Felix» che raggruppava i territori di Capua, Santa Maria Capua Vetere e Aversa su cui insistono alcuni dei Dipartimenti dell'Ateneo. Sulle ipotetiche 3 denominazioni si apriva una costruttiva consultazione con tutti i Dipartimenti e le forze sociali, limitando di fatto i poteri discrezionali del Cda e del Senato e ampliando significativamente la partecipazione degli studenti e delle diverse componenti accademiche alla decisione finale. Su 19 Dipartimenti 16 espressero la loro preferenza per il nome «Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli»: il 74% del personale dell'Ateneo scelse questo nome mentre il 20% si astenne e solo il 6% optò per «Università degli Studi di Caserta». Di conseguenza il Senato Accademico del 31 marzo 2015 votò a maggioranza qualificata il cambio di denominazione da Seconda Università degli Studi di Napoli a Università degli Studi della Campania «Luigi Vanvitelli». A questa decisione seguirono reazioni di componenti accademiche, studentesche, politiche, delle istituzioni e della società civile casertane, positive ma anche negative, quest'ultime tutte risolte con il buon senso e la calma. Nel frattempo era necessario rivedere e riaggiornare lo statuto della «Sun» e fu quindi deciso di inviare tutta la pratica (cambio di denominazione e nuovo statuto) al Miur solo dopo aver compito tutto il percorso, anche per dare maggior tempo alla comunità accademica di riflettere sul proprio operato. Si arriva così ad Aprile 2016 quando il nuovo Statuto della «Sun» che al 1° articolo reca il cambio di denominazione viene posto ai voti negli organi Collegiali invitando quest' ultimi a riflettere di nuovo sul cambio di denominazione. Questa volta lo Statuto e il cambio di denominazione vengono votati all'unanimità e la ««Sun» comunica al Miur la delibera del Senato per il parere previsto per legge. Il Miur ai primi di Agosto 2016 approva lo Statuto senza alcuna variazione e si arriva ai giorni d'oggi con la sua pubblicazione in G.U. dell'8 novembre.

Terminata la fase autorizzativa, parte ora la fase di riposizionamento nazionale della nostra università per cui dopo aver effettuato un'analisi «Swot» per comprendere limiti, debolezze e forza della nostra università andremo a fare un bando internazionale per il nuovo brand (o logo) oltre ad affrontare una serie di problematiche tecniche ed amministrative connesse con il cambio del nome. Anche in questo caso tutto è stato studiato affinché avvenga nel modo più graduale e meno traumatico possibile (ci vorranno 6-9 mesi per andare a regime), anche se qualche disfunzione sarà un prezzo che potrebbe essere necessario pagare.

Appuntamento ora a maggio quando il nuovo logo dell'Università degli Studi della Campania «Luigi Vanvitelli» dovrebbe essere pronto e adeguatamente pubblicizzato. Alla fine di questa percorso mi corre l'obbligo di ringraziare quanti fra colleghi, personale tecnico amministrativo, studenti e addetti alla comunicazione hanno lavorato con me per il raggiungimento di questo obiettivo, non facile né scontato, ma ritengo molto importante per l'Università ed il territorio. Perché è evidente, che questo è il lavoro di una squadra che io ho solo coordinato.

Si poteva far di più e meglio? Probabilmente si, ma tra la ricerca assoluta del meglio senza la certezza di realizzare o arrivare ad un risultato perfettibile io preferisco sempre la seconda possibilità. 

 

di Raffaella Perrella - Dipartimento di Psicologia della Seconda Università degli studi di Napoli

 

Baby sitter, nonni o nido. Ogni mamma che lavora, almeno una volta nella vita, si è posta questo quesito, ovvero: qual è la scelta migliore per il benessere del mio bambino?
Oggi siamo ben lontani dall’idea che il nido sia un parcheggio dove lasciare il bambino perché non si hanno alternative. Anzi. Iscrivere i bambini all’asilo nido permette ai piccoli di crescere meglio. Uno dei grandi vantaggi di questo tipo di struttura, infatti, è la sua natura di “contesto protetto”, un luogo all’interno del quale i bambini possono sviluppare in completa tranquillità esperienze relazionali importanti e utili anche ai fini della strutturazione della propria personalità, grazie alla possibilità di vivere a contatto con adulti che non appartengono alla ristretta cerchia del nucleo familiare. Adulti che, lo ricordiamo, sono adeguatamente formati ed istruiti. Questo è certamente un altro punto di forza e un aspetto importante da tenere in considerazione, in quanto gli educatori posseggono il know how necessario per interagire con i piccoli a seconda delle età, scegliendo le più opportune modalità del gioco, le interazioni atte a stimolare la dimensione esplorativa, le esperienze di relazione con l’altro, e a gestire le emergenze in caso di difficoltà. Un educatore che accudisce un bambino ai suoi primi passi, ad esempio, lo seguirà attentamente nell’esplorazione dell’ambiente e nei suoi spostamenti dalla zona protetta, ma allo stesso tempo non ne inibirà le scelte di movimento, contenendo le ansie tipiche legate a questo processo. Anche la qualità della relazione con l’educatore può influenzare positivamente i processi di sviluppo e adattamento dei bambini, e le stesse interazioni contribuiranno ad accrescere e valorizzare il loro sano ed armonico sviluppo.
Ma a che età è consigliato inserire un bambino al nido? Si è spesso erroneamente convinti del fatto che allontanare il bambino in tenera età dalla madre possa avere ripercussioni o possa essere un momento difficile da gestire. In realtà, alla luce delle più recenti teorie psicodinamiche dello sviluppo, i piccoli, se iscritti al nido entro i primi mesi di vita riescono a gestire in maniera appropriata il distacco materno. Superata questa soglia conviene, in linea generale, valutare la percezione che il bambino ha della relazione con l’estraneo affinché il bambino sia in grado di vivere il distacco dalla madre in maniera meno traumatica e più serena.
Ovviamente, ogni piccolo è un mondo a sé, e ogni regola porta con sé un’eccezione, un bambino può essere pronto per il nido a 7 mesi, un altro a 16.
Al nido di Ateneo Foca Gialla è possibile effettuare su richiesta una consulenza specializzata e personalizzata, con cui è possibile valutare se il bambino è pronto o meno al confronto con l’estraneo, avendo la consapevole tranquillità di scegliere il tempo giusto, fissando un appuntamento inviando una mail a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. o telefonando al numero 3357515671.

 

di Abdulaye Konaté, Graphic designer at the Musee National in Bamako - Painter - Installation Artist - Sculptor

 

Dirè è una piccola città sulla riva sinistra del fiume Niger nella regione del Tombouctou del Mali. A nord del Mali c’è il deserto che avanza: una linea rossa che si sposta continuamente e che, nel suo avanzare, copre villaggi e territori. Inaridisce i terreni, degrada i suoli, costringe intere popolazioni ad abbandonare le proprie case, le proprie terre e a spostarsi continuamente.

Questa linea rossa – il Sahel – significa “bordo del deserto” ed è una zona di confine dell’Africa sub-sahariana che attraversa le regioni del Gambia, del Senegal, la parte a Sud della Mauritania, dell’Algeria e del Niger, il centro del Mali, il Burkina Faso e il nord della Nigeria, del Camerun, del Sud Sudan e dell’Eritrea, oltre alla parte centrale del Ciad.

Nel 1972 il Sahel è stato colpito da una grave siccità che, con l’aggravarsi dell’inaridimento climatico globale degli ultimi decenni, ha provocato oltre alla distruzione del patrimonio zootecnico locale, anche un ingente fenomeno di migrazione delle popolazioni saheliane verso sud con il conseguente abbandono di quelle terre da un lato, e, dall’altro con un eccessivo processo di inurbamento nelle zone di arrivo. Un fenomeno questo, che vede terre che diventano sempre più aride contrapporsi a terre che diventano sempre più affollate e dense. Questo fenomeno di concentrazione da un lato e di rarefazione dall’altro, può essere preso come strumento visivo di rappresentazione di fenomeni attuali e globali che oggi velocemente si verificano sotto i nostri occhi: la rarefazione e la sparizione delle culture della coltivazione e della pace proprie di queste terre in contrapposizione alla concentrazione dei conflitti, degli estremismi, delle epidemie, delle politiche dello sfruttamento e delle ideologie aggressive che invadono le zone a più alta concentrazione urbana. È come se non esistesse più una progressione tra i fenomeni ma invece una contrapposizione diametrale tra il troppo e il troppo poco.

Il Sahel quindi, non è solo un territorio, piuttosto è simbolo di un processo di desertificazione che avanza che non è solo ambientale ma è anche e soprattutto culturale, politico, religioso.

Una terra che ha visto l’incremento dell’emergenza terroristica di matrice islamista radicale (salafita) soprattutto nell’area nord occidentale e che di fatto, ha portato alla secessione del Nord del Mali, al colpo di stato del 2012 e agli ultimi attacchi terroristici e attentati locali.

Una terra ricca di tradizioni, di cultura, di artigianato locale e di risorse naturali e che diventa oggi uno dei simboli di un fenomeno globale di impoverimento economico e ambientale.

Partendo da Dirè, mia città natale, e dalla terra maliana che ha fatto dell’alto artigianato tessile la manifestazione concreta della propria cultura materiale, della musica la propria voce per parlare con il mondo e dell’arte il proprio punto di forza per rendere manifeste le proprie difficoltà, ho fatto della mia ricerca sull’artigianato locale e sulla grandissima tradizione della cultura tessile, il grimaldello per dialogare con il mondo e lo strumento per toccare grandi temi di rilevanza globale: la desertificazione ambientale, l’emigrazione, l’ideologia religiosa, gli estremismi, i conflitti militari, le sovranità, gli effetti della globalizzazione, i cambiamenti ecologici e le grandi epidemie. Tutti argomenti che diventano, nelle trame delle opere, oggetto di indagine e di decostruzione semiotica.

Un progetto ricco nei materiali - quei tessuti economicamente poveri ma dall’aspetto cangiante e prezioso – che si rifà alla tradizione dell’Africa occidentale e ad un uso commemorativo dei materiali, che si contrappone a messaggi secchi e decisi, elaborati all’interno di una esperienza personale cosmopolita e transculturale.

È partendo da questi temi che le Conservatoire des Art et Métiers Multimédia Balla Fasseké Kouyate di Bamako, la Sustainable Design School di Nizza e la Sun Seconda Università degli Studi di Napoli, nello specifico il Dipartimento di Ingegneria Civile, Design, Edilizia, Ambiente hanno sottoscritto un protocollo di intesa per poter lavorare a progetti comuni che abbiano come argomento centrale i temi della sostenibilità, non solo ambientale.

Il primo argomento di ricerca vede quindi il concetto della “Desertificazione” come metafora attraverso la quale studiare ed analizzare fenomeni più ampi e di portata globale.

I cambiamenti climatici accompagnati dai fattori legati all'accelerazione dello sviluppo economico, alle migrazioni umane e l'abbandono dei territori sta facendo assumere, al termine “desertificazione” significati metaforici  e sembra agire senza distinzione nei paesi del primo mondo, secondo o terzo mondo: sostenuta e implementata da bad practice e culture invasive - dagli incendi al sovra-popolamento, dall'inquinamento all’agricoltura intensiva – la desertificazione stende i propri effetti e fa avanzare i deserti provocando siccità estrema in Australia, seccando parte della California, facendo estendere il deserto del Nevada, minando le riserve idriche, aumentando la salinità dei terreni, favorendo l’erosione, la perdita di massa organica e la perdita di capacità di assorbimento d'acqua da parte del terreno. Perdita di massa vegetale e capacità di schermatura dei raggi solari, innalzamento delle temperature che come un effetto domino, scaldano ulteriormente il terreno e con ulteriore evaporazione dell'acqua ne aumentano la salinità.

L'eco di questo fenomeno subdolo e a lento effetto arriva in seconda battuta, su un terreno, fisico, culturale e psicologico già stanco, e logora la capacità di reazione di interi popoli, tagliandone le connessioni con i propri territori, e ponendoli in una condizione di perenne migrazione.

Questo scenario ambientale si offre, in maniera critica, come una lente di ingrandimento in grado di accendere una spia sul fenomeno della desertificazione inteso quale metafora per altre letture più trasversali e complesse. Diventa allora interessante la costruzione della relazione tra studenti provenienti da culture diverse, quella occidentale e quella sub-sahariana, per capire come i differenti significati del termine desertificazione, a volte anche apparentemente molto sconnessi tra loro, possono invece trovare delle risposte concrete attraverso i percorsi dell’arte, del design, delle scienze e della reciproca fertilizzazione.

Desertificazione naturale, desertificazione economica e desertificazione culturale saranno i tre cardini attorno ai quali verrà costruito l’intero percorso progettuale convinti che la naturale attitudine “etica” del design si può porre come interlocutore primo per affrontare i limiti dello sviluppo, le sue discrasie, e i suoi risvolti più estremi ed aprire a un progetto che, invece, possa contribuire a un “disegno” del mondo in cui progettare ecosistemi diffusi attraverso strategie di condivisione. Il dialogo tra design, arte e scienze, da questo punto di vista, si fa protagonista partecipe, recettore attivo dei segnali e delle preoccupazioni del mondo, ma, soprattutto, diventa tramite per la costruzione di scenari di vita sostenibili, solidali, equi.