L'approfondimento di Giuseppe Paolisso, Rettore della Seconda Università degli studi di Napoli
Come ogni anno con l’approssimarsi degli esami di maturità riparte immancabile il dibattito sull’accesso programmato ai corsi di laurea di medicina e delle professioni sanitarie che nell’immaginario collettivo rappresentano la massima espressione della negazione del diritto allo studio in Italia. In effetti, il comune pensiero dilagante nel popolo dei maturandi è che per motivi di protezionismo professionale la medicina accademica italiana vuole un ridotto numero di laureati in medicina per poter garantire a tutti lauti e sicuri guadagni o il procrastinarsi di un fantomatico potere (quello dei “ baroni universitari”).
Da qui nasce ovviamente una serie interminabile di ricorsi amministrativi, che prendendo come spunto il diritto allo studio e/o anomalie nelle procedure concorsuali al momento del test di ammissione, sono tesi a permettere l’accesso ai corsi di laurea di medicina e professioni sanitarie ad un numero di studenti ben più vasto di quello programmato. Ma veramente il popolo dei ricorsisti è anche quello di un diritto allo studio negato? Esaminiamo fatti e numeri.
L’accesso programmato a medicina esiste non per una volontà protezionistica della medicina accademica italiana, ma perché con il DM 270/2004 in Italia si consegue a medicina un laurea magistrale a ciclo unico che consente a tutti coloro che ne sono in possesso di potersi iscrivere, e quindi esercitare la professione, presso qualsiasi Ordine dei Medici dell’Europa comunitaria, poiché si condividono le regole formative. Pertanto per un neolaureato italiano in medicina non è assolutamente necessario sostenere un esame di stato abilitante in Europa comunitaria.
Le regole formative essenziali sono 3:
- un rapporto ben definito di posti letto e studenti da ammettere;
- numero congruo di docenti in rapporto agli studenti;
- disponibilità di strutture (aule, aule studio etc..) in quantità sufficienti per permettere un adeguato svolgimento delle lezioni in relazione agli studenti che frequentano.
Tenendo presente questi parametri ogni anno ciascun’università comunica al MIUR il numero massimo di studenti che possono essere iscritti ai corsi di medicina o di professioni sanitarie. Se vi sono variazioni nei parametri su riportati, le Università sono tenute a un adeguamento numerico degli iscritti. E’ questo il motivo per cui si deve parlare di “numero programmato” e non di “numero chiuso” come molto impropriamente è definito.
Un problema è rappresentato sicuramente dal metodo con cui si compie oggi la selezione degli ammessi. I quiz a risposta multipla sono una metodica largamente diffusa specie nei paesi anglosassoni ma che da noi hanno ancora difficoltà a essere accettati. Vi sono state molte discussioni sulla validità di tali quiz, chi li ritiene troppo nozionistici, chi mal distribuiti nei vari domini culturali investigati, chi non utili per selezionare i migliori. La verità è che i quiz, che hanno subito una notevole evoluzione nel tempo tali renderli sempre meno nozionistici e più legati al corredo di conoscenze che ciascuno studente si porta appresso dagli studi effettuati, selezionano solo chi fornisce più risposte esatte, che però inevitabilmente corrisponde a chi ha il migliore corredo culturale.
A prova di ciò sta la dimostrazione che a Medicina si laureano circa 75-80% degli studenti entro i 6 anni, contro una media del 35-55% di tutte le altre discipline. Inoltre la maggior parte dei laureati in medicina (oltre il 65%) degli ultimi 10 anni presenta voti medi curriculari superiore al 26/30 che risentono ovviamente del miglior rapporto docente/studente e quindi di una didattica privilegiata a cui questi studenti sono esposti.
Una critica probabilmente giusta a questo sistema, che al momento riesce a coniugare in maniera abbastanza efficace quantità e qualità come testimoniato dall’elevato e sempre piu’ crescente numero di medici italiani che vanno a lavorare all’estero, è la mancanza di selezione in rapporto all’attitudine psicologica a svolgere la professione medica.
Considerando però che gli abbandoni sono estremamente rari (meno del 3% vs percentuali a due cifre nelle altre discipline) questo problema sembra essere non rilevante. La realtà è che il sistema è pesato per selezionare coloro che si sono dedicati con maggiore dedizione agli studi nella scuola superiore e non permette facili recuperi all’ultimo momento. Se questo sia una pecca è difficile dirlo, ma certamente va nel senso della meritocrazia.
Un’ulteriore particolarità di tutto il sistema è rappresentato dal fatto che la stragrande maggioranza degli ammessi appartiene al sesso femminile (circa i 3/4 degli ammessi e quindi dei laureati) e questo forse perché nelle donne c’è un maggiore determinazione ed una maggiore dedizione allo studio negli anni addietro. In un sistema dove tutti possono concorrere – senza più distinzioni tra licei ed istituti professionali come prima del 68 - tutti hanno la possibilità di confrontarsi, tutti hanno la possibilità di concorrere per tutte le sedi e confrontarsi con tutti gli altri studenti del territorio nazionale, e tutti sono messi nelle medesime condizioni in un concorso estremamente trasparente e con regole di sicurezza così avanzate che spesso sono simili a quelli di un controllo aeroportuale statunitense, dov’è la violazione del diritto allo studio? A meno che per diritto allo studio non si intenda che tutti possono fare tutto, ed allora però bisogna abrogare ad alcune leggi comunitarie o al diritto di ciascuno di noi di avere una buona sanità e degli eccellenti professionisti che tutto il mondo ci invidia.
Certamente una battaglia da fare per il diritto allo studio non è quella della libera iscrizione, ma piuttosto quella del sostegno economico che il governo dovrebbe dare alle famiglie disagiate che vedono il loro figlio/a essere idoneo/a al concorso di ammissione e non avere magari la forza economica di mantenerlo/a fuori sede. Infatti l’attuale forma del concorso nazionale, con un pacchetto unico di circa 10.000 posti a disposizione, prevede che uno studente del Sud possa avere accesso ad un Università del Nord e viceversa. Questo strumento è utile perché mette tutti sullo stesso piano dal punto delle opportunità d’iscrizione, ma crea squilibrio tra chi si può permettere di mantenere un figlio fuori sede e chi no, peraltro per un periodo minimo di 6 anni che è il doppio del tempo di una classica laurea triennale.
L’accesso a medicina tanto richiesto in Italia (il rapporto tra e posti a disposizione e partecipanti è di circa 8 a 1) ha bisogno di un maggiore giustizia sociale e dovrebbe essere accompagnata da forme specifiche di sostegno allo studio che oggi sono poco presenti. Come fa una famiglia non abbiente a mantenere per 6 anni un figlio fuori città o fuori Regione dovendogli pagare almeno alloggio, vitto e studio? E quante università sono attrezzate con residenze o altre forme di accoglienza per il sostegno allo studio? E’ questo il vero diritto allo studio negato, non il numero programmato in sé. Se battaglia si deve fare ben venga ma essa non deve essere indirizzata al cambio del sistema (visto i citati risultati positivi che ne testimoniano la validità) ma verso una maggiore equità sociale che permetta veramente a tutti una libera scelta e la realizzazione delle proprie aspirazioni.