“Il rapporto tra giustizia e informazione ha una criticità importante: il controllo sociale esercitato dall’informazione è massimo nella fase delle indagini preliminari, che dovrebbe invece essere segreta, ed invece è minimo nella fase del processo perchè l’attenzione dei media si allontana. Quindi le indagini preliminari si caricano di valore assertivo che invece dovrebbe essere proprio della fase processuale.” Inizia così l’intervento di Giovanni Mellillo, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, ospite dell’Università della Campania nell’ambito del ciclo di conferenze Dialoghi oltre le due culture. Tema dell’incontro il ruolo della giustizia penale unito all’aspetto dell’informazione. Mellillo centra il primo problema della complicata relazione fra giustizia e organi di informazione e aggiunge: “Le cause di questa patologia sono complesse, ma questa criticità rappresenta il maggior fattore di distorsione e di ostacolo ad un corretto bilanciamento tra libertà di informare e diritto di essere informati.”

Traccia un solco fra quelli che lui definisce due tipi contrapposti e coesistenti di processo: quello ordinario e quello mediatico riprendendo le tesi di due giuristi....: “Esistono differenze sostazioni fra il processo ordinario e il processo mediatico: Il processo ordinario si svolge in tribunale, un luogo a ciò deputato, il processo mediatico è un processo delocalizzato si svolge dovunque; il processo ordinario ha un iter scandito dalla legge, ha quindi un suo ordine preciso, il processo mediatico per definizione non ha nessun ordine se non quello richiesto dalla ricerca dell’ascolto e del consenso del pubblico; il processo ordinario ha un tempo ma mira ad una sentenza definitiva, finisce in un giudicato, Il processo mediatico non finisce mai ed è pronto a mettere in discussione continuamente anche le decisioni definitive; Il processo ordinario seleziona meticolosamente il materiale che può essere utilizzato per prendere una decisione, vi è una continua e rigorosa selezione delle conoscenze idonee a formare la decisione del giudice, il processo mediatico, che è stato definitio un processo bulimico, si nutre di qualsiasi cosa di qualsiasi conoscenza, indiscrezione e di fuori onda, quasta bulimia va in collisione con il processo ordinario perchè di fatto può alterare anche la genuinità delle prove da assumere nel contraddittorio.”

Melillo non tralascia però l’altro versante dl problema ossia quello legato agli organi di stampa riprendendo le parole di Luigi Ferrarella, giornalista del corriere della sera in quel tema che lui definisce “Ecologia della professione giornalistica, dove traccia due profili estremamente delicati: il primo attiene alla pretesa del giornalista di pubblicare qualunque cosa arrivi nel proprio ambito di conoscenza a prescindere di qualcunque conseguenza può avere la pubblicazione, il secondo versante attiene all’ambito deontologico, ossia ai trucchi utilizzati dal gionalismo, come l’omissione, insomma tutti quegli accorgimenti che si utilizzano per nascondere o ingigantire le circostanze prive, come le campagne orchestrate per ragioni politiche o commerciali.”

Di fatto Melillo identifica il problema anche nella mancanza di chiarezza delle informazioni fornite dall’organo giustizia, che di solito sono incomprensibili alle masse.

“Comunicare efficacemente e nel modo deontologicamente corretto: non è una cosa facile - continua -esistono modi deontologicamente scorretti ma perfettamente efficienti, al contrario modi deolontologicamente adatti ma privi di qualsiasi interesse per i mass media.”

Serve quindi trovare quasi una forma alchemica, così definita da Melillo, per assicurare l’equilibrio fra efficacia e correttezza delle informazioni. Così come bisogna trovare un equilibrio fra le cose taciute e le cose divulgate. “Non è possibile serbare il silenzio e non è possibile dire tutto”.

Poche sono le leggi che regolano questo contorto rapporto: “ La comunicazione deve essere curata personalmente dal Procuratore della Repubblica o da un suo delgato. Ogni informazione data dalla Procura è fornita senza citare i magistrati che si stanno occupando del procedimento, cosa che di fatto però non è possibile fare.”

Come uscire dall’impasse? “Perdurando il segreto tutto dovrebbe rimanere celato ma appena il segreto non è più tale tutto dovrebbe essere pubblicato.”

C’è anche però chi sostiene che dovrebbe essere riconosciuto al giornalista un limpido accesso alle informazioni, cosa che comunque mette a rischio varie parti del procedimento.

Altro limite è la poca informazione riguardo certi tecnicismi del lavoro del pubblico ministero, sono ignorate dalla grande maggioranza della popolazione le modalità e la struttura che compongono l’ufficio del Pubblico Ministero.

Ma come l’entità giudiziaria prende in considerazione indagini e ricostruzioni fatte dai media? In particolare uno studente si rivolge a Melilllo chiedendo della vicenda Fanpage: “non posso parlare della vicenda, l’unica cosa che posso dire che diventerà certamente un caso di studio, poichè è una vicenda senza precendenti.”

La scoperta dei ricercatori dell’Ateneo Vanvitelli pubblicata su Behavioral Sleep Medicine.

Cimentarsi in giochi come Ruzzle prima di andare a dormire aiuta e migliora la qualità del nostro sonno.  Chi lo avrebbe mai detto? Eppure uno studio effettuato da un gruppo di docenti del Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, in collaborazione con il Dipartimento NEUROFARBA (Dipartimento di Neuroscienze, Psicologia, Area del Farmaco e Salute del Bambino) di Firenze, e pochi giorni fa pubblicato sulla rivista internazionale Behavioral Sleep Medicine, mostra come un allenamento intensivo ad un gioco sul cellulare (una versione modificata del notoRuzzle), fatto prima dell’addormentamento, migliori numerose caratteristiche (tempo di addormentamento, continuità, efficienza) di un sonnellino diurno successivo.

Alla ricerca hanno partecipato 38 studenti universitari (23 donne, 15 uomini) di età compresa tra i 19 ed i 30 anni, in buona salute e che non avessero familiarità con il Ruzzle.

Ciascuno di loro ha effettuato in laboratorio due sonnellini diurni in ordine bilanciato, uno di controllo (C) e uno preceduto da una sessione di training intensivo al gioco (TR), costituita da numerosi round di Ruzzle che implicavano il coinvolgImento simultaneo di numerose funzioni cognitive, ivi incluse le più complesse.

"Rispetto alla condizione di controllo - spiega uno degli autori della ricerca, Gianluca Ficca, Direttore Laboratorio del Sonno Dipartimento di Psicologia dell’Università Vanvitelli – il sonnellino preceduto dal training è caratterizzato da un aumento della durata totale di sonno, accompagnato da una riduzione della latenza di sonno (il tempo impiegato ad addormentarsi dopo lo spegnimento della luce), e da un aumento dell’efficienza, dovuto alla riduzione della frequenza dei risvegli. La durata del sonno aumenta in media di 17 minuti in 31 soggetti (circa il 20 per cento in piú) mentre il tempo impiegato a riaddormentarsi, detto "latenza di sonno"  è ridotto in media di 4'10" (circa il 25% in meno)."

La continuità del sonno è nettamente migliorata: infatti la quantità di veglia dopo l'addormentamento (detta WASO "Wake After Sleep Onset") si riduce in media di 5'30" (più del 20%, in 36 soggetti su 38), l'efficienza di sonno (ossia la percentuale di tempo effettivo di sonno sul tempo trascorso a letto) è di conseguenza aumentata dal 55% al 69%, e infine la frequenza di risvegli media è ridotta da 7.54 per ora di sonno a 5.44 per ora di sonno (i risvegli diminuiscono in tutti i soggetti). Infine aumenta anche la cosiddetta "stabilità" del sonno, che è espressa dal  numero di passaggi da uno stadio a un altro (tipo da sonno profondo a Stadio 2). Questi passaggi di stato si riducono da 23.9 a 21.4 per ora di sonno, quindi di più del 10%).

Un sonno più lungo, insomma, e di migliore qualità. Si tratta di una scoperta ottenuta su un episodio di sonno diurno (in pratica un pisolino di due ore fatto nel primo pomeriggio), ma che i ricercatori stanno attualmente ritrovando anche per ciò che riguarda il sonno notturno: essa appare di buona rilevanza in quanto confuta la diffusa credenza clinica secondo la quale l'incremento dell'attività cognitiva prima di dormire sarebbe sempre controproducente nei casi di insonnia.

“I risultati di questo studio” - continua Ficca – “rivelano interessanti implicazioni applicative cliniche e psicosociali, mettendo in discussione la credenza comune che l'attività cognitiva prima del sonno ostacoli la propensione al sonno stesso e la sua qualità, aumentando l'attivazione psicofisiologica. I nostri risultati, mostrando che la somministrazione prima di un sonnellino del gioco del Ruzzle favorisca la propensione al sonno e ne migliori la stabilità, aprono la strada alla possibilità di esplorare in futuro l’efficacia di sessioni pianificate di training cognitivo per la cura dei disturbi del sonno”.

 

Stanotte ennesimo femminicidio. Un uomo a Troia, nel Foggiano, Ferdinando Carella, 47 anni, ha assassinato la moglie, Federica Ventura, di 40 anni, con una decina di coltellate.

Da oggi in Italia, primo paese al Mondo, entra in vigore una legge dedicata agli orfani speciali. Si tratta della LEGGE 11 gennaio 2018, n. 4  recante modifiche al codice civile, al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in favore degli orfani per crimini domestici. (18G00020) (GU Serie Generale n.26 del 01-02-2018)

All’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, il Dipartimento di Psicologia, con il mio coordinamento, dal 2011, è stato portato avanti un progetto ‘Switch-off’ che insieme alla Rete nazionale dei centri antiviolenza (DiRe) e l’università della Lituania e di Cipro ha coordinato il progetto europeo portando avanti uno studio unico nel suo genere ove si dà luce e voce ai figlie e alle figlie la cui mamma è stata uccisa dal padre. Come in questo caso di cronaca.

Dalla ricerca, realizzata inizialmente grazie al sostegno dell’Unione Europea e il sostegno del nostro Ateno, e speriamo presto anche dalle Istituzioni, stiamo realizzando il primo Osservatorio Nazionale Sugli Orfani Speciali (ONOS) permanente per la conoscenza delle conseguenze psico-sociali, le risposte terapeutiche, giuridiche e sociali sul problema.

Con questa la nuova legge anche alle Università è chiesto un ruolo, anche attraverso l’erogazione di borse di studio dedicate a questi orfani. Il nostro Ateneo sarà volàno nel promuovere una cultura dello studio attenta al benessere psico-fisico dei propri studenti e studentesse che malgrado abbiano subito tale atroce danno, possano, come giusto che sia, vedersi riconosciuti dei diritti, come lo è con altre ‘categorie’ di orfani e poter non solo coltivare sogni ma poterli realizzare. E noi li dobbiamo aiutare.

Nello specifico questa legge sugli orfani da crimini domestici apporta modifiche alle norme del Codice civile, Codice penale, Codice di procedura penale, definendo tali i figli minori o maggiorenni economicamente non autosufficienti, che sono divenuti orfani di un genitore a seguito di “omicidio dello stesso genitore dal coniuge, anche separato o divorziato, dall’altra parte dell’unione civile, pure se l’unione civile è cessata, ovvero dalla persona che è o è stata legata da relazione affettiva e stabile convivenza”. Sono numerose le azioni introdotte individuate nel testo di legge. Fra queste l’accesso al gratuito patrocinio in deroga ai limiti di reddito previsti, l’accesso gratuito ai servizi di assistenza medica e psicologica, l’assegnazione di alloggi di edilizia pubblica, la possibilità di cambiare il cognome anche in assenza del consenso del padre.

Un aspetto importante della legge, di cui dovremmo aspettare i decreti attuativi per conoscerne la declinazione, è la previsione che il Fondo esistente per altre tipologie di vittime, appunto, abbia un incremento per borse di studio in favore degli orfani e al finanziamento di progetti di orientamento, di formazione e di sostegno per l’inserimento degli stessi nell’attività lavorativa. Speriamo che il Nostro Ateneo possa presto essere identificato a livello nazionale a anche internazionale come un luogo di segretariato sociale, di monitoraggio nazionale sul tema. Ci immaginiamo un luogo che è sì di studio ma anche di ‘cura’, per l’attenzione particolare che vogliamo dare a questi ragazzi, che possano studiare e pensare al loro futuro, così che lo Stato per il tramite delle Sue Università, faccia la sua parte. Ogni femminicidio rappresenta un fallimento dello Stato che non è stato in grado di prevenirlo. Gli orfani non possono pagare altri prezzi. Nel nostro Ateno la ricerca sugli ‘orfani speciali’ e l’impegno nel terzo settore anche in questo ambito continua; adesso monitoreremo l’applicazione della norma, sperimenteremo modelli e modalità di intervento e formazione che possano diventare, una volta evidenziata la loro efficacia, best practice nazionali e internazionali, con la collaborazione e il coordinamento dei migliori professionisti che da anni, con costanza e passione e professionalità hanno permesso a questa legge di avere una luce.

 

di Anna Costanza Baldry, Ordinaria di Psicologia sociale - Dipartimento di Psicologia
Autrice del libro da poco uscito: Orfani Speciali, 2017, Franco Angeli, Milano.

 

Chi determina l'assegno di mantenimento e quello divorzile? Qual è la legislazione in merito?


risponde Roberta Catalano, docente di Istituzioni di Diritto Privato al Dipartimento di Giurisprudenza dell'Univerisità Vanvitelli

Io e mia moglie siamo in fase di separazione, il vincolo matrimoniale è ancora valido?
In seguito alla separazione personale dei coniugi il vincolo matrimoniale non si scioglie, ma viene sospeso in attesa del divorzio ovvero di una eventuale riconciliazione. Dunque, durante tutto il periodo della separazione, i coniugi rimangono tali e non possono contrarre nuovo matrimonio. L'intervenuta separazione comporta, però, un mutamento ovvero una attenuazione dei reciproci obblighi di fedeltà, di convivenza e di assistenza morale e materiale. In particolare, quest'ultimo obbligo si riduce essenzialmente al dovere di assistenza materiale e si sostanzia nel dovere di corrispondere un assegno di mantenimento al coniuge che dimostri di non disporre di adeguati redditi propri. In ogni caso, l'assegno non è dovuto al coniuge cui sia addebitata la separazione, cioè al coniuge resosi colpevole della violazione dei doveri derivanti dal matrimonio e della conseguente crisi dell'unione.

Chi stabilisce l’assegno di mantenimento?
Se la separazione è consensuale saranno i coniugi a stabilire, tra le altre cose e di comune accordo, l’ammontare dell’importo dovuto a titolo di mantenimento. In questo caso, le condizioni di separazione verranno omologate quando se ne accerti la congruità, soprattutto in relazione all'interesse dei figli. Se invece non v'è accordo, oppure se uno dei coniugi chiede l'addebito della separazione all'altro, sarà il giudice, sentite le parti, a stabilire le condizioni, anche economiche, della separazione stessa. In questo caso, il diritto al versamento dell'assegno di mantenimento verrà riconosciuto alla parte svantaggiata dalla crisi del rapporto, poiché l'assegno ha la funzione di riequilibrare le condizioni economiche dei partner garantendo al coniuge più debole lo stesso tenore di vita di cui godeva durante il matrimonio.
Cosa succede se non ottempero al mantenimento?
Il coniuge obbligato al versamento dell'assegno di mantenimento, se non adempie, può essere sottoposto, su istanza dell'altro, al sequestro dei beni ovvero al pignoramento dei crediti che vanta verso terzi (es., crediti verso il datore di lavoro). Nei casi più rilevanti il coniuge creditore, a tutela del suo diritto, può anche iscrivere ipoteca su uno o più beni immobili del partner inadempiente.

Ho perso il lavoro, posso modificare le condizioni del mantenimento?
Le condizioni economiche della separazione, consensuale o giudiziale, sono sempre modificabili qualora muti il tenore di vita di uno o di entrambi i coniugi. Cosa che può accadere, per esempio, quando uno dei due inizi una convivenza di fatto con altro partner, ovvero quando si verifichino delle significative variazioni delle spese necessarie per il sostentamento della famiglia. Differisce dalla revisione l'adeguamento dell'assegno, che si attua a mezzo della rivalutazione annuale dell'importo dovuto in base alle variazioni degli indici ISTAT. L'adeguamento è dovuto per legge, ma la sua effettiva applicazione è subordinata alla espressa richiesta rivolta dal coniuge percipiente a quello obbligato.

Com’è determinato l’assegno di divorzio?
Il divorzio determina lo scioglimento del vincolo matrimoniale, ma non la totale cessazione dell'obbligo di assistenza materiale, che può continuare a comportare, a carico dell'ex coniuge, l'obbligo di corrispondere all'altro un assegno divorzile. Fino a pochi mesi fa la giurisprudenza determinava l'importo dell'assegno divorzile in base al criterio del tenore di vita della coppia in costanza di matrimonio. Invece, con la sentenza numero 11504 del maggio del 2017, la Corte di Cassazione ha affermato che la concezione patrimonialistica del matrimonio –  alla cui stregua l'unione matrimoniale era intesa come sistemazione definitiva – deve essere superata, per recuperare al matrimonio stesso il suo ruolo di atto di libertà e di autoresponsabilità, nonché la sua essenza di luogo di affetti e di comunione di vita, in quanto tale dissolubile. Pertanto, secondo la Cassazione, l’assegno divorzile non può essere riconosciuto all’ex coniuge che sia economicamente indipendente o che sia in grado di esserlo perché possiede un reddito proprio; dispone di un adeguato patrimonio mobiliare o immobiliare; ha capacità di lavorare (valutata in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro indipendente o autonomo); dispone stabilmente di una abitazione. La Corte di Cassazione, con la sentenza numero 12196 del 2017, ha poi chiarito che quanto affermato, circa l'assegno divorzile, dalla predetta decisione numero 11504 del 2017 non riguarda anche l'assegno di mantenimento del coniuge separato perché la separazione, a differenza del divorzio, non elide, anzi presuppone, la permanenza del vincolo coniugale.
L’assegno divorzile può essere corrisposto mensilmente, o essere liquidato in una sola tranche, il cui importo va definito moltiplicando l’assegno periodico per un coefficiente fisso dipendente dall’età del coniuge beneficiario. Anche al diritto di credito all'assegno di divorzio si applicano le tutele riconosciute  al credito avente ad oggetto l'assegno di mantenimento.

Se mi risposo, ho comunque diritto all’assegno di mantenimento?
No, se si risposa, il coniuge beneficiario dell'assegno divorzile perde il diritto di ottenerlo. La decadenza è automatica, e decorre dal giorno stesso in cui viene celebrato il nuovo matrimonio.
                          

Ho appena scoperto che la Campania è considerata una regione in «Ritardo di sviluppo». Colpa mia, non mi tengo informato. Anche se in buona compagnia, guarda caso tutte le regioni del Sud soffrono di questo ritardo, la cosa non mi fa piacere. Ho anche realizzato che per sviluppo va inteso quello industriale, quando il Ministero dell'Università e della Ricerca (noto come Miur) ha pubblicato il bando che assegna alle regioni zoppicanti investimenti e risorse economiche per favorire lo sviluppo di nuove competenze professionali richieste dal mercato del lavoro. L'Università, come legittima e più elevata emanazione del Miur, diventa uno dei motori dell'auspicato riposizionamento competitivo delle regioni più svantaggiate; il dottorato di ricerca universitario è lo strumento ritenuto idoneo per tale scopo.

Quando nel 1980 il dottorato fu introdotto nel sistema universitario italiano, rappresentava il massimo grado di istruzione universitaria. Il nome suonava bene: dottore di filosofia per dirla alla moda anglosassone (Philosophiae Doctor, o più semplicemente Ph.D.). Ancora oggi essere dottori di ricerca significa aver raggiunto il terzo livello di studi, un titolo che stando alla originale definizione della legge, poteva essere valutato soltanto in ambito della ricerca scientifica, o come percorso di formazione alla carriera accademica. Mi faccio dei conti grossolani: ogni anno circa 12.000 laureati nelle varie discipline accedono ai percorsi di dottorato in tutti gli atenei italiani, un numero molto più grande di quello che il mondo accademico, dentro e fuori l'Università, è in grado di accogliere e collocare degnamente. La sola Università della Sapienza a Roma accoglie ogni anno 823 nuovi dottorati. Non è un caso che il Rettore della Vanvitelli, Prof. Giuseppe Paolisso, abbia voluto fortemente incentivare la numerosità e la innovatività dei corsi di dottorati che afferiscono all'Ateneo Vanvitelli. Statistiche alla mano, circa 2.000 dottori di ricerca (appena il 17% della carica iniziale) riuscirà realmente a trovare una sistemazione in ambito universitario. Ed il restante 83%? Gli altri stati europei hanno affrontato da tempo un'analoga situazione, individuando un sistema vincente , basato sulla cooperazione Università ed imprese. In pratica, i dottorati devono essere centri di innovazione e trasferimento tecnologico. Come al solito le frasi più belle sono quelle coniate da altri, specialmente se in inglese. Ecco il «Learning by doing» letteralmente «imparare facendo» che poi a ben guardare resta ancora il cruccio dei nostri sistemi universitari, poca pratica rispetto al cumulo di teoria che si accumula ogni anno in modo esponenziale. Gli aggettivi usati per definire questi dottorati innovativi sono tre: internazionale, industriale, interdisciplinare, e rispondono alle esigenze di collaborazione con altre istituzioni al di fuori dell'Italia e di integrazione con settori esterni all'accademia. Non è un caso se l'Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), scrive così: «Le aziende sono attratte dai Paesi che fanno di questo livello di formazione e ricerca una opportunità accessibile».

Già oggi ottenere un titolo di Ph.D. può aiutare: dati alla mano (ISTAT 2015), il 91,5% del totale lavora dopo 4 anni dall'ottenimento del titolo di dottore di ricerca, anche se un 30-40% già lavorava prima di iniziare il corso di studi. Nonostante alcune difficoltà residue, legate alle differenti procedure amministrative tra pubblico e privato, e tra Italia ed altri paesi del mondo, il processo sembra avviato e difficilmente potrà essere invertito. Il PhDay Un giorno per il dottorato alla Vanvitelli rappresenta una ghiotta occasione per un confronto di idee tra i dottorandi che afferiscono alla Scuola di Dottorato in Scienze della Vita. Lo scopo principale è mostrare, nella maniera più informale e semplice, come dietro alla ricerca dei giovani vi siano soprattutto passione, curiosità, voglia di fare e speranza per il futuro. L'appuntamento è per giovedì 31 gennaio, presso la sede dell'Ateneo Vanvitelliano in Via Costantinopoli 104, dalle 8,3o.

Dario Giugliano, Direttore della Scuola di Dottorato in Scienze della Vita Università della Campania Vanvitelli

“Una tragica fatalità, questa è l’unica definizione che mi sembra possibile dare, al momento, all’accaduto”. Armando Cartenì, docente di Pianificazione dei Trasporti all’Università Vanvitelli, commenta così l’incidente avvenuto ieri verso le 7 del mattino sulla linea ferroviaria che da Cremona porta centinaia di pendolari a Milano. Il treno, di proprietà della Trenord, è deragliato nei pressi della stazione di Pioltello Limito nel milanese. Il bilancio parla di quattro vittime accertate, cinque feriti gravi e circa un centinaio di feriti lievi.

Quali sono le possibili cause di deragliamento?

“Difficile dirlo con così pochi elementi. Diversi sono i motivi che potrebbero aver portato al deragliamento – spiega Cartenì – un problema alla linea, ad un convoglio o un errore umano sono le cause più frequenti.

Secondo quanto riportato dall’Ansa i tecnici avrebbero escluso una delle alternative più probabili: un problema allo scambiatore.

“Se questo dato fosse confermato si escluderebbe l’errore umano da parte di chi gestisce la stazione nonché una cattiva manutenzione degli scambiatori, che come noto permettono al treno, prima di entrare in stazione, di essere convogliato in uno o un altro binario”.

Quindi?

“Escludendo anche la velocità eccessiva, che non sembra essere una delle cause, potremmo dire che questa volta l’errore umano non è certamente la causa”.

Sarebbe invece confermato, dagli addetti della RFI, il cedimento strutturale di 20 centimetri di binario….

“Stiamo parlando di un cedimento probabilmente avvenuto circa un paio di km prima del luogo dove poi è avvenuta la tragedia. Resta da capire se questo cedimento è stata la causa o l’effetto del deragliamento. Dalle prime ricostruzioni sembrerebbe più verosimile la prima ipotesi: un cedimento che avrebbe compromesso la stabilità di uno o più convogli portando il treno a deragliare più avanti … se ciò fosse confermato dalle perizie tecniche che seguiranno nei prossimi giorni, potremmo parlare solo di una pura fatalità”.

Il cedimento della rotaia non potrebbe essere causato da una cattiva manutenzione?

“Premesso che bisognerà attendere gli esiti dell’inchiesta che seguirà questa terribile sciagura, quello che posso azzardare sono solo delle ipotesi. Se dovesse essere confermata come causa il cedimento strutturale, mi sentirei di escludere una cattiva manutenzione. La nostra rete ferroviarie è costantemente monitorare da RFI ed anche gli investimenti che negli ultimi sono stati destinati alla “cura del ferro” dal Ministero dei Trasporti vanno nella direzione di un ammodernamento e funzionalizzazione della rete ferroviaria del nostro Paese. Per contro, tutti i materiali, soggetti grosse e continue sollecitazioni, possono giungere a rottura e sarebbe impensabile controllare tutti i “20 centimetri” degli oltre 24 mila km di rete ferroviaria italiana tutti i gironi prima di far transitare i nostri treni.

Quindi?

“Quindi in questo caso davvero tutti gli indizi portano a immaginare che la causa di questo tragico incidente, purtroppo, sia imputabile solo a una terribile fatalità”. Ricordiamoci per contro che il trasporto ferroviario insieme a quello aereo è la modalità di viaggio più sicura. Ricorso che negli ultimi 5 anni meno del 2% dei morti totali (compresi i suicidi sui binari e gli incidenti da lavoro) è avvenuto sulla ferrovia contro l’oltre 94% della strada.

Dopo un incidente del genere, quali sono le conseguenze?

“Difficile dirlo... In primo luogo, dipende dal danno prodotto dal deragliamento, ma importanti e forse prevalenti saranno i tempi che occorrerà alla magistratura per fare gli accertamenti del caso. I tempi necessari per l’allontanamento dei rottami dai binari e di rimessa in funzione della tratta sono brevi, quello che richiederà alcuni giorni saranno le indagini e le perizie tecniche.  In questo caso l’area dell’incidente verrà senz’altro posta sotto sequestro per permettere ai periti di fare i dovuti rilievi, per cui si deve parlare di tempi amministrativi più che tecnici. Di sicuro il servizio sarà interrotto per alcuni giorni, con ulteriori disagi per studenti e pendolari che su quella tratta sono oltre 10 mila al giorno”.

 

Uno dei più clamorosi esempi di Fake History è la teoria che nega il genocidio degli Ebrei, definita negazionismo della Shoah: questa corrente di “pensiero” contesta la veridicità storica dell’Olocausto attuato dalla Germania nazista.

Campi di concentramento e sterminio degli ebrei: qual è la posizione dei negazionisti?
Secondo le tesi sostenute da personaggi a dir poco discutibili, di ultradestra come l’americano Mark Weber, l’inglese David Irving, il francese Robert Faurisson e gli italiani Piero Sella e Carlo Mattogno, ma anche di ultrasinistra, come il francese Pierre Guillaume e gli italiani Claudio Moffa e Cesare Saletta, il Terzo Reich non elaborò né tanto meno attuò alcun programma di eliminazione della razza israelita in Europa; i campi di concentramento organizzati dai nazisti per rinchiudervi gli ebrei erano campi di lavoro e non di sterminio e, infine, il totale degli ebrei che vi persero la vita è ben lontano dai 5-6 milioni indicati dalla storiografia e, per giunta, solo alcuni di loro furono uccisi nelle camere a gas (ammesso che siano realmente esistite, come è giunto a sostenere Faurisson) mentre la gran parte morì di stenti e di malattie, quindi per “cause naturali”.
L’Olocausto, dunque, non sarebbe altro che una gigantesca finzione, costruita ad arte dai circoli ebraici mondiali per demonizzare la Germania e per fornire una giustificazione morale alla creazione dello Stato d’Israele e alle scelte politiche da questo di volta in volta sostenute.

I sostenitori della tesi negazionista sono storici?
Questi personaggi pretendono di essere riconosciuti come storici “revisionisti”, ma non hanno alcun titolo per meritare questa definizione. La ricerca storica è per definizione “revisionista”, perché punta sempre a verificare tesi anche consolidate, a porre nuove domande, a guardare ai fenomeni storici o anche ai singoli avvenimenti da nuove angolazioni e con nuove tecniche e nuovi strumenti di indagine. I negazionisti seguono invece posizioni antistoriche e antiscientifiche, esprimono posizioni di scetticismo assoluto verso le prove del genocidio fornite dai veri storici e dagli esperti, bollandole sbrigativamente come menzogne costruite dai vertici della comunità ebraica mondiale e dai soliti, imprecisati “poteri forti”, senza curarsi di fornire, a loro volta, uno straccio di prova di carattere scientifico a sostegno delle loro tesi.
Quali sono le basi documentali del negazionismo?
E’ certo vero che finora non sono stati trovati precisi ordini scritti di Hitler sul genocidio degli ebrei ma esiste un’amplissima documentazione sui progetti e sulle misure prese dai vertici nazisti per la “soluzione finale della questione ebraica, come, per fare un solo esempio, il verbale redatto da Adolf Eichmann (su istruzioni di Reinhard Heydrich) della riunione di alti ufficiali e dirigenti dei principali ministeri tedeschi tenuta a Wansee il 20 gennaio 1942.
Allo stesso modo, è vero che la gran parte dei lager nazisti erano “campi di lavoro” , come Auschwitz, Buchenwald-Birkenau, Dachau e Mathausen, e non di sterminio, come Sobibor e Treblinka, ma vi morirono ugualmente milioni di ebrei (più di un milione nel solo campo di Auschwitz). E’, infine, vero che una buona parte delle morti degli ebrei internati fu provocata da “cause naturali” come le malattie (scabbia, tifo esantematico, difterite, dissenteria) e gli stenti sostenuti (in primo luogo la denutrizione). Ma la diffusione e le conseguenze letali delle malattie e degli stenti erano conseguenza delle terribili condizioni di vita dei deportati, impiegati dai nazisti come manodopera coatta, costretta a sostenere lavori sfiancanti con ritmi massacranti, con scarsissimo cibo, fino allo sfinimento e alla morte per denutrizione. Va, anzi ricordato, che il tentativo di provocare la morte degli ebrei per inedia era una pratica seguita sin dall’inizio della guerra dai nazisti, come confermano le terribili immagini girate dagli stessi cineoperatori tedeschi nel ghetto di Varsavia nel 1940, nel 1941, nel 1942 e, infine nei primi mesi del 1943 (prima della disperata rivolta dell’aprile-maggio di quell’anno), che mostrano abitanti sempre più magri, fino a ridursi a scheletri viventi, che vagavano per strade dove non si raccoglievano più i cadaveri dei morti per fame, resi indifferenti a tutto, anche al pianto disperato di una madre che si aggirava per le strade stringendo tra le braccia il cadaverino del suo figlio.
Tra l’altro, anche a non voler tener conto dell’imponente mole di documenti e di testimonianze disponibili sull’argomento, un’inoppugnabile conferma della veridicità storica della Shoah è fornita dai filmati girati da russi, americani e inglesi nei campi di concentramento appena liberati. Gli americani, ad esempio, quando nell’aprile 1945 liberarono il campo di Buchenwald, non solo documentarono le fosse comuni piene di morti, le cataste di cadaveri ancora insepolti e le condizioni dei superstiti ridotti a scheletri viventi, ma costrinsero gli abitanti della vicina Weimar a sfilare per il campo, con il loro borgomastro in testa e badarono bene a riprenderli uno per uno, perché così nessuno potesse negare in futuro quello che avevano visto con i loro stessi occhi, e analoghe iniziative furono prese anche dagli inglesi, come nel filmato girato nel campo di Bergen Belsen, montato secondo i suggerimenti dello stesso Alfred Hitchcock.

C’è stata una propaganda negazionista?
Dal momento che i negazionisti rifiutano di riconoscere anche l’evidenza, si può dire che non rappresentano affatto la legittima richiesta di un libero confronto storico anche su un tema tragico come la Shoah ma che, piuttosto, costituiscono una delle più evidenti espressioni della tendenza a seguire ciecamente ottusi schemi ideologici e a mantenere comportamenti devianti. Lo conferma l’aggressiva e ipocrita propaganda condotta su internet da tanti gruppi filonazisti, che, da un lato, sfruttano il fascino macabro della violenza senza limiti operata dai nazisti per attirare nuovi adepti - allo stesso modo con cui i propagandisti del sedicente Stato Islamico utilizzano l’orrore dei filmati dei fanatici tagliagole dell’ISIS che uccidono ostaggi o prigionieri inermi per arruolare nuove reclute -, e, dall’altro, cercano di negare che quella violenza sia stata realmente esercitata sugli ebrei europei.

Negazionismo, un reato da perseguire?
Se le cose stanno così, serve considerare il negazionismo un reato da perseguire, come è stato fatto in diversi paesi europei, a cominciare dalla stessa Germania, e come è stato proposto più volte anche in Italia?
In realtà l’applicazione di queste misure potrebbe offrire ai negazionisti l’opportunità di atteggiarsi a difensori della libertà d’espressione e a martiri. Credo inoltre che sia pienamente condivisibile la contrarietà espressa dalla gran parte dei più autorevoli storici contemporaneisti italiani verso misure di carattere coercitivo perché la verità storica non può essere affidata agli Stati e perché solo la società civile, attraverso una costante battaglia culturale, etica e politica, può creare gli anticorpi necessari per contrastare e vincere le posizioni negazioniste.

Per non dimenticare
Perché non si ripeta mai più un’immane tragedia come la Shoah servono dunque la memoria, la conoscenza e un costante impegno di tutti nel seguire la strada della ragione. Occorre perciò anche abbandonare il mito consolatorio del “cattivo tedesco”, ricordando che anche austriaci, ungheresi, ucraini, estoni, lituani, francesi furono complici, in varia misura, del genocidio degli ebrei, e che lo fummo anche noi italiani, per aver accettato passivamente le leggi antisemite emanate dal regime fascista e per essere entrati in guerra al fianco della Germania nazista.
Se il sonno della ragione genera mostri, il razzismo e il fanatismo si combattono sforzandosi sempre di capire le ragioni degli altri, respingendo le incitazioni all’odio verso il “diverso”, ed anche, semplicemente, non prendendo per buone le soluzioni semplicistiche e miracolistiche ai problemi complessi della nostra società proposte da tanti arruffapopolo e verso le tante bufale più o meno pericolose e capziose che circolano su internet.

Stato e democrazia sono due concetti che appartengono alla cultura giuridica occidentale e che, almeno “in combinato disposto”, non sembrano sempre perfettamente “calzanti” allorquando l’indagine si focalizza su contesti politici e giuridici diversi da quelli propri della tradizione liberale.


di Arianna Vedaschi, docente di Diritto pubblico comparato all'Università Bocconi, ospite all’Università Vanvitelli il 24 gennaio presso Aulario del Dipartimento di Giurisprudenza

L’esperienza dell’Islamic State (IS), che ha interessato, nel suo momento apicale, un territorio di circa trentacinquemila chilometri quadrati e non meno di sei milioni di persone, ha drammaticamente riproposto la difficoltà di riferire istituti e, più in generale, concetti di matrice occidentale ad altre aree del pianeta. Eppure, nonostante la sua vocazione imperialistica, almeno nella sua fase albare, il progetto politico proposto dall’IS si è espressamente richiamato alla categoria statale. Il 29 giugno 2014, primo giorno di Ramadan, dalla principale moschea di Mosul, seconda città dell’Iraq, Abu Muhammed al-Adnani al-Shami, portavoce ufficiale del neo-califfato, proclama la nascita dello Stato Islamico e presta giuramento di fedeltà «allo Sceicco, al Mujaheddin, all’Adoratore, l’Imam, al Devoto, al Mujaheddin discendente della stirpe profetica, il servitore di Allah: Ibrahim Ibn ’Iwad, Ibn Ibrahim, Ibn ’Ali, Ibn Muhammad [a]l-Badri [a]l-Hachimi [a]l-Qourachi per discendenza, As-Samourra-i per nascita, [a]l-Baghdadi per il luogo in cui ha compiuto gli studi e ha vissuto». Al-Baghdadi accetta la nomina e diventa imam di tutti i musulmani del mondo. In qualità di portavoce del neonato Stato, al-Adnani si rivolge poi al «popolo di Allah» esortandolo ad unirsi e a combattere per la causa comune, cioè, nella retorica islamista, la promessa di Allah e dice: «o musulmani, perché se voi respingete la democrazia, la laicità, il nazionalismo e le altre lordure dell’Occidente, allora grazie ad Allah voi governerete la terra, Oriente e Occidente si rimetteranno a voi».
La natura, incerta e atipica, della neonata entità politica è al centro della relazione che si propone di verificare la possibilità di ricondurre l’esperienza dell’IS al modello statale ricostruito secondo la dottrina costituzionalistica classica. In altre parole, la pluralità di individui uniti nella comunità delineata da al-Adnani, connessa all’ambito spaziale controllato da al-Baghdadi, cioè sottoposta al suo potere di imperio, alios excludendi, è riconducibile al modello statale?
In sintesi estrema: con Da’ish il terrorismo internazionale si è fatto Stato?
Per rispondere a questa domanda occorre sottoporre l’oggetto di indagine al test dei tre elementi: territorio, popolo e sovranità, che, secondo la dottrina costituzionalistica, devono necessariamente essere compresenti, affinché si possa utilizzare la categoria statale. All’esito di questa verifica, emergono alcune non marginali criticità, che peraltro rivelano l’uso improprio di termini, ma invero di concetti (a partire da quello di Stato), che appartengono alla cultura politico-giuridica occidentale. Preso atto che le rilevate forzature, quando non vere e proprie contraddizioni, mettono in dubbio l’esito della verifica, e dopo aver tentato di lumeggiare l’assetto interno del Califfato, al fine di capire se, sul complementare piano dei fatti, si possa individuare, seppure in nuce, una struttura amministrativa organizzata e funzionale al soddisfacimento dei bisogni della collettività di riferimento, la relazione si conclude con alcune riflessioni tese a segnalare l’emergere di un inedito modello di gestione del potere, alternativo, in senso in senso escludente, a quello della democrazia occidentale.
Infine, di fronte all’aumento degli attentati “a macchia di leopardo”, così costanti nel ripetersi da configurare, se considerati nel loro insieme, un campo di battaglia globale, assimilato a una terza «guerra mondiale», occorre ragionare attentamente sul “lascito” dell’abortita esperienza dell’IS, oltreché sull’azione di contrasto al terrorismo internazionale di matrice islamista.
Da questa prospettiva, alla luce delle principali counter-terrorism measures, adottate dai governi occidentali, emerge l’insufficienza o, quantomeno, l’inadeguatezza dei meccanismi di protezione finalizzati a prevenire, contrastare e reprimere i pericoli alla sicurezza collettiva. Di qui anche il sistematico ricorso al segreto di Stato, che però, allorquando diventa la regola e non più l’eccezione, sfida la tenuta stessa della democrazia.

Nelle ultime settimane, complice il debutto in Borsa dei derivati sui bitcoin, i mass media hanno dedicato considerevole attenzione al tema delle valute digitali. Abbiamo deciso di parlare del sistema Bitcoin con Antonio Meles, Professore Associato di Economia degli Intermediari Finanziari della Università Vanvitelli.

Bitcoin, cosa sono e come funzionano?
Il bitcoin è una moneta digitale e “decentralizzata”, ovvero un tipo di moneta dematerializzata che, anziché essere coniata e controllata da un organismo centrale, come la Bce, viene creata collettivamente dalla rete, fino ad un tetto massimo di 21 di milioni di unità, mediante la risoluzione di complessi algoritmi (c.d. attività di mining, o “estrazione”) da parte di microprocessori.

Da dove nasce il concetto di bitcoin?
Dall’idea ambiziosa di un programmatore anonimo, noto con lo pseudonimo di “Satoshi Nakamoto”, di sottrarre la sovranità monetaria agli Stati e promuovere la totale disintermediazione del sistema dei pagamenti. Il circuito Bitcoin consente, infatti, di effettuare trasferimenti di denaro in modo sicuro, istantaneo e poco oneroso bypassando completamente le autorità di politica monetaria e l’assistenza degli intermediari finanziari.

Sono depositati in banca?
No. I bitcoin transitano al di fuori dei tradizionali circuiti bancari e, come ogni altra moneta digitale, possono essere custoditi grazie a un software installabile su PC o dispositivo mobile. In questo modo ogni utente può creare il proprio portafoglio digitale, o wallet, e connettersi al network che consente il trasferimento dei bitcoin.

Come si entra in possesso dei bitcoin?
In modi diversi. Il primo è partecipare al processo di estrazione di bitcoin iscrivendosi ai cosiddetti “Mining Pool” e mettendo a disposizione del network la capacità di calcolo del proprio microprocessore. In alternativa è possibile scambiare i bitcoin con altre valute o accettarli come corrispettivo di un bene venduto o di un servizio erogato.

Come si comprano e vendono i bitcoin?
Il canale più diffuso è rappresentato dai siti web di exchange (il portale specializzato Cryptocoincharts.info ne conta 127) che mettono a disposizione degli utenti registrati una piattaforma sulla quale è possibile scambiare i bitcoin con altre valute al tasso di cambio corrente.

Cos’è la Blockchain?
E’ la vera rivoluzione tecnologica del sistema Bitcoin. Si tratta di una sorta di libro mastro che custodisce le informazioni relative a tutte le transazioni effettuate a partire dall’assegnazione del primo bitcoin e viene gestito “collettivamente” dai partecipanti al network. In termini operativi, la blockchain, prima di movimentare il conto degli iscritti, verifica, attraverso una procedura automatica, che le transazioni economiche siano regolari e che nessun utente spenda più bitcoin di quanti ne possiede.

Si possono acquistare beni reali con i bitcoin?
In teoria, si. In pratica affinché ciò sia possibile è necessario che l’azienda che vende il bene accetti che la transazione sia regolata in bitcoin. Sotto questo aspetto, è ancora molto complicato, specie in Italia, trovare aziende disposte accettare pagamenti in bitcoin. Per aver una idea più precisa è possibile consultare il portale Coinmap.org.

Che rischi ci sono?
Come sottolineato recentemente da Bankitalia (Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2017), essendo i bitcoin una moneta digitale non legalmente riconosciuta, rappresentano un asset vulnerabile a repentine crisi di fiducia. L’elevata volatilità del prezzo costituisce in questo momento il principale fattore di rischio per chi detiene in portafoglio bitcoin.

Sparita la fiducia tra mandatari e delegati, si rompe il tacito patto tra elettori ed eletti in favore di un rapporto completamente differente: Non si vota più chi nella dimensione decisionale, a qualsiasi livello, rappresenta la massa, pur rimendo libero nelle sue scelte, si decide di votare un mandatario, che insieme alla massa compirà una scelta. Alessandro Barbano ci offre una serie di spunti per riflettere sulla crisi di questo rapporto, sul perché questa rottura si è verificata e che ruolo hanno avuto gli organi d’informazione nell’accaduto. Ospite dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” mercoledì 28 novembre al Dipartimento di lettere e beni culturali il direttore de "Il Mattino" ha saputo coinvolgere il pubblico formato da studenti e docenti del dipartimento, su un tema d’interesse non solo nazionale ma internazionale. Parlando del fenomeno Brexit, del movimento 5 stelle e di tutta una serie di conseguenze verificatesi al capezzale della delega.

Ruolo strategico nel disfacimento del legame tra massa e rappresentanti lo ha ricoperto sicuramente internet, Internet 2.0 come lo chiama Barbano, dove si sacrifica la qualità all’altare del “Dio quantità”, inteso come quantità di click e quindi di lettori e consequenzialmente di soldi. Se “il giornalismo è una proiezione dei rappresentati nella società civile” come dice Barbano, la carta stampata resta relegata ai vertici della piramide sociale, letta solo da un élite, di contro il mondo del “giornalettismo” cibernetico è decisamente aperto alle masse. Il quotidiano in sostanza sceglie tra tutti gli accadimenti del giorno quali sottoporre al lettore in base ad una “scala di valori, l’architettura di una civiltà civile”, di diverso approccio la linea del giornalismo on-line che di fatti sceglie e seleziona le notizie in base ad una “scala di priorità fatta dal mercato”. Un’informazione faidate, dove “chiunque abbia una cultura di base può accedere ad internet e decontestualizzando le nozioni può tracciare un’idea propria” fuori dalle linee che un’informazione mediata invece potrebbe dare.

Oltre il peso rilevante di internet nella questione Barbano ha esposto sulla crisi dei doveri e dei diritti che ha di fatti compartecipato alla questione crisi della delega, diventando “fattore di disgregazione della democrazia”

Schierandosi apertamente contro il movimento di Grillo, il direttore lo etichetta come una “patologia, un’utopia di una democrazia disintermediata  che esprime al meglio la frattura” centro della discussione.

Barbano ci offre anche la sua cura alla malattia degenerativa che ha colpito il rapporto tra elettori ed eletti: Ridonare dignità decisionale ai rappresentati e agli organi di potere, controlladone l’operato, per fare tesoro del passato e non incappare nell’ “errore degli errori”.


A cura di Margherita Tamburro, studentessa in Lettere al Dipartimento di Lettere e Beni Culturali

Contro le molestie sessuali Celebrities in black per i Golden Globes. Da Harvey Weinstein alle recentissime notizie su Paul Haggis, passando per Carl Sargeant fino a Britney Spears, sono davvero tante oggi le accuse di molestie sessuali che circolano sui giornali, social e sul web, a carico di personaggi famosi e star dello spettacolo.
E in Italia? Che tutela c'è contro questo fenomeno?


A cura di Roberta Catalano, giurista e docente di Diritto Privato al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Vanvitelli

Violenza, molestie, abuso: c’è differenza per la legge italiana?
La violenza sessuale si realizza con un qualsiasi atto che mira a soddisfare una esigenza sessuale di chi lo pone in essere e che, risolvendosi in un contatto corporeo, pur se fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo del reato, ovvero in un coinvolgimento della sfera fisica di quest'ultimo, ponga in pericolo la libera autodeterminazione della persona offesa nella sfera sessuale. Diversamente, la molestia a sfondo sessuale verrebbe ad essere integrata in presenza di espressioni volgari a sfondo sessuale, ovvero di atti di corteggiamento invasivo diversi dall'abuso sessuale.
L’ordinamento italiano non prevede specificamente il reato di "molestia sessuale".
Dunque, gli approcci a sfondo sessuale, a seconda di come vengono realizzati, possono integrare gli estremi della violenza sessuale, punita dall'art. 609 bis del Codice Penale, oppure della molestia generica di cui all'art. 660 del codice penale.
Qual è il discrimine tra complimento, scherzo, e molestia? Quando ci sono gli estremi per una denuncia?
La linea di confine è molto sottile e va verificata caso per caso, perché dipende strettamente dal contesto, anche culturale, entro il quale si muovono i protagonisti della vicenda, nonché dal loro atteggiamento complessivo.
Per verificare se c'è reato o no, è molto importante accertare un fatto: quanto chiaro era al molestatore che quella determinata condotta o corteggiamento fosse sgradito alla vittima. Gli approcci sessuali possono, poi, assumere diverso rilievo penale se realizzati in un contesto familiare o lavorativo o scolastico, ovvero in modo da integrare il reato di stalking.
C’è un tempo limite entro il quale denunciare?
Per i reati non perseguibili d'ufficio, come molestie, abusi e violenze, la vittima non denuncia, termine utilizzato nel gergo comune, ma, tecnicamente, sporge querela. In particolar modo, per i reati contro la libertà sessuale, così come per il reato di stalking, il termine entro cui la querela può essere sporta è di sei mesi a decorrere dal fatto costituente reato. Quindi, in un termine più lungo di quello stabilito in generale per i reati non perseguibili d'ufficio, che è di tre mesi.
La mia testimonianza ha valore anche se denuncio dopo molti anni?
Decorsi i termini di legge, la condotta non è più perseguibile né sul piano penale né su quello civile. Come dimostra il clamore sollevato dalle recenti dichiarazioni delle attrici che hanno affermato di aver subito molestie ed abusi sessuali, denunciare significa conferire al tema una importante rilevanza mediatica e peso politico:  seppur tardiva, la denuncia è comunque utile a sensibilizzare l'opinione pubblica e, soprattutto, a far sentire meno sole le altre vittime inducendole ad agire magari tempestivamente.
D'altro canto, il presunto autore delle violenze o molestie può sempre difendere la propria onorabilità in sede civile e penale. I comportamenti tenuti dai protagonisti della presunta vicenda nei mesi successivi al verificarsi dello scandalo possono essere molto più significativi e rivelatori dei loro proclami mediatici.
Ad ogni modo, se è vero che il decorso di molto tempo fa nascere dei dubbi su quelli che possono essere i reali motivi dell'outing, è anche vero che la vittima può aver scelto di tacere per vergogna o per la continuità di rapporti, ad esempio lavorativi, con l'autore delle molestie o delle violenze.
Ci sono differenze tra la legislazione in Italia e nel resto del mondo?
Limitiamoci ai paesi occidentali con cultura simile alla nostra: le molestie non conoscono prescrizione in Gran Bretagna; negli altri paesi variano i termini per la proposizione della querela.
La legislazione italiana tutela le vittime di reati sessuali?
Si. Ma, come sempre, è migliorabile. Per esempio prevedendo e punendo specificamente il reato di molestie sessuali; facendo sempre decorrere il termine per sporgere querela dal momento in cui la vittima cessa di essere potenzialmente esposta alle rappresaglie del molestatore; introducendo nuove misure preventive e rieducative, anche in relazione all'uso dei social, al fine di indurre il graduale superamento di una certa cultura maschilista e misogina.
Bisogna stare attenti, però! Ogni modifica o integrazione alla legislazione riguardante la materia in esame va accuratamente ponderata, per evitare che si crei un clima di caccia alle streghe o, peggio, che le norme poste a protezione delle vittime diventino armi nelle mani di chi se ne approfitta.
A chi rivolgersi in caso di molestie sessuali?
La querela si può presentare presso gli organi di Polizia o dell'Autorità Giudiziaria. Le donne in difficoltà possono poi rivolgersi ad associazioni e centri antiviolenza che si occupano dell'assistenza alle vittime.

A cura di Roberta Catalano, giurista e docente di Diritto privato al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli

Leucemia e l’anemia aplastica, linfomi, talassemie. Queste gravi malattie possono essere sconfitte grazie al trapianto del midollo osseo.

Cerchiamo di capirne di più.


A cura di Francesca Rossi, docente di Pediatria Generale e Specialistica presso il Dipartimento della Donna, del Bambino e di Chirurgia generale e specialistica all'Università Vanvitelli

Cos’è il midollo osseo?
Il midollo osseo è l’organo presente all'interno di tutte le nostre ossa che ha il compito di produrre elementi del sangue fondamentali per il funzionamento dell’organismo: per il trasporto dell’ossigeno ai tessuti, per il funzionamento del sistema immunitario e altre importanti funzioni. Come gli altri organi anche il midollo può ammalarsi.
In questi casi, infatti, il midollo osseo, formato da cellule che danno origine a tutte le cellule del sangue, le cellule staminali perde la sua funzionalità, che può essere recuperata solo grazie alla sostituzione delle cellule malate con altre in grado di riprodursi. Il trapianto può avvenire, dopo particolari trattamenti, con cellule sane dello stesso paziente oppure con cellule prese da un donatore.

In cosa consiste il trapianto di midollo?
Con il trapianto di midollo osseo vengono prelevate cellule staminali sane da un donatore e, tramite trasfusione sanguigna, trasferite al ricevente. Queste cellule hanno la meravigliosa capacità di raggiungere attraverso la circolazione sanguigna gli spazi midollari, in cui si insediano e ricostruiscono il midollo osseo.

Da cosa dipende la compatibilità con il donatore?
Ciascuno di noi possiede un patrimonio di geni, ereditati dai genitori, che, come le impronte digitali, ci caratterizza in maniera univoca. Il successo di questo trattamento è strettamente legato a questo fattore, e dipende soprattutto compatibilità tra ammalato e donatore. Quando la compatibilità è elevata, l’organismo riconosce le cellule come “proprie” e quindi ne favorisce la circolazione, permettendo la ricostruzione del midollo. I test svolti per determinare la compatibilità sono chiamati tipizzazione HLA.

Posso diventare donatore?
Sì, a patto che tu abbia queste caratteristiche:
- età compresa tra 18 e 36 anni al momento dell’iscrizione al registro;
- peso corporeo superiore a 50 Kg
- essere in salute, ovvero non essere affetto da malattie croniche e/o patologie infettive, non assumere farmaci in maniera continuativa ad eccezione della pillola anticoncezionale.
La donazione resta anonima in tutte le sue fasi, volontaria e non retribuita.

Ho un fratello o una sorella: ho più probabilità che loro siano i donatori ideali?
La probabilità di ritrovare un patrimonio genetico simile è più elevata nell’ambito della stessa famiglia. Tuttavia, in caso di donazione di midollo, solo il 25-30% dei pazienti che necessita di un trapianto possiede un donatore identico nell’ambito familiare. Per questo motivo sono nati i Registri dei donatori.

Cosa sono i Registri di donatori?
I registri di donatori sono delle vere e proprie banche dati, collegate fra loro in una rete internazionale: con i Registri si moltiplicano in maniera esponenziale le possibilità di trovare donatori compatibili.
Anche in Italia è stato avviato un programma denominato "Donazione di Midollo Osseo" ed esiste, dal 1989, un Registro Nazionale (IBMDR) con sede a Genova presso il Laboratorio di Istocompatibilità dell'E.O."Ospedali Galliera". Esso ha lo scopo di procurare ai pazienti in attesa di trapianto ma privi del donatore ideale un volontario, estraneo alla famiglia, con caratteristiche immunogenetiche tali da consentire la procedura terapeutica con elevate probabilità di successo.

Come posso diventare donatore?
Per diventare donatore basta una firma. Puoi rivolgerti a una delle strutture ospedaliere che partecipano al programma nazionale “Donazione di midollo osseo” per firmare il consenso informato e sottoporti ad un semplice prelievo di sangue, che serve a stabilire le tue caratteristiche genetiche. Solo nel caso in cui venga accertata la possibile compatibilità con un paziente in attesa di trapianto, verresti sottoposto ad ulteriori prelievi di sangue (indagini di secondo e terzo livello), necessari per confermare definitivamente la compatibilità. La vera e propria donazione, infatti, avverrà solo quando si avrà certezza di compatibilità presso il Centro Trapianti più vicino alla tua residenza.
Contatta il centro donatore più vicino, la lista completa dei centri è consultabile qui oppure contatta le Associazioni di settore: www.admo.it e www.adocesfederazione.it
Ricorda: la firma del consenso ha solo un valore morale e fino all’ultimo momento ha il diritto di ritirare il tuo consenso alla donazione. In caso contrario, rimarrai iscritto nel Registro Donatori di Midollo Osseo fino al compimento del 55° anno di età.

Dove finiscono i miei dati genetici?
I tuoi dati genetici vengono registrati su un archivio informatico e trasferiti al registro nazionale e tramite esso al registro internazionale.

Come avviene la donazione di midollo osseo?
Puoi donare con un piccolo intervento o tramite prelievo di sangue. Con la donazione classica, vieni sottoposto ad un intervento in anestesia, durante il quale personale medico specializzato effettua ripetuti prelievi di midollo dalle ossa del bacino. L’intervento è preceduto da un colloquio con un anestesista, che permette allo specialista di valutare clinicamente il donatore ed informarlo sui fattori di rischio anestesiologico. A questo tipo di donazione segue un post-operatorio di qualche giorno, in genere si va dalle 24 alle 48 ore.
Oppure, puoi scegliere di donare con un prelievo sanguigno. Nei cinque giorni che precedono la donazione, dovrai assumere un farmaco utile per la crescita delle cellule staminali. Si tratta di una procedura generalmente molto ben tollerata, che  non richiede nessun tipo di ricovero o anestesia.
A quale rischio vado incontro se mi sottopongo alla donazione?
In caso di donazione classica, potresti accusare indolenzimento nelle zone in cui sono state effettuate le punture, o reazioni allergiche. Qualunque sintomo post-operatorio sarà comunque opportunamente monitorato e gestito nel corso della degenza post-operatoria.
In caso di donazione con prelievo di sangue, invece, il farmaco potrebbe generare effetti collaterali connessi all’assunzione, come dolori ossei, cefalee o perdita di appetito, ma i sintomi scompaiono una volta sospeso il trattamento.

Un po’ di dati
Attualmente sono circa 29 milioni sono i donatori iscritti nella rete dei registri internazionali. Ancora troppo pochi. Nonostante il numero comunque importante, solo il 35-40% dei pazienti che attivano la ricerca sui registri, infatti, riesce ad identificare un donatore non consanguineo HLA-identico in un 3 – 4 mesi, tempo medio stimato che intercorre tra l’inizio della ricerca e la realizzazione del trapianto.

 

Anticorpi monoclonali contro emicrania e cefalea a grappolo, nel Centro Cefalee dell’Università Vanvitelli, tra i pochissimi centri italiani - e unico in Campania - dove sono in sperimentazione 3 delle 4 molecole in arrivo in clinica nel prossimo futuro.
 
Gli anticorpi monoclonali anti-CGRP, che “attaccano” la causa di emicrania e cefalea a grappolo, riducono fino al 70% i giorni di mal di testa con appena un’iniezione sottocute o endovena ogni uno/tre mesi. Lo dimostrano gli studi in corso presso il Centro Cefalee dell’Università Vanvitelli, dove sono condotti i test su ben 3 dei 4 anticorpi monoclonali anti-mal di testa in fase di sperimentazione clinica nel mondo.  Gli studi, su pazienti con emicrania cronica, emicrania episodica grave che non risponde ai farmaci, cefalea a grappolo cronica e cefalea a grappolo farmaco-resistente, proseguono per portare presto in clinica queste molecole: l’European Medicines Agency sta già esaminando i dossier di Erenumab, uno degli anticorpi allo studio a Napoli.
 
“Pallottole d’argento” dirette contro il mal di testa che non passa, capaci di mettere il silenziatore alle terribili crisi in cui il dolore è tale da non permettere neppure di alzarsi dal letto: sono gli anticorpi monoclonali contro CGRP, da tempo allo studio contro emicrania e cefalea a grappolo e ora sempre più vicini alla clinica grazie alle ricerche condotte presso il Centro Cefalee dell’Università Vanvitelli di Napoli. I dati preliminari delle nuove sperimentazioni cliniche di fase III, discusse in occasione del congresso della Società Italiana di Neurologia, mostrano che con un’iniezione di anticorpi a cadenza variabile da uno a tre mesi, a seconda della molecola, la frequenza e l’intensità degli attacchi di mal di testa può ridursi fino al 70%. Il Centro sta conducendo una sperimentazione per ben 3 dei 4 anticorpi anti-CGRP attualmente allo studio, utilizzati in casi di emicrania cronica, emicrania episodica grave che non risponde ai farmaci, cefalea a grappolo cronica e cefalea a grappolo farmaco-resistente.

“Gli anticorpi monoclonali anti-CGRP o Calcitonin Gene Related Peptide sono allo studio da tempo: si è scoperto infatti che questo piccolo peptide di 37 aminoacidi è un vasodilatatore coinvolto nella trasmissione dei segnali di dolore durante gli attacchi di emicrania – spiega Gioacchino Tedeschi, Direttore del Centro Cefalee della I Clinica Neurologica dell’Università Vanvitelli, Presidente eletto SIN e coordinatore degli studi in corso – I livelli di CGRP aumentano in concomitanza delle crisi e tornano alla normalità quando l’attacco si risolve: gli studi di fase I e II hanno dimostrato che anticorpi monoclonali diretti contro il peptide o contro i suoi recettori presenti sul sistema trigeminale, bloccano questa via del dolore impedendo a CGRP di innescare la crisi dolorosa. In questo momento sono allo studio 4 diversi anticorpi monoclonali, 3 di questi sono in sperimentazione presso il nostro Centro con risultati ottimi: uno di questi anticorpi riduce in media del 70 % la frequenza e l’intensità degli attacchi di emicrania cronica con una sola iniezione sottocute ogni mese”. Si tratta di Erenumab, il più vicino ad arrivare in clinica: il dossier per l’autorizzazione al commercio è già stato presentato presso la European Medicines Agency. Gli altri 2 anticorpi monoclonali in sperimentazione a Napoli sono Eptinezumab, che si somministra per via endovenosa ogni 3 mesi, e Fremanezumab, da assumere ogni mese per via endovenosa o sottocute.

“Tutti questi anticorpi monoclonali sono molto promettenti – sottolinea Tedeschi – Stiamo parlando di pazienti con attacchi di emicrania per oltre 14 giorni al mese o che hanno un’emicrania episodica che non risponde alle terapie preventive, oppure di pazienti con cefalea a grappolo cronica, la cosiddetta cefalea da suicidio perché le crisi si susseguono di fatto ogni giorno, oppure con cefalea a grappolo episodica resistente ai farmaci: tutte persone per le quali una riduzione del numero di giorni con mal di testa significa tornare ad avere una qualità della vita accettabile. Nella nostra casistica ci sono perfino pazienti che hanno di fatto risolto il mal di testa liberandosi dalle crisi. In totale per le sperimentazioni in atto stiamo seguendo una ventina di casi, suddivisi fra i 3 diversi anticorpi monoclonali”. L’apparente esiguità  del numero di pazienti dipende dal fatto che il Centro fa parte di una rete di strutture che partecipano al trial internazionale, assieme a soli  altri 7 centri in Italia. “I nuovi farmaci per il trattamento dell’emicrania, che è stata inserita dall’OMS nella sua forma cronica al 6° posto tra le cause di disabilità, rappresentano certamente un notevole passo in avanti – osserva Tedeschi – Tuttavia, essendo agli albori di questo nuovo approccio farmacologico, non è ancora possibile sapere se diventeranno una terapia di prima linea o una terapia di fase avanzata per quelle forme di cefalea refrattarie ai più comuni trattamenti. In ogni caso rappresentano tanto per i pazienti quanto per noi medici una fonte di speranza in questa lotta spesso difficile contro l’emicrania, una patologia molto diffusa  che solo nel nostro Paese colpisce 5 milioni di italiani, pari al 18% della popolazione femminile e al 9% di quella maschile. Grazie alle sperimentazioni in corso, inoltre, la speranza è che gli anticorpi monoclonali possano diventare un’arma in più anche contro la cefalea a grappolo, meno frequente e più diffusa fra gli uomini rispetto alle donne ma altrettanto se non più disabilitante”.